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2020-08-27
Speranza cincischia ma il supercontratto non spunta fuori
Roberto Speranza (Ansa)
Acque assai agitate a Lungotevere Ripa a seguito dello scoop pubblicato ieri dalla Verità. Ieri il ministero della Salute ha ritenuto opportuno diramare una nota di chiarimento in merito alla vicenda sul contratto «fantasma» con Astrazeneca per la fornitura del vaccino contro il Covid. «In relazione ad alcune notizie di stampa inerenti il vaccino di Astrazeneca», recita il comunicato facendo riferimento alla nostra inchiesta senza però mai citarla, «si precisa che il 12 giugno 2020 è stata sottoscritta l'intesa dai quattro Stati promotori (Italia, Francia, Olanda, Germania) con l'azienda per lo sviluppo e produzione di 400 milioni di dosi di vaccino Covid destinato a tutta la popolazione europea». Quando si dice che la toppa è peggio del buco. Le parole del ministero non convincono, anzi se possibile destano ancora più confusione. E di sicuro non rappresentano una smentita a quanto documentato con dovizia di particolari dal nostro quotidiano.
Per comprendere meglio, però, può essere utile riassumere per sommi capi i punti più importanti della questione. Lo scorso 13 giugno, dal lussuoso palcoscenico di Villa Pamphilj, il ministro della Salute Roberto Speranza annunciava di aver sottoscritto, insieme agli omologhi di Germania, Francia e Paesi Bassi «un contratto con Astrazeneca per l'approvvigionamento fino a 400 milioni di dosi di vaccino da destinare a tutta la popolazione europea». Ma in risposta a una nostra richiesta di accesso agli atti nella quale chiedevamo di prendere visione di questo documento per studiarne gli aspetti legali ed economici, lo stesso ministero guidato da Speranza ne smentiva clamorosamente l'esistenza. «Si segnala che lo scrivente ministero non ha sottoscritto alcun contratto con la società Astrazeneca», si legge nella nota firmata da Mauro Dionisio, membro del Comitato tecnico scientifico e direttore dell'Ufficio di coordinamento degli uffici di sanità marittima-aerea e di frontiera.
E allora? A quale contratto faceva riferimento il ministro a metà giugno? In realtà, come spiegato più avanti da Dionisio, «nell'ambito delle iniziative volte a consentire all'Italia l'acquisizione delle scorte di vaccino anti Covid, il ministero della Salute ha avviato, insieme a Francia, Germania ed Olanda, contatti con la suddetta società senza addivenire alla stipula di un contratto vincolante». Stando a quanto riferisce lo stesso ministero, dunque, l'accordo raggiunto tra i membri della «Inclusive vaccine alliance» vale più o meno quanto le chiacchiere tra i quattro amici al bar cantati da Gino Paoli. Perché un conto è firmare un'intesa, i cui contenuti rimangono peraltro nell'ombra, tutt'altra cosa invece sottoscrivere un contratto che per sua natura rappresenta un istituto giuridico in grado di obbligare le parti.
Non è tutto, perché nella risposta inviata al nostro quotidiano dalla Direzione generale della prevenzione sanitaria viene specificato chiaramente che «l'Italia, e gli altri Paesi partners, hanno ritenuto opportuno di far confluire il negoziato a suo tempo avviato con Astrazeneca con gli altri appena attivati dalla Commissione europea cui è, pertanto, affidata la totale gestione delle interlocuzioni». Nella nota diffusa ieri, il ministero della Salute ha liquidato questo passaggio come una semplice bollinatura da parte di Bruxelles: «La Commissione europea ha condiviso pienamente l'iniziativa dei quattro Paesi della “Alleanza per il vaccino" e il 14 agosto ha comunicato pubblicamente di aver dato seguito formale all'intesa con Astrazeneca». Quasi che il disco verde da parte di Ursula von der Leyen fosse una semplice formalità.
Secondo la Commissione, interpellata dalla Verità, la questione però non sta esattamente in questi termini. Un portavoce, infatti, ha spiegato ieri al nostro quotidiano che Bruxelles «ha ricevuto una richiesta da parte del gruppo dei quattro Paesi affinché la Commissione subentrasse nella stipula del contratto e lo perfezionasse per conto degli Stati membri». Cosa poi effettivamente avvenuta il 14 agosto, data dell'annuncio di un accordo con Astrazeneca per la fornitura a livello europeo di 300 milioni di dosi. Un passaggio di consegne che possiamo far risalire al 17 giugno, quando la Commissione ha varato la Strategia europea dei vaccini. «Tutti e 27 i Paesi membri hanno adottato l'approccio dell'Ue», riferisce il portavoce, «impegnandosi a non portare avanti negoziati paralleli (per il vaccino, ndr)». Altro che capofila, in realtà l'Italia ha ceduto lo scettro dei negoziati alla Commissione senza tanti complimenti. Con quale atto politico non è dato sapere, ma una cosa è certa: ogni mossa ha avuto luogo nell'ombra, senza che alla decisione di consegnare i negoziati a Bruxelles fosse dato il giusto risalto.
Un aspetto che, nel corso dell'informativa in Senato lo scorso 6 agosto, il ministro si è guardato bene dal sottolineare. Per contro, di fronte ai senatori Roberto Speranza si è ostinato a citare il fantomatico contratto. «Noi abbiamo sottoscritto un primo accordo molto importante con Astrazeneca […] abbiamo un contratto che dice che esso (il candidato vaccino, ndr) arriverà, se andrà bene, già alla fine dell'anno», ha dichiarato parlando in aula. Delle due l'una: o Speranza continua a considerare validi gli accordi bilaterali, andando così contro i dettami della Commissione europea; oppure, dato che l'annuncio dell'intesa tra Astrazeneca e Bruxelles sarebbe arrivato solo una settimana più tardi, è andato a Palazzo Madama a parlare di un contratto che non esiste. Quale delle due opzioni sia più grave, a voi la scelta.
I big del farmaco trattano con l'Ue l'immunità per gli effetti collaterali
Gli esperti avvertono: il vaccino non è la panacea contro il Covid
Nella corsa la vaccino contro il coronavirus Sars-Cov2 ci sono più di 160 candidati, ma il successo è tutt'altro che dietro l'angolo. Un prodotto può essere sicuro, ma poco efficace nel proteggere dal virus, oppure avere effetti collaterali rari, ma gravi, che si possono riconoscere solo quando testato in centinaia di migliaia di persone. La comunità scientifica guarda con perplessità agli annunci trionfalistici di Paesi come la Russia e la Cina.
Saltando a piè pari la fase tre di sperimentazione, nei due Paesi, le rispettive agenzie regolatorie dei farmaci, hanno approvato l'uso del vaccino necessario all'avvio della produzione. «Credo si tratti di un annuncio per dire che sono arrivati prima degli altri, ma probabilmente attenderanno a impiegarlo. Al massimo verrà somministrato nel personale sanitario, nei contesti di emergenza», osserva Antonio Clavenna, ricercatore del dipartimento di Salute pubblica dell'Istituto Mario Negri.
Hanno un obiettivo più finanziario invece gli annunci che arrivano dalle aziende che stanno facendo ricerca: ogni risultato, anche piccolo, è un balzo nelle azioni. L'efficacia di un vaccino non è proprio una cosa facile e soprattutto veloce da provare: alcune fasi richiedono tempi e numeri di persone da coinvolgere che non sono elastici. Dati alla mano, nel mondo, sono 32 i candidati sperimentati sull'uomo a vari livelli. Tra questi c'è anche quello italiano di ReiThera che ha iniziato lo studio di fase 1 allo Spallanzani nei giorni scorsi con la prima inoculazione in una volontaria. «La fase 1 serve per definire la sicurezza, dare le prime informazioni sulla capacità di indurre la produzione degli anticorpi (immunogenicità) e per capire il numero di dosi da somministrare», continua Clavenna. «La fase 2 assomiglia alla uno, ma è in un campione più ampio per avere una migliore idea della sicurezza e per decidere quale strada da seguire per dosi e momenti di somministrazione». Attualmente sono cinque i vaccini nella fase tre della sperimentazione, quella che precede l'approvazione e la produzione. «In prima fila», dice il professore, «c'è il prodotto dell'Università di Oxford e Astrazeneca, di cui l'italiana Irbm ha fornito il vettore, cioè il virus che trasporta il frammento di materiale genetico per produrre le proteine virali che inducono la sintesi degli anticorpi». Moderna è l'azienda americana che sta producendo, in partnership con l'istituto governativo (Niaid), il vaccino che prevede la somministrazione diretta del materiale genetico virale (Rna) nelle cellule muscolari che producono le proteine virali. «I due vaccini cinesi», spiega Clavenna, «sono diversi tra loro: uno utilizza un meccanismo simile a quello di Oxford, l'altro (CanSino) un sistema più classico, con virus inattivato». Pfizer e la tedesca BionTech hanno annunciato che registreranno entro ottobre il vaccino, che ha tecnologia simile a quella di Moderna. Sono vicini alla fase tre anche il prodotto di Janssen con l'israeliana Beth e quello franco-inglese di Sanofi e Gsk. La corsa non è solo ad arrivare primi, perché non è detto che i primi saranno i più efficaci. I candidati più avanti nello sviluppo (Moderna e Pfizer/BionTech) sono basati su una tecnologia che non è stata ancora utilizzata per produrre vaccini, quella dell'acido nucleico. Le aziende che hanno scelto una via più tradizionale sono invece indietro di sei mesi e inizieranno la fase tre solo a gennaio. «Vale la pena sperimentare anche altri vaccini perché non è detto che quelli che arrivano per primi alla fase 3 poi siano efficaci», ricorda il professore. La fase 3 è quella centrata principalmente sull'efficacia e coinvolge centinaia di migliaia di persone. Non serve solo per misurare quanti anticorpi sono presenti nel sangue, ma anche per capire se il farmaco, rispetto a chi non lo riceve, previene la malattia o ne riduce la gravità. «Questa è l'informazione che manca per tutti i vaccini in sperimentazione», osserva Clavenna. «Sappiamo che fanno produrre anticorpi, ma non sappiamo se non ci si ammala o ci si ammala in forma più lieve». Anche per questo motivo gli studi di questa fase si spostano in Paesi dove il virus circola di più, quindi in America, Brasile, Messico e Sud Africa. Ci sono ancora tante domande che attendono risposta. «Non sappiamo quanto dura l'immunità, sia quella indotta dalla malattia che dal vaccino», ricorda l'esperto. Alcuni vaccini sono promettenti perché producono anticorpi, ma non sappiamo se la ricaduta è la protezione clinica e per quanto tempo. La protezione indotta dal vaccino potrebbe essere molto breve, richiedere più somministrazioni e non dare il vantaggio atteso. Difficile pronunciarsi sull'efficacia. Probabilmente i vaccini, che nella migliore delle previsioni sarebbero in arrivo per la primavera del 2021, potrebbero cambiare il corso della malattia.
«In una situazione come quella attuale», conclude Clavenna, «non mi aspetto un vaccino che risolva la situazione eliminando il virus, ma piuttosto che in qualche modo sia in grado di ridurre la diffusione o la gravità della malattia».
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Dopo il nostro scoop, il ministro prova a chiarire: «Le 400 dosi acquistate? Era un'intesa europea». Il che non spiega nulla.Le aziende del settore temono una pioggia di denunce nel caso in cui qualche siero non dovesse funzionare come previsto. E ora chiedono una scudo legale a Bruxelles. Ma il tema richiederebbe ben altra trasparenza.L'attesa delle vaccinazioni contro il virus ha assunto ormai toni messianici. Antonio Clavenna (istituto Mario Negri) frena: «Non risolveranno tutta l'emergenza, la durata dell'immunità resta ignota».Lo speciale contiene tre articoli.Acque assai agitate a Lungotevere Ripa a seguito dello scoop pubblicato ieri dalla Verità. Ieri il ministero della Salute ha ritenuto opportuno diramare una nota di chiarimento in merito alla vicenda sul contratto «fantasma» con Astrazeneca per la fornitura del vaccino contro il Covid. «In relazione ad alcune notizie di stampa inerenti il vaccino di Astrazeneca», recita il comunicato facendo riferimento alla nostra inchiesta senza però mai citarla, «si precisa che il 12 giugno 2020 è stata sottoscritta l'intesa dai quattro Stati promotori (Italia, Francia, Olanda, Germania) con l'azienda per lo sviluppo e produzione di 400 milioni di dosi di vaccino Covid destinato a tutta la popolazione europea». Quando si dice che la toppa è peggio del buco. Le parole del ministero non convincono, anzi se possibile destano ancora più confusione. E di sicuro non rappresentano una smentita a quanto documentato con dovizia di particolari dal nostro quotidiano. Per comprendere meglio, però, può essere utile riassumere per sommi capi i punti più importanti della questione. Lo scorso 13 giugno, dal lussuoso palcoscenico di Villa Pamphilj, il ministro della Salute Roberto Speranza annunciava di aver sottoscritto, insieme agli omologhi di Germania, Francia e Paesi Bassi «un contratto con Astrazeneca per l'approvvigionamento fino a 400 milioni di dosi di vaccino da destinare a tutta la popolazione europea». Ma in risposta a una nostra richiesta di accesso agli atti nella quale chiedevamo di prendere visione di questo documento per studiarne gli aspetti legali ed economici, lo stesso ministero guidato da Speranza ne smentiva clamorosamente l'esistenza. «Si segnala che lo scrivente ministero non ha sottoscritto alcun contratto con la società Astrazeneca», si legge nella nota firmata da Mauro Dionisio, membro del Comitato tecnico scientifico e direttore dell'Ufficio di coordinamento degli uffici di sanità marittima-aerea e di frontiera.E allora? A quale contratto faceva riferimento il ministro a metà giugno? In realtà, come spiegato più avanti da Dionisio, «nell'ambito delle iniziative volte a consentire all'Italia l'acquisizione delle scorte di vaccino anti Covid, il ministero della Salute ha avviato, insieme a Francia, Germania ed Olanda, contatti con la suddetta società senza addivenire alla stipula di un contratto vincolante». Stando a quanto riferisce lo stesso ministero, dunque, l'accordo raggiunto tra i membri della «Inclusive vaccine alliance» vale più o meno quanto le chiacchiere tra i quattro amici al bar cantati da Gino Paoli. Perché un conto è firmare un'intesa, i cui contenuti rimangono peraltro nell'ombra, tutt'altra cosa invece sottoscrivere un contratto che per sua natura rappresenta un istituto giuridico in grado di obbligare le parti. Non è tutto, perché nella risposta inviata al nostro quotidiano dalla Direzione generale della prevenzione sanitaria viene specificato chiaramente che «l'Italia, e gli altri Paesi partners, hanno ritenuto opportuno di far confluire il negoziato a suo tempo avviato con Astrazeneca con gli altri appena attivati dalla Commissione europea cui è, pertanto, affidata la totale gestione delle interlocuzioni». Nella nota diffusa ieri, il ministero della Salute ha liquidato questo passaggio come una semplice bollinatura da parte di Bruxelles: «La Commissione europea ha condiviso pienamente l'iniziativa dei quattro Paesi della “Alleanza per il vaccino" e il 14 agosto ha comunicato pubblicamente di aver dato seguito formale all'intesa con Astrazeneca». Quasi che il disco verde da parte di Ursula von der Leyen fosse una semplice formalità.Secondo la Commissione, interpellata dalla Verità, la questione però non sta esattamente in questi termini. Un portavoce, infatti, ha spiegato ieri al nostro quotidiano che Bruxelles «ha ricevuto una richiesta da parte del gruppo dei quattro Paesi affinché la Commissione subentrasse nella stipula del contratto e lo perfezionasse per conto degli Stati membri». Cosa poi effettivamente avvenuta il 14 agosto, data dell'annuncio di un accordo con Astrazeneca per la fornitura a livello europeo di 300 milioni di dosi. Un passaggio di consegne che possiamo far risalire al 17 giugno, quando la Commissione ha varato la Strategia europea dei vaccini. «Tutti e 27 i Paesi membri hanno adottato l'approccio dell'Ue», riferisce il portavoce, «impegnandosi a non portare avanti negoziati paralleli (per il vaccino, ndr)». Altro che capofila, in realtà l'Italia ha ceduto lo scettro dei negoziati alla Commissione senza tanti complimenti. Con quale atto politico non è dato sapere, ma una cosa è certa: ogni mossa ha avuto luogo nell'ombra, senza che alla decisione di consegnare i negoziati a Bruxelles fosse dato il giusto risalto.Un aspetto che, nel corso dell'informativa in Senato lo scorso 6 agosto, il ministro si è guardato bene dal sottolineare. Per contro, di fronte ai senatori Roberto Speranza si è ostinato a citare il fantomatico contratto. «Noi abbiamo sottoscritto un primo accordo molto importante con Astrazeneca […] abbiamo un contratto che dice che esso (il candidato vaccino, ndr) arriverà, se andrà bene, già alla fine dell'anno», ha dichiarato parlando in aula. Delle due l'una: o Speranza continua a considerare validi gli accordi bilaterali, andando così contro i dettami della Commissione europea; oppure, dato che l'annuncio dell'intesa tra Astrazeneca e Bruxelles sarebbe arrivato solo una settimana più tardi, è andato a Palazzo Madama a parlare di un contratto che non esiste. Quale delle due opzioni sia più grave, a voi la scelta.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/speranza-cincischia-ma-il-supercontratto-non-spunta-fuori-2647099884.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="i-big-del-farmaco-trattano-con-l-ue-l-immunita-per-gli-effetti-collaterali" data-post-id="2647099884" data-published-at="1598469820" data-use-pagination="False"> I big del farmaco trattano con l'Ue l'immunità per gli effetti collaterali <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/speranza-cincischia-ma-il-supercontratto-non-spunta-fuori-2647099884.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="gli-esperti-avvertono-il-vaccino-non-e-la-panacea-contro-il-covid" data-post-id="2647099884" data-published-at="1598469820" data-use-pagination="False"> Gli esperti avvertono: il vaccino non è la panacea contro il Covid Nella corsa la vaccino contro il coronavirus Sars-Cov2 ci sono più di 160 candidati, ma il successo è tutt'altro che dietro l'angolo. Un prodotto può essere sicuro, ma poco efficace nel proteggere dal virus, oppure avere effetti collaterali rari, ma gravi, che si possono riconoscere solo quando testato in centinaia di migliaia di persone. La comunità scientifica guarda con perplessità agli annunci trionfalistici di Paesi come la Russia e la Cina. Saltando a piè pari la fase tre di sperimentazione, nei due Paesi, le rispettive agenzie regolatorie dei farmaci, hanno approvato l'uso del vaccino necessario all'avvio della produzione. «Credo si tratti di un annuncio per dire che sono arrivati prima degli altri, ma probabilmente attenderanno a impiegarlo. Al massimo verrà somministrato nel personale sanitario, nei contesti di emergenza», osserva Antonio Clavenna, ricercatore del dipartimento di Salute pubblica dell'Istituto Mario Negri. Hanno un obiettivo più finanziario invece gli annunci che arrivano dalle aziende che stanno facendo ricerca: ogni risultato, anche piccolo, è un balzo nelle azioni. L'efficacia di un vaccino non è proprio una cosa facile e soprattutto veloce da provare: alcune fasi richiedono tempi e numeri di persone da coinvolgere che non sono elastici. Dati alla mano, nel mondo, sono 32 i candidati sperimentati sull'uomo a vari livelli. Tra questi c'è anche quello italiano di ReiThera che ha iniziato lo studio di fase 1 allo Spallanzani nei giorni scorsi con la prima inoculazione in una volontaria. «La fase 1 serve per definire la sicurezza, dare le prime informazioni sulla capacità di indurre la produzione degli anticorpi (immunogenicità) e per capire il numero di dosi da somministrare», continua Clavenna. «La fase 2 assomiglia alla uno, ma è in un campione più ampio per avere una migliore idea della sicurezza e per decidere quale strada da seguire per dosi e momenti di somministrazione». Attualmente sono cinque i vaccini nella fase tre della sperimentazione, quella che precede l'approvazione e la produzione. «In prima fila», dice il professore, «c'è il prodotto dell'Università di Oxford e Astrazeneca, di cui l'italiana Irbm ha fornito il vettore, cioè il virus che trasporta il frammento di materiale genetico per produrre le proteine virali che inducono la sintesi degli anticorpi». Moderna è l'azienda americana che sta producendo, in partnership con l'istituto governativo (Niaid), il vaccino che prevede la somministrazione diretta del materiale genetico virale (Rna) nelle cellule muscolari che producono le proteine virali. «I due vaccini cinesi», spiega Clavenna, «sono diversi tra loro: uno utilizza un meccanismo simile a quello di Oxford, l'altro (CanSino) un sistema più classico, con virus inattivato». Pfizer e la tedesca BionTech hanno annunciato che registreranno entro ottobre il vaccino, che ha tecnologia simile a quella di Moderna. Sono vicini alla fase tre anche il prodotto di Janssen con l'israeliana Beth e quello franco-inglese di Sanofi e Gsk. La corsa non è solo ad arrivare primi, perché non è detto che i primi saranno i più efficaci. I candidati più avanti nello sviluppo (Moderna e Pfizer/BionTech) sono basati su una tecnologia che non è stata ancora utilizzata per produrre vaccini, quella dell'acido nucleico. Le aziende che hanno scelto una via più tradizionale sono invece indietro di sei mesi e inizieranno la fase tre solo a gennaio. «Vale la pena sperimentare anche altri vaccini perché non è detto che quelli che arrivano per primi alla fase 3 poi siano efficaci», ricorda il professore. La fase 3 è quella centrata principalmente sull'efficacia e coinvolge centinaia di migliaia di persone. Non serve solo per misurare quanti anticorpi sono presenti nel sangue, ma anche per capire se il farmaco, rispetto a chi non lo riceve, previene la malattia o ne riduce la gravità. «Questa è l'informazione che manca per tutti i vaccini in sperimentazione», osserva Clavenna. «Sappiamo che fanno produrre anticorpi, ma non sappiamo se non ci si ammala o ci si ammala in forma più lieve». Anche per questo motivo gli studi di questa fase si spostano in Paesi dove il virus circola di più, quindi in America, Brasile, Messico e Sud Africa. Ci sono ancora tante domande che attendono risposta. «Non sappiamo quanto dura l'immunità, sia quella indotta dalla malattia che dal vaccino», ricorda l'esperto. Alcuni vaccini sono promettenti perché producono anticorpi, ma non sappiamo se la ricaduta è la protezione clinica e per quanto tempo. La protezione indotta dal vaccino potrebbe essere molto breve, richiedere più somministrazioni e non dare il vantaggio atteso. Difficile pronunciarsi sull'efficacia. Probabilmente i vaccini, che nella migliore delle previsioni sarebbero in arrivo per la primavera del 2021, potrebbero cambiare il corso della malattia. «In una situazione come quella attuale», conclude Clavenna, «non mi aspetto un vaccino che risolva la situazione eliminando il virus, ma piuttosto che in qualche modo sia in grado di ridurre la diffusione o la gravità della malattia».
Una fotografia limpida e concreta di imprese, giustizia, legalità e creatività come parti di un’unica storia: quella di un Paese, il nostro, che ogni giorno prova a crescere, migliorarsi e ritrovare fiducia.
Un percorso approfondito in cui ci guida la visione del sottosegretario alle Imprese e al Made in Italy Massimo Bitonci, che ricostruisce lo stato del nostro sistema produttivo e il valore strategico del made in Italy, mettendo in evidenza il ruolo della moda e dell’artigianato come forza identitaria ed economica. Un contributo arricchito dall’esperienza diretta di Giulio Felloni, presidente di Federazione Moda Italia-Confcommercio, e dal suo quadro autentico del rapporto tra imprese e consumatori.
Imprese in cui la creatività italiana emerge, anche attraverso parole diverse ma complementari: quelle di Sara Cavazza Facchini, creative director di Genny, che condivide con il lettore la sua filosofia del valore dell’eleganza italiana come linguaggio culturale e non solo estetico; quelle di Laura Manelli, Ceo di Pinko, che racconta la sua visione di una moda motore di innovazione, competenze e occupazione. A completare questo quadro, la giornalista Mariella Milani approfondisce il cambiamento profondo del fashion system, ponendo l’accento sul rapporto tra brand, qualità e responsabilità sociale. Il tema di responsabilità sociale viene poi ripreso e approfondito, attraverso la chiave della legalità e della trasparenza, dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Giuseppe Busia, che vede nella lotta alla corruzione la condizione imprescindibile per la competitività del Paese: norme più semplici, controlli più efficaci e un’amministrazione capace di meritarsi la fiducia di cittadini e aziende. Una prospettiva che si collega alla voce del presidente nazionale di Confartigianato Marco Granelli, che denuncia la crescente vulnerabilità digitale delle imprese italiane e l’urgenza di strumenti condivisi per contrastare truffe, attacchi informatici e forme sempre nuove di criminalità economica.
In questo contesto si introduce una puntuale analisi della riforma della giustizia ad opera del sottosegretario Andrea Ostellari, che illustra i contenuti e le ragioni del progetto di separazione delle carriere, con l’obiettivo di spiegare in modo chiaro ciò che spesso, nel dibattito pubblico, resta semplificato. Il suo intervento si intreccia con il punto di vista del presidente dell’Unione Camere Penali Italiane Francesco Petrelli, che sottolinea il valore delle garanzie e il ruolo dell’avvocatura in un sistema equilibrato; e con quello del penalista Gian Domenico Caiazza, presidente del Comitato «Sì Separa», che richiama l’esigenza di una magistratura indipendente da correnti e condizionamenti. Questa narrazione attenta si arricchisce con le riflessioni del penalista Raffaele Della Valle, che porta nel dibattito l’esperienza di una vita professionale segnata da casi simbolici, e con la voce dell’ex magistrato Antonio Di Pietro, che offre una prospettiva insolita e diretta sui rapporti interni alla magistratura e sul funzionamento del sistema giudiziario.
A chiudere l’approfondimento è il giornalista Fabio Amendolara, che indaga il caso Garlasco e il cosiddetto «sistema Pavia», mostrando come una vicenda giudiziaria complessa possa diventare uno specchio delle fragilità che la riforma tenta oggi di correggere. Una coralità sincera e documentata che invita a guardare l’Italia con più attenzione, con più consapevolezza, e con la certezza che il merito va riconosciuto e difeso, in quanto unica chiave concreta per rendere migliore il Paese. Comprenderlo oggi rappresenta un'opportunità in più per costruire il domani.
Per scaricare il numero di «Osservatorio sul Merito» basta cliccare sul link qui sotto.
Merito-Dicembre-2025.pdf
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La reazione di tanti è però ambigua, come è nella natura degli italiani, scaltri e navigati, e di chi ha uso di mondo. Bello in via di principio ma in pratica come si fa? Tecnicamente si può davvero lasciare loro lo smartphone ma col «parental control» che inibisce alcuni social, o ci saranno sotterfugi, scappatoie, nasceranno simil-social selvatici e dunque ancora più pericolosi, e saremo punto e daccapo? Giusto il provvedimento, bravi gli australiani ma come li tieni poi i ragazzi e le loro reazioni? E se poi scappa il suicidio, l’atto disperato, o il parricidio, il matricidio, del ragazzo imbestialito e privato del suo super-Io in display; se i ragazzi che sono fragili vengono traumatizzati dal divieto, i governi, le autorità non cominceranno a fare retromarcia, a inventarsi improbabili soluzioni graduali, a cominciare coi primi distinguo che poi vanificano il provvedimento? E poi, botta finale: è facile concepire queste norme restrittive quando non si hanno ragazzini in casa, o pretendere di educare gli educatori quando si è ben lontani da quelle gabbie feroci che sono le aule scolastiche! Provate a mettervi nei nostri panni prima di fare i Catoni da remoto!
Avete ragione su tutto, ma alla fine se volete tentare di guidare un po’ il futuro, se volete aiutare davvero i ragazzi, se volete dare e non solo subire la direzione del mondo, dovete provare a non assecondarli, a non rifugiarvi dietro il comodo fatalismo dei processi irreversibili, e dunque il fatalismo dei sì, perché sono assai più facili dei no. Ma qualcosa bisogna fare per impedire l’istupidimento in tenera età e in via di formazione degli uomini di domani. Abbiamo una responsabilità civile e sociale, morale e culturale, abbiamo dei doveri, non possiamo rassegnarci al feticcio del fatto compiuto. Abbiamo criticato per anni il pigro conformismo delle società arcaiche che ripetevano i luoghi comuni e le pratiche di vita semplicemente perché «si è fatto sempre così». E ora dovremmo adottare il conformismo altrettanto pigro, e spesso nocivo, delle società moderne e postmoderne con la scusa che «lo fanno tutti oggi, e non si può tornare indietro». Di questa decisione australiana io condivido lo spirito e la legge; ho solo un’inevitabile allergia per i divieti, ma in questi casi va superata, e un’altrettanto comprensibile diffidenza sull’efficacia e la durata del provvedimento, perché anche in Australia, perfino in Australia, si troveranno alla fine i modi per aggirare il divieto o per sostituire gli accessi con altri. Figuratevi da noi, a Furbilandia. Ma sono due perplessità ineliminabili che non rendono vano il provvedimento che resta invece necessario; semmai andrebbe solo perfezionato.
Il problema è la dipendenza dai social, e la trasformazione degli accessi in eccessi: troppe ore sui social, e questo vale anche per gli adulti e per i vecchi, un po’ come già succedeva con la televisione sempre accesa ma con un grado virale di attenzione e di interattività che rende lo smartphone più nocivo del già noto istupidimento da overdose televisiva.
Si perde la realtà, la vita vera, le relazioni e le amicizie, le esperienze della vita, l’esercizio dell’intelligenza applicata ai fatti e ai rapporti umani, si sterilizzano i sentimenti, si favorisce l’allergia alle letture e alle altre forme socio-culturali. È un mondo piccolo, assai più piccolo di quello descritto così vivacemente da Giovannino Guareschi, che era però pieno di umanità, di natura, di forti passioni e di un rapporto duro e verace con la vita, senza mediazioni e fughe; ma anche con il Padreterno e con i misteri della fede. Quel mondo iscatolato in una teca di vetro di nove per sedici centimetri è davvero piccolo anche se ha l’apparenza di portarti in giro per il mondo, e in tutti i tempi. Sono ipnotizzati dallo Strumento, che diventa il tabernacolo e la fonte di ogni luce e di ogni sapere, di ogni relazione e di ogni rivelazione; bisogna spezzare l’incantesimo, bisogna riprendere a vivere e bisogna saper farne a meno, per alcune ore del giorno.
La stupida Europa che bandisce culti, culture e coltivazioni per imporre norme, algoritmi ed espianti, dovrebbe per una volta esercitarsi in una direttiva veramente educativa: impegnarsi a far passare la legge australiana anche da noi, magari più circostanziata e contestualizzata. L’Europa può farlo, perché non risponde a nessun demos sovrano, a nessuna elezione; i governi nazionali temono troppo l’impopolarità, le opposizioni e la ritorsione dei ragazzi e dei loro famigliari in loro soccorso o perché li preferiscono ipnotizzati sul video così non richiedono attenzioni e premure e non fanno danni. Invece bisogna pur giocare la partita con la tecnologia, favorendo ciò che giova e scoraggiando ciò che nuoce, con occhio limpido e mente lucida, senza terrore e senza euforia.
Mi auguro anzi che qualcuno in grado di mutare i destini dei popoli, possa concepire una visione strategica complessiva in cui saper dosare in via preliminare libertà e limiti, benefici e sacrifici, piaceri e doveri, che poi ciascuno strada facendo gestirà per conto suo. E se qualcuno dirà che questo è un compito da Stato etico, risponderemo che l’assenza di limiti e di interesse per il bene comune, rende gli Stati inutili o dannosi, perché al servizio dei guastatori e dei peggiori o vigliaccamente neutri rispetto a ciò che fa bene e ciò che fa male. È difficile trovare un punto di equilibrio tra diritti e doveri, tra libertà e responsabilità, ma se gli Stati si arrendono a priori, si rivelano solo inutili e ingombranti carcasse. Per evitare lo Stato etico fondano lo Stato ebete, facile preda dei peggiori.
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