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2020-08-27
Speranza cincischia ma il supercontratto non spunta fuori
Roberto Speranza (Ansa)
Acque assai agitate a Lungotevere Ripa a seguito dello scoop pubblicato ieri dalla Verità. Ieri il ministero della Salute ha ritenuto opportuno diramare una nota di chiarimento in merito alla vicenda sul contratto «fantasma» con Astrazeneca per la fornitura del vaccino contro il Covid. «In relazione ad alcune notizie di stampa inerenti il vaccino di Astrazeneca», recita il comunicato facendo riferimento alla nostra inchiesta senza però mai citarla, «si precisa che il 12 giugno 2020 è stata sottoscritta l'intesa dai quattro Stati promotori (Italia, Francia, Olanda, Germania) con l'azienda per lo sviluppo e produzione di 400 milioni di dosi di vaccino Covid destinato a tutta la popolazione europea». Quando si dice che la toppa è peggio del buco. Le parole del ministero non convincono, anzi se possibile destano ancora più confusione. E di sicuro non rappresentano una smentita a quanto documentato con dovizia di particolari dal nostro quotidiano.
Per comprendere meglio, però, può essere utile riassumere per sommi capi i punti più importanti della questione. Lo scorso 13 giugno, dal lussuoso palcoscenico di Villa Pamphilj, il ministro della Salute Roberto Speranza annunciava di aver sottoscritto, insieme agli omologhi di Germania, Francia e Paesi Bassi «un contratto con Astrazeneca per l'approvvigionamento fino a 400 milioni di dosi di vaccino da destinare a tutta la popolazione europea». Ma in risposta a una nostra richiesta di accesso agli atti nella quale chiedevamo di prendere visione di questo documento per studiarne gli aspetti legali ed economici, lo stesso ministero guidato da Speranza ne smentiva clamorosamente l'esistenza. «Si segnala che lo scrivente ministero non ha sottoscritto alcun contratto con la società Astrazeneca», si legge nella nota firmata da Mauro Dionisio, membro del Comitato tecnico scientifico e direttore dell'Ufficio di coordinamento degli uffici di sanità marittima-aerea e di frontiera.
E allora? A quale contratto faceva riferimento il ministro a metà giugno? In realtà, come spiegato più avanti da Dionisio, «nell'ambito delle iniziative volte a consentire all'Italia l'acquisizione delle scorte di vaccino anti Covid, il ministero della Salute ha avviato, insieme a Francia, Germania ed Olanda, contatti con la suddetta società senza addivenire alla stipula di un contratto vincolante». Stando a quanto riferisce lo stesso ministero, dunque, l'accordo raggiunto tra i membri della «Inclusive vaccine alliance» vale più o meno quanto le chiacchiere tra i quattro amici al bar cantati da Gino Paoli. Perché un conto è firmare un'intesa, i cui contenuti rimangono peraltro nell'ombra, tutt'altra cosa invece sottoscrivere un contratto che per sua natura rappresenta un istituto giuridico in grado di obbligare le parti.
Non è tutto, perché nella risposta inviata al nostro quotidiano dalla Direzione generale della prevenzione sanitaria viene specificato chiaramente che «l'Italia, e gli altri Paesi partners, hanno ritenuto opportuno di far confluire il negoziato a suo tempo avviato con Astrazeneca con gli altri appena attivati dalla Commissione europea cui è, pertanto, affidata la totale gestione delle interlocuzioni». Nella nota diffusa ieri, il ministero della Salute ha liquidato questo passaggio come una semplice bollinatura da parte di Bruxelles: «La Commissione europea ha condiviso pienamente l'iniziativa dei quattro Paesi della “Alleanza per il vaccino" e il 14 agosto ha comunicato pubblicamente di aver dato seguito formale all'intesa con Astrazeneca». Quasi che il disco verde da parte di Ursula von der Leyen fosse una semplice formalità.
Secondo la Commissione, interpellata dalla Verità, la questione però non sta esattamente in questi termini. Un portavoce, infatti, ha spiegato ieri al nostro quotidiano che Bruxelles «ha ricevuto una richiesta da parte del gruppo dei quattro Paesi affinché la Commissione subentrasse nella stipula del contratto e lo perfezionasse per conto degli Stati membri». Cosa poi effettivamente avvenuta il 14 agosto, data dell'annuncio di un accordo con Astrazeneca per la fornitura a livello europeo di 300 milioni di dosi. Un passaggio di consegne che possiamo far risalire al 17 giugno, quando la Commissione ha varato la Strategia europea dei vaccini. «Tutti e 27 i Paesi membri hanno adottato l'approccio dell'Ue», riferisce il portavoce, «impegnandosi a non portare avanti negoziati paralleli (per il vaccino, ndr)». Altro che capofila, in realtà l'Italia ha ceduto lo scettro dei negoziati alla Commissione senza tanti complimenti. Con quale atto politico non è dato sapere, ma una cosa è certa: ogni mossa ha avuto luogo nell'ombra, senza che alla decisione di consegnare i negoziati a Bruxelles fosse dato il giusto risalto.
Un aspetto che, nel corso dell'informativa in Senato lo scorso 6 agosto, il ministro si è guardato bene dal sottolineare. Per contro, di fronte ai senatori Roberto Speranza si è ostinato a citare il fantomatico contratto. «Noi abbiamo sottoscritto un primo accordo molto importante con Astrazeneca […] abbiamo un contratto che dice che esso (il candidato vaccino, ndr) arriverà, se andrà bene, già alla fine dell'anno», ha dichiarato parlando in aula. Delle due l'una: o Speranza continua a considerare validi gli accordi bilaterali, andando così contro i dettami della Commissione europea; oppure, dato che l'annuncio dell'intesa tra Astrazeneca e Bruxelles sarebbe arrivato solo una settimana più tardi, è andato a Palazzo Madama a parlare di un contratto che non esiste. Quale delle due opzioni sia più grave, a voi la scelta.
I big del farmaco trattano con l'Ue l'immunità per gli effetti collaterali
Gli esperti avvertono: il vaccino non è la panacea contro il Covid
Nella corsa la vaccino contro il coronavirus Sars-Cov2 ci sono più di 160 candidati, ma il successo è tutt'altro che dietro l'angolo. Un prodotto può essere sicuro, ma poco efficace nel proteggere dal virus, oppure avere effetti collaterali rari, ma gravi, che si possono riconoscere solo quando testato in centinaia di migliaia di persone. La comunità scientifica guarda con perplessità agli annunci trionfalistici di Paesi come la Russia e la Cina.
Saltando a piè pari la fase tre di sperimentazione, nei due Paesi, le rispettive agenzie regolatorie dei farmaci, hanno approvato l'uso del vaccino necessario all'avvio della produzione. «Credo si tratti di un annuncio per dire che sono arrivati prima degli altri, ma probabilmente attenderanno a impiegarlo. Al massimo verrà somministrato nel personale sanitario, nei contesti di emergenza», osserva Antonio Clavenna, ricercatore del dipartimento di Salute pubblica dell'Istituto Mario Negri.
Hanno un obiettivo più finanziario invece gli annunci che arrivano dalle aziende che stanno facendo ricerca: ogni risultato, anche piccolo, è un balzo nelle azioni. L'efficacia di un vaccino non è proprio una cosa facile e soprattutto veloce da provare: alcune fasi richiedono tempi e numeri di persone da coinvolgere che non sono elastici. Dati alla mano, nel mondo, sono 32 i candidati sperimentati sull'uomo a vari livelli. Tra questi c'è anche quello italiano di ReiThera che ha iniziato lo studio di fase 1 allo Spallanzani nei giorni scorsi con la prima inoculazione in una volontaria. «La fase 1 serve per definire la sicurezza, dare le prime informazioni sulla capacità di indurre la produzione degli anticorpi (immunogenicità) e per capire il numero di dosi da somministrare», continua Clavenna. «La fase 2 assomiglia alla uno, ma è in un campione più ampio per avere una migliore idea della sicurezza e per decidere quale strada da seguire per dosi e momenti di somministrazione». Attualmente sono cinque i vaccini nella fase tre della sperimentazione, quella che precede l'approvazione e la produzione. «In prima fila», dice il professore, «c'è il prodotto dell'Università di Oxford e Astrazeneca, di cui l'italiana Irbm ha fornito il vettore, cioè il virus che trasporta il frammento di materiale genetico per produrre le proteine virali che inducono la sintesi degli anticorpi». Moderna è l'azienda americana che sta producendo, in partnership con l'istituto governativo (Niaid), il vaccino che prevede la somministrazione diretta del materiale genetico virale (Rna) nelle cellule muscolari che producono le proteine virali. «I due vaccini cinesi», spiega Clavenna, «sono diversi tra loro: uno utilizza un meccanismo simile a quello di Oxford, l'altro (CanSino) un sistema più classico, con virus inattivato». Pfizer e la tedesca BionTech hanno annunciato che registreranno entro ottobre il vaccino, che ha tecnologia simile a quella di Moderna. Sono vicini alla fase tre anche il prodotto di Janssen con l'israeliana Beth e quello franco-inglese di Sanofi e Gsk. La corsa non è solo ad arrivare primi, perché non è detto che i primi saranno i più efficaci. I candidati più avanti nello sviluppo (Moderna e Pfizer/BionTech) sono basati su una tecnologia che non è stata ancora utilizzata per produrre vaccini, quella dell'acido nucleico. Le aziende che hanno scelto una via più tradizionale sono invece indietro di sei mesi e inizieranno la fase tre solo a gennaio. «Vale la pena sperimentare anche altri vaccini perché non è detto che quelli che arrivano per primi alla fase 3 poi siano efficaci», ricorda il professore. La fase 3 è quella centrata principalmente sull'efficacia e coinvolge centinaia di migliaia di persone. Non serve solo per misurare quanti anticorpi sono presenti nel sangue, ma anche per capire se il farmaco, rispetto a chi non lo riceve, previene la malattia o ne riduce la gravità. «Questa è l'informazione che manca per tutti i vaccini in sperimentazione», osserva Clavenna. «Sappiamo che fanno produrre anticorpi, ma non sappiamo se non ci si ammala o ci si ammala in forma più lieve». Anche per questo motivo gli studi di questa fase si spostano in Paesi dove il virus circola di più, quindi in America, Brasile, Messico e Sud Africa. Ci sono ancora tante domande che attendono risposta. «Non sappiamo quanto dura l'immunità, sia quella indotta dalla malattia che dal vaccino», ricorda l'esperto. Alcuni vaccini sono promettenti perché producono anticorpi, ma non sappiamo se la ricaduta è la protezione clinica e per quanto tempo. La protezione indotta dal vaccino potrebbe essere molto breve, richiedere più somministrazioni e non dare il vantaggio atteso. Difficile pronunciarsi sull'efficacia. Probabilmente i vaccini, che nella migliore delle previsioni sarebbero in arrivo per la primavera del 2021, potrebbero cambiare il corso della malattia.
«In una situazione come quella attuale», conclude Clavenna, «non mi aspetto un vaccino che risolva la situazione eliminando il virus, ma piuttosto che in qualche modo sia in grado di ridurre la diffusione o la gravità della malattia».
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Riduci
Dopo il nostro scoop, il ministro prova a chiarire: «Le 400 dosi acquistate? Era un'intesa europea». Il che non spiega nulla.Le aziende del settore temono una pioggia di denunce nel caso in cui qualche siero non dovesse funzionare come previsto. E ora chiedono una scudo legale a Bruxelles. Ma il tema richiederebbe ben altra trasparenza.L'attesa delle vaccinazioni contro il virus ha assunto ormai toni messianici. Antonio Clavenna (istituto Mario Negri) frena: «Non risolveranno tutta l'emergenza, la durata dell'immunità resta ignota».Lo speciale contiene tre articoli.Acque assai agitate a Lungotevere Ripa a seguito dello scoop pubblicato ieri dalla Verità. Ieri il ministero della Salute ha ritenuto opportuno diramare una nota di chiarimento in merito alla vicenda sul contratto «fantasma» con Astrazeneca per la fornitura del vaccino contro il Covid. «In relazione ad alcune notizie di stampa inerenti il vaccino di Astrazeneca», recita il comunicato facendo riferimento alla nostra inchiesta senza però mai citarla, «si precisa che il 12 giugno 2020 è stata sottoscritta l'intesa dai quattro Stati promotori (Italia, Francia, Olanda, Germania) con l'azienda per lo sviluppo e produzione di 400 milioni di dosi di vaccino Covid destinato a tutta la popolazione europea». Quando si dice che la toppa è peggio del buco. Le parole del ministero non convincono, anzi se possibile destano ancora più confusione. E di sicuro non rappresentano una smentita a quanto documentato con dovizia di particolari dal nostro quotidiano. Per comprendere meglio, però, può essere utile riassumere per sommi capi i punti più importanti della questione. Lo scorso 13 giugno, dal lussuoso palcoscenico di Villa Pamphilj, il ministro della Salute Roberto Speranza annunciava di aver sottoscritto, insieme agli omologhi di Germania, Francia e Paesi Bassi «un contratto con Astrazeneca per l'approvvigionamento fino a 400 milioni di dosi di vaccino da destinare a tutta la popolazione europea». Ma in risposta a una nostra richiesta di accesso agli atti nella quale chiedevamo di prendere visione di questo documento per studiarne gli aspetti legali ed economici, lo stesso ministero guidato da Speranza ne smentiva clamorosamente l'esistenza. «Si segnala che lo scrivente ministero non ha sottoscritto alcun contratto con la società Astrazeneca», si legge nella nota firmata da Mauro Dionisio, membro del Comitato tecnico scientifico e direttore dell'Ufficio di coordinamento degli uffici di sanità marittima-aerea e di frontiera.E allora? A quale contratto faceva riferimento il ministro a metà giugno? In realtà, come spiegato più avanti da Dionisio, «nell'ambito delle iniziative volte a consentire all'Italia l'acquisizione delle scorte di vaccino anti Covid, il ministero della Salute ha avviato, insieme a Francia, Germania ed Olanda, contatti con la suddetta società senza addivenire alla stipula di un contratto vincolante». Stando a quanto riferisce lo stesso ministero, dunque, l'accordo raggiunto tra i membri della «Inclusive vaccine alliance» vale più o meno quanto le chiacchiere tra i quattro amici al bar cantati da Gino Paoli. Perché un conto è firmare un'intesa, i cui contenuti rimangono peraltro nell'ombra, tutt'altra cosa invece sottoscrivere un contratto che per sua natura rappresenta un istituto giuridico in grado di obbligare le parti. Non è tutto, perché nella risposta inviata al nostro quotidiano dalla Direzione generale della prevenzione sanitaria viene specificato chiaramente che «l'Italia, e gli altri Paesi partners, hanno ritenuto opportuno di far confluire il negoziato a suo tempo avviato con Astrazeneca con gli altri appena attivati dalla Commissione europea cui è, pertanto, affidata la totale gestione delle interlocuzioni». Nella nota diffusa ieri, il ministero della Salute ha liquidato questo passaggio come una semplice bollinatura da parte di Bruxelles: «La Commissione europea ha condiviso pienamente l'iniziativa dei quattro Paesi della “Alleanza per il vaccino" e il 14 agosto ha comunicato pubblicamente di aver dato seguito formale all'intesa con Astrazeneca». Quasi che il disco verde da parte di Ursula von der Leyen fosse una semplice formalità.Secondo la Commissione, interpellata dalla Verità, la questione però non sta esattamente in questi termini. Un portavoce, infatti, ha spiegato ieri al nostro quotidiano che Bruxelles «ha ricevuto una richiesta da parte del gruppo dei quattro Paesi affinché la Commissione subentrasse nella stipula del contratto e lo perfezionasse per conto degli Stati membri». Cosa poi effettivamente avvenuta il 14 agosto, data dell'annuncio di un accordo con Astrazeneca per la fornitura a livello europeo di 300 milioni di dosi. Un passaggio di consegne che possiamo far risalire al 17 giugno, quando la Commissione ha varato la Strategia europea dei vaccini. «Tutti e 27 i Paesi membri hanno adottato l'approccio dell'Ue», riferisce il portavoce, «impegnandosi a non portare avanti negoziati paralleli (per il vaccino, ndr)». Altro che capofila, in realtà l'Italia ha ceduto lo scettro dei negoziati alla Commissione senza tanti complimenti. Con quale atto politico non è dato sapere, ma una cosa è certa: ogni mossa ha avuto luogo nell'ombra, senza che alla decisione di consegnare i negoziati a Bruxelles fosse dato il giusto risalto.Un aspetto che, nel corso dell'informativa in Senato lo scorso 6 agosto, il ministro si è guardato bene dal sottolineare. Per contro, di fronte ai senatori Roberto Speranza si è ostinato a citare il fantomatico contratto. «Noi abbiamo sottoscritto un primo accordo molto importante con Astrazeneca […] abbiamo un contratto che dice che esso (il candidato vaccino, ndr) arriverà, se andrà bene, già alla fine dell'anno», ha dichiarato parlando in aula. Delle due l'una: o Speranza continua a considerare validi gli accordi bilaterali, andando così contro i dettami della Commissione europea; oppure, dato che l'annuncio dell'intesa tra Astrazeneca e Bruxelles sarebbe arrivato solo una settimana più tardi, è andato a Palazzo Madama a parlare di un contratto che non esiste. Quale delle due opzioni sia più grave, a voi la scelta.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/speranza-cincischia-ma-il-supercontratto-non-spunta-fuori-2647099884.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="i-big-del-farmaco-trattano-con-l-ue-l-immunita-per-gli-effetti-collaterali" data-post-id="2647099884" data-published-at="1598469820" data-use-pagination="False"> I big del farmaco trattano con l'Ue l'immunità per gli effetti collaterali <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/speranza-cincischia-ma-il-supercontratto-non-spunta-fuori-2647099884.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="gli-esperti-avvertono-il-vaccino-non-e-la-panacea-contro-il-covid" data-post-id="2647099884" data-published-at="1598469820" data-use-pagination="False"> Gli esperti avvertono: il vaccino non è la panacea contro il Covid Nella corsa la vaccino contro il coronavirus Sars-Cov2 ci sono più di 160 candidati, ma il successo è tutt'altro che dietro l'angolo. Un prodotto può essere sicuro, ma poco efficace nel proteggere dal virus, oppure avere effetti collaterali rari, ma gravi, che si possono riconoscere solo quando testato in centinaia di migliaia di persone. La comunità scientifica guarda con perplessità agli annunci trionfalistici di Paesi come la Russia e la Cina. Saltando a piè pari la fase tre di sperimentazione, nei due Paesi, le rispettive agenzie regolatorie dei farmaci, hanno approvato l'uso del vaccino necessario all'avvio della produzione. «Credo si tratti di un annuncio per dire che sono arrivati prima degli altri, ma probabilmente attenderanno a impiegarlo. Al massimo verrà somministrato nel personale sanitario, nei contesti di emergenza», osserva Antonio Clavenna, ricercatore del dipartimento di Salute pubblica dell'Istituto Mario Negri. Hanno un obiettivo più finanziario invece gli annunci che arrivano dalle aziende che stanno facendo ricerca: ogni risultato, anche piccolo, è un balzo nelle azioni. L'efficacia di un vaccino non è proprio una cosa facile e soprattutto veloce da provare: alcune fasi richiedono tempi e numeri di persone da coinvolgere che non sono elastici. Dati alla mano, nel mondo, sono 32 i candidati sperimentati sull'uomo a vari livelli. Tra questi c'è anche quello italiano di ReiThera che ha iniziato lo studio di fase 1 allo Spallanzani nei giorni scorsi con la prima inoculazione in una volontaria. «La fase 1 serve per definire la sicurezza, dare le prime informazioni sulla capacità di indurre la produzione degli anticorpi (immunogenicità) e per capire il numero di dosi da somministrare», continua Clavenna. «La fase 2 assomiglia alla uno, ma è in un campione più ampio per avere una migliore idea della sicurezza e per decidere quale strada da seguire per dosi e momenti di somministrazione». Attualmente sono cinque i vaccini nella fase tre della sperimentazione, quella che precede l'approvazione e la produzione. «In prima fila», dice il professore, «c'è il prodotto dell'Università di Oxford e Astrazeneca, di cui l'italiana Irbm ha fornito il vettore, cioè il virus che trasporta il frammento di materiale genetico per produrre le proteine virali che inducono la sintesi degli anticorpi». Moderna è l'azienda americana che sta producendo, in partnership con l'istituto governativo (Niaid), il vaccino che prevede la somministrazione diretta del materiale genetico virale (Rna) nelle cellule muscolari che producono le proteine virali. «I due vaccini cinesi», spiega Clavenna, «sono diversi tra loro: uno utilizza un meccanismo simile a quello di Oxford, l'altro (CanSino) un sistema più classico, con virus inattivato». Pfizer e la tedesca BionTech hanno annunciato che registreranno entro ottobre il vaccino, che ha tecnologia simile a quella di Moderna. Sono vicini alla fase tre anche il prodotto di Janssen con l'israeliana Beth e quello franco-inglese di Sanofi e Gsk. La corsa non è solo ad arrivare primi, perché non è detto che i primi saranno i più efficaci. I candidati più avanti nello sviluppo (Moderna e Pfizer/BionTech) sono basati su una tecnologia che non è stata ancora utilizzata per produrre vaccini, quella dell'acido nucleico. Le aziende che hanno scelto una via più tradizionale sono invece indietro di sei mesi e inizieranno la fase tre solo a gennaio. «Vale la pena sperimentare anche altri vaccini perché non è detto che quelli che arrivano per primi alla fase 3 poi siano efficaci», ricorda il professore. La fase 3 è quella centrata principalmente sull'efficacia e coinvolge centinaia di migliaia di persone. Non serve solo per misurare quanti anticorpi sono presenti nel sangue, ma anche per capire se il farmaco, rispetto a chi non lo riceve, previene la malattia o ne riduce la gravità. «Questa è l'informazione che manca per tutti i vaccini in sperimentazione», osserva Clavenna. «Sappiamo che fanno produrre anticorpi, ma non sappiamo se non ci si ammala o ci si ammala in forma più lieve». Anche per questo motivo gli studi di questa fase si spostano in Paesi dove il virus circola di più, quindi in America, Brasile, Messico e Sud Africa. Ci sono ancora tante domande che attendono risposta. «Non sappiamo quanto dura l'immunità, sia quella indotta dalla malattia che dal vaccino», ricorda l'esperto. Alcuni vaccini sono promettenti perché producono anticorpi, ma non sappiamo se la ricaduta è la protezione clinica e per quanto tempo. La protezione indotta dal vaccino potrebbe essere molto breve, richiedere più somministrazioni e non dare il vantaggio atteso. Difficile pronunciarsi sull'efficacia. Probabilmente i vaccini, che nella migliore delle previsioni sarebbero in arrivo per la primavera del 2021, potrebbero cambiare il corso della malattia. «In una situazione come quella attuale», conclude Clavenna, «non mi aspetto un vaccino che risolva la situazione eliminando il virus, ma piuttosto che in qualche modo sia in grado di ridurre la diffusione o la gravità della malattia».
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Prima di essere lapidati da musicofili inflessibili o da fanatici ammiratori di Beethoven (lo siamo anche noi) lasciamo allo stesso Ludwig Vchean l’ultima parola sull’argomento: «Solo i puri di cuore», affermò il genio tedesco, «possono cucinare una buona zuppa». Capito? Il sommo compositore a tavola amava i piatti semplici e disprezzava quelli troppo complicati. Adorava la zuppa, soprattutto quella di pane e uova: era il suo piatto preferito insieme ai maccheroni con il formaggio. Era sordo, ma le papille gustative gli funzionavano alla grande.
Una vera e propria zuppa di verdure musicale la serve al pubblico un gruppo austriaco formato da musicisti, designer, scenografi, autori. Si chiama The Vegetable Orchestra, che usa le verdure come strumenti musicali: una carota intagliata in una certa maniera diventa un flauto, la zucca uno strumento di percussione, le melanzane diventano dopo un sapiente lavoro di intaglio delle nacchere, le zucchine strumenti a fiato e così via. Con questi strumenti suonano pezzi di jazz o di dub, un genere musicale che deriva dal reggae giamaicano, e altra musica. Finito il concerto, dopo gli applausi del pubblico stupito da tanta musica «verde», i musicisti si trasformano in cuochi, gettano gli strumenti in pentoloni e preparano una bella zuppa per il pubblico dopo aver lavato gli strumenti, soprattutto quelli a fiato.
La zuppa vanta una storia vecchia come l’homo sapiens. Fu uno dei primi piatti elaborati dai nostri cavernicoli progenitori centinaia di migliaia di anni fa. Gli studiosi del periodo paleolitico ci documentano che la scoperta dell’acqua calda e il suo impiego per cuocere verdure e altri cibi avvenne nell’età della pietra antica, in incavi di roccia pieni d’acqua nella quale gli uomini primitivi tuffavano pietre roventi per farla bollire. Fu così che nacquero i primi minestroni. La parola «zuppa» arriverà molti millenni dopo, ma sempre in tempi molto antichi rispetto a noi, mutuata dal termine germanico suppa che definiva la fetta di pane inzuppata. Il pane era nell’antichità il cucchiaio dei poveri, le dita della mano la forchetta. La «posateria» delle classi più umili era tutta lì. Una sorta di brodaglia nera molto spartana chiamata melas zomos, nera zuppa, fatta con sangue di porco, budella e vino era la zuppa dei duri soldati di Sparta. A loro, che non cercavano mollezze, piaceva così, brutta da vedere ma semplice e nutriente, adatta a sostenere il fisico durante le campagne militari. Spostandoci in altre parti dell’antica penisola ellenica troviamo una cucina meno rigorosa, ma sempre con un menu nel quale zuppe e piatti brodosi a base di verdure, cereali, erbe spontanee e legumi vari, abbondavano.
Cotture e metodi a parte, quelle preparazioni sono le bis-bis-bisnonne delle zuppe che mangiamo noi oggi fatte, come allora, con cereali tipo orzo e farro, o con legumi, ceci, lenticchie, fave. Borlotti e cannellini erano al di là dell’Atlantico che aspettavano di essere scoperti. Il Phaseolus vulgaris arriverà dopo i viaggi di Colombo e degli altri viaggiatori su caravelle dirette verso il Nuovo mondo. Dalla Grecia a Roma le zuppe sostanzialmente non cambiano: erano piatti che facevano parte della dieta quotidiana dei Romani. Fonti di proteine e nutrienti, erano il comfort food delle classi plebee e dei contadini. Tra le altre zuppe, i legionari amavano quella fatta con pane, aglio, olio e aceto. Furono loro a introdurla in Spagna dove si evolverà fino a diventare il moderno gazpacho, zuppa fredda che si arricchì dal Cinquecento in poi con il pomodoro e i peperoni venuti dall’America.
Una zuppa leggendaria è la soupe à la pavoise, la zuppa pavese, che ha trovato posto nei libri di storia gastronomica dove si racconta di Francesco I di Valois, re di Francia sconfitto e fatto prigioniero dagli spagnoli di Carlo V nella battaglia di Pavia del 24 febbraio 1525. L’accasciato François du grand nez, come lo chiamavano i suoi sudditi per via del nasone che gli troneggiava sopra la bocca, fu portato dai nemici vincitori in un cascinale di campagna dove trovò ristoro e consolazione nella povera zuppa preparatogli dalla contadina del casolare che mise in una rozza scodella due croste di pane raffermo sopra le quali scocciò un uovo versando poi sul tutto il brodo bollente di erbe spontanee che gorgogliava quotidianamente nella marmitta sul camino. Francesco I, con il morale a terra per la sconfitta («Tutto è perduto fuorché l’onore»), apprezzò talmente quella zuppa villana che quando ritornò sul trono convocò i cuochi di corte insegnando loro la ricetta della zuppa pavese che fu perfezionata dagli chef i quali aggiunsero altri ingredienti ricchi elevandola da contadina che era ad aristocratica.
C’è da dire che la zuppa in Francia troverà il successo che merita grazie a una figura più leggendaria che reale, tale Monsieur Boulanger marchand de bouillon, mercante di brodo. Siamo a Parigi 25 anni prima della presa della Bastiglia e dello scoppio della rivoluzione. Il mitico Boulanger vende zuppe restaurateurs, restauratrici, che sistemano lo stomaco dei clienti cagionevoli rimettendoli in salute in un ambiente tutto sommato comodo con i tavoli accoglienti. Nasce da queste zuppe il restaurant, il ristorante che prende il nome dal ristoro, il conforto, che regalano le zuppe. Dando ragione in questo all’antico e saggio proverbio italiano regalatoci dalla civiltà contadina fin dal Medioevo: «Sette cose fa la zuppa: cava la fame e la sete tutta, empie il ventre, netta il dente, fa dormire, fa smaltire e la guancia fa arrossire».
Il più alto riconoscimento a questo piatto umile ma tanto utile alla sopravvivenza della povera umanità, lo firmano, tra gli altri, alcuni grandi artisti moderni: Paul Cézanne con la sua Natura morta con zuppiera (1884), Pablo Picasso che affronta il tema della povertà ne La zuppa, opera del periodo blu che mostra una vecchia paurosamente magra che porge una scodella di zuppa a una bambina, ma soprattutto Andy Warhol. Il re della Pop art che confessò di aver mangiato a pranzo per vent’anni i barattoloni di zuppa Campbell’s rivoluzionò i concetti di natura morta e di bellezza immortalando le stesse lattine zuppesche in una serie di opere seriali la più importante delle quali è la Campbell’s Soup Cans che presenta tutta la produzione di zuppe della Cambell’s: al pomodoro, agli asparagi, alla carne, al pollo, ai fagioli neri, e così via per 200 volte. Paradossalmente a dare importanza alla zuppa nell’arte sono stati anche le attiviste per il clima che il 28 gennaio dello scorso anno lanciarono la zuppa contro la Gioconda di Leonardo, ben protetta dal vetro antiguai, invocando un’agricoltura mondiale sana.
È profondamente ingiusto nei confronti della zuppa il detto «Se non è zuppa è pan bagnato». Come sopra detto la zuppa è salvifica, ristoratrice, ristoro e medicina attraverso i secoli dell’umanità misera. E poi la famiglia zuppesca è molto varia. Oltre alla zuppa-madre ci sono la minestra, il minestrone, la crema, la vellutata, il passato. Non sono sinonimi, ogni piatto ha la sua caratteristica che riguarda gli ingredienti e le tecniche di preparazione per le quali rimandiamo ai libri di cucina.
Concludiamo con la mistica zen. Un allievo chiede al maestro: «Cosa devo fare per raggiungere l’Illuminazione?». Gli risponde il maestro: «Hai mangiato la zuppa?» «Sì». «Allora lava la scodella».
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Gabriele D'Annunzio (Ansa)
Il patrimonio mondiale dell’umanità rappresentato dalla cucina italiana sarà pure «immateriale», come da definizione Unesco, ma è fatto di carne, ossa, talento e creatività. È il risultato delle centinaia di migliaia di persone che, nel corso dei secoli e dei millenni, hanno affinato tecniche, scoperto ingredienti, assemblato gusti, allevato animali con amore e coltivato la terra con altrettanta dedizione. Insomma, dietro la cucina italiana ci sono... gli italiani.
Ed è a tutti questi peones e protagonisti della nostra storia che il riconoscimento va intestato. Ma anche a chi assapora le pietanze in un ristorante, in un bistrot o in un agriturismo. Alla fine, se ci si pensa, la cucina italiana siamo tutti noi: sono i grandi chef come le mamme o le nonne che si danno da fare tra le padelle della cucina. Sono i clienti dei ristoranti, gli amanti dei formaggi come dei salumi. Sono i giornalisti che fanno divulgazione, sono i fotografi che immortalano i piatti, sono gli scrittori che dedicano pagine e pagine delle loro opere ai manicaretti preferiti dal protagonista di questo o quel romanzo. Insomma, la cucina è cultura, identità, passato e anche futuro.
Giancarlo Saran, gastropenna di questo giornale, ha dato alle stampe Peccatori di gola 2 (Bolis edizioni, 18 euro, seguito del fortunato libro uscito nel 2024 vincitore del Premio selezione Bancarella cucina), volume contenente 13 ritratti di personaggi di spicco del mondo dell’italica buona tavola («Un viaggio curioso e goloso tra tavola e dintorni, con illustri personaggi del Novecento compresi alcuni insospettabili», sentenzia l’autore sulla quarta di copertina). Ci sono il «fotografo» Bob Noto e l’attore Ugo Tognazzi, l’imprenditore Giancarlo Ligabue e gli scrittori Gabriele D’Annunzio, Leonardo Sciascia e Andrea Camilleri. E poi ancora Lella Fabrizi (la sora Lella), Luciano Pavarotti, Pietro Marzotto, Gianni Frasi, Alfredo Beltrame, Giuseppe Maffioli, Pellegrino Artusi.
Un giro d’Italia culinario, quello di Saran, che testimonia come il riconoscimento Unesco potrebbe dare ulteriore valore al nostro made in Italy, con risvolti di vario tipo: rispetto dell’ambiente e delle nostre tradizioni, volano per l’economia e per il turismo, salvaguardia delle radici dal pericolo di una appiattente omologazione sociale e culturale. Sfogliando Peccatori 2, si può possono scovare, praticamente a ogni pagina, delle chicche. Tipo, la passione di D’Annunzio per le uova e la frittata. Scrive Saran: «D’Annunzio aveva un’esperienza indelebile legata alle frittate, che ebbe occasione di esercitare in diretta nelle giornate di vacanza a Francavilla con i suoi giovani compagni di ventura in cui, a rotazione, erano chiamati “l’uno a sfamare tutti gli altri”. Lasciamogli la cronaca in diretta. Chi meglio di lui. “In un pomeriggio di luglio ci attardavamo nella delizia del bagno quando mi fu rammentato, con le voci della fame, toccare a me le cura della cucina”. La affronta come si deve. “Non mancai di avvolgermi in una veste di lino rapita a Ebe”, la dea della giovinezza, “e di correre verso la vasta dimora costruita di tufo e adornata di maioliche paesane”. Non c’è storia: “Ruppi trentatré uova e, dopo averle sbattute, le agguagliai (mischiai) nella padella dal manico di ferro lungo come quello di una chitarra”. La notte è illuminata dal chiaro di luna che si riflette sulle onde, silenziose in attesa, e fu così che “adunai la sapienza e il misurato vigore... e diedi il colpo attentissimo a ricevere la frittata riversa”. Ma nulla da fare, questa, volando nel cielo non ricadde a terra, ovvero sulla padella. E qui avviene il miracolo laico. “Nel volgere gli occhi al cielo scorsi nel bagliore del novilunio la tunica e l’ala di un angelo”. Il finale conseguente. “L’angelo, nel passaggio, aveva colta la frittata in aria, l’aveva rapita, la sosteneva con le dita” con la missione imperativa di recarla ai Beati, “offerta di perfezione terrestre...”, di cui lui era stato (seppur involontario) protagonista. “Io mi vanto maestro insuperabile nell’arte della frittata per riconoscimento celestiale”.
La buona e sana cucina, dunque, ha come traino produttori e ristoratori «ma ancor più valore aggiunto deriva da degni ambasciatori e, con questo, i Peccatori di gola credo meritino piena assoluzione», conclude l’autore.
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Dal primo luglio 2026, in tutta l’Unione europea entrerà in vigore un contributo fisso di tre euro per ciascun prodotto acquistato su internet e spedito da Paesi extra-Ue, quando il valore della spedizione è inferiore a 150 euro. L’orientamento politico era stato definito già il mese scorso; la riunione di ieri del Consiglio Ecofin (12 dicembre) ne ha reso operativa l’applicazione, stabilendone i criteri.
Il prelievo di 3 euro si applicherà alle merci in ingresso nell’Unione europea per le quali i venditori extra-Ue risultano registrati allo sportello unico per le importazioni (Ioss) ai fini Iva. Secondo fonti di Bruxelles, questo perimetro copre «il 93% di tutti i flussi di e-commerce verso l’Ue».
In realtà, la misura non viene presentata direttamente come un’iniziativa mirata contro la Cina, anche se è dalla Repubblica Popolare che proviene la quota maggiore di pacchi. Una delle preoccupazioni tra i ministri è che parte della merce venga immessa nel mercato unico a prezzi artificialmente bassi, anche attraverso pratiche di sottovalutazione, per aggirare le tariffe che si applicano invece alle spedizioni oltre i 150 euro. La Commissione europea stima che nel 2024 il 91% delle spedizioni e-commerce sotto i 150 euro sia arrivato dalla Cina; inoltre, valutazioni Ue indicano che fino al 65% dei piccoli pacchi in ingresso potrebbe essere dichiarato a un valore inferiore al reale per evitare i dazi doganali.
«La decisione sui dazi doganali per i piccoli pacchi in arrivo nell’Ue è importante per garantire una concorrenza leale ai nostri confini nell’era odierna dell’e-commerce», ha detto il commissario per il Commercio, Maroš Šefčovič. Secondo il politico slovacco, «con la rapida espansione dell’e-commerce, il mondo sta cambiando rapidamente e abbiamo bisogno degli strumenti giusti per stare al passo».
La decisione finale da parte di Bruxelles arriva dopo un iter normativo lungo cinque anni. La Commissione europea aveva messo sul tavolo, nel maggio 2023, la cancellazione dell’esenzione dai dazi doganali per i pacchi con valore inferiore a 150 euro, inserendola nel pacchetto di riforma doganale. Nella versione originaria, l’entrata in vigore era prevista non prima della metà del 2028. Successivamente, il Consiglio ha formalizzato l’abolizione dell’esenzione il 13 novembre 2025, chiedendo però di anticipare l’applicazione già al 2026.
C’è poi un secondo balzello messo a punto dall’esecutivo Meloni. Si tratta di un emendamento che prevede l’introduzione di un contributo fisso di due euro per ogni pacco spedito con valore dichiarato fino a 150 euro.
La misura, però, non sarebbe limitata ai soli invii provenienti da Paesi extra-Ue. Rispetto alle ipotesi circolate in precedenza, l’impostazione è stata ampliata: se approvata, la tassa finirebbe per applicarsi a tutte le spedizioni di piccoli pacchi, indipendentemente dall’origine, quindi anche a quelle spedite dall’Italia. In origine, l’idea sembrava mirata soprattutto a intercettare le micro-spedizioni generate da piattaforme come Shein o Temu. Il punto, però, è che colpire esclusivamente i pacchi extra-europei avrebbe reso la misura assimilabile a un dazio, materia che rientra nella competenza dell’Unione europea e non dei singoli Stati membri. Per evitare questo profilo di incompatibilità, l’emendamento alla manovra 2026 ha quindi «generalizzato» il prelievo, estendendolo all’intero perimetro delle spedizioni. L’effetto pratico è evidente: la tassa non impatterebbe solo sulle piattaforme asiatiche, ma anche sugli acquisti effettuati su Amazon, eBay e, in generale, su qualsiasi negozio online che spedisca pacchi entro quella soglia di valore dichiarato.
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Insomma: il vento è cambiato. E non spinge più la solita, ingombrante, vela francese che negli ultimi anni si era abituata a intendere l’Italia come un’estensione naturale della Rive Gauche.
E invece no. Il pendolo torna indietro. E con esso tornano anche ricordi e fantasie: Piersilvio Berlusconi sogna la Francia. Non quella dei consessi istituzionali, ma quella di quando suo padre, l’unico che sia riuscito a esportare il varietà italiano oltre le Alpi, provò l’avventura di La Cinq.
Una televisione talmente avanti che il presidente socialista François Mitterrand, per non farla andare troppo lontano, decise di spegnerla. Letteralmente.
Erano gli anni in cui gli italiani facevano shopping nella grandeur: Gianni Agnelli prese una quota di Danone e Raul Gardini mise le mani sul più grande zuccherificio francese, giusto per far capire che il gusto per il raffinato non ci era mai mancato. Oggi al massimo compriamo qualche croissant a prezzo pieno.
Dunque, Berlusconi – quello junior, stavolta – può dirlo senza arrossire: «La Francia sarebbe un sogno». Si guarda intorno, valuta, misura il terreno: Tf1 e M6.
La prima, dice, «ha una storia imprenditoriale solida»: niente da dire, anche le fortezze hanno i loro punti deboli. Con la seconda, «una finta opportunità». Tradotto: l’affare che non c’è, ma che ti fa perdere lo stesso due settimane di telefonate.
Il vero punto, però, è che mentre noi guardiamo a Parigi, Parigi si deve rassegnare. Lo dimostra il clamoroso stop di Crédit Agricole su Bpm, piantato lì come un cartello stradale: «Fine delle ambizioni». Con Bank of America che conferma la raccomandazione «Buy» su Mps e alza il target price a 11 euro. E non c’è solo questo. Natixis ha dovuto rinunciare alla cassaforte di Generali dov’è conservata buona parte del risparmio degli italiani. Vivendi si è ritirata. Tim è tornata italiana.
Il pendolo, dicevamo, ha cambiato asse. E spinge ben più a Ovest. Certo Parigi rimane il più importante investitore estero in Italia. Ma il vento della geopolitica e cambiato. Il nuovo asse si snoda tra Washington e Roma Gli americani non stanno bussando alla porta: sono già entrati.
E non con due spicci.
Ieri le due sigle più «Miami style» che potessero atterrare nel dossier Ilva – Bedrock Industries e Flacks Group – hanno presentato le loro offerte. Americani entrambi. Dall’odore ancora fresco di oceano, baseball e investimenti senza fronzoli.
E non è un caso isolato.
In Italia operano oltre 2.700 imprese a partecipazione statunitense, che generano 400.000 posti di lavoro. Non esattamente compratori di souvenir. Sono radicati nei capannoni, nella logistica, nelle tecnologie, nei servizi, nella manifattura. Un pezzo intero di economia reale. Poi c’è il capitolo dei giganti della finanza globale: BlackRock, Vanguard, i soliti nomi che quando entrano in una stanza fanno più rumore del tuono. Hanno fiutato l’aria e annusato l’Italia come fosse un tartufo bianco d’Alba: raro, caro e conveniente.
Gli incontri istituzionali degli ultimi anni parlano chiaro: data center, infrastrutture, digitalizzazione, energia.
Gli americani non si accontentano. Puntano al core del futuro: tecnologia, energia, scienza della vita, space economy, agritech.
Dopo l’investimento di Kkr nella rete fissa Telecom - uno dei deal più massicci degli ultimi quindici anni - la direzione è segnata: Washington ha scoperto che l’Italia rende.
A ottobre 2025 la grande conferma: missione economica a Washington, con una pioggia di annunci per oltre 4 miliardi di euro di nuovi investimenti. Non bonus, non promesse, ma progetti veri: space economy, sostenibilità, energia, life sciences, agri-tech, turism. Tutti settori dove l’Italia è più forte di quanto creda, e più sottovalutata di quanto dovrebbe.
A questo punto il pendolo ha parlato: gli americani investono, i francesi frenano.
E chissà che, alla fine, non si chiuda il cerchio: gli Usa tornano in Italia come investitori netti, e Berlusconi torna in Francia come ai tempi dell’avventura di La Cinq.
Magari senza che un nuovo Mitterrand tolga la spina.
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