2019-09-03
Il grillino, in odore di sottosegretariato, ha ospitato in casa sua il primo faccia a faccia Zingaretti-Di Maio. È stato anche intimo con Angelo Balducci, l'uomo degli appalti al G8 cui chiedeva incontri e favori: «O mi do fuoco». C'era una volta a Roma un giovanotto che voleva fare carriera e che per riuscirci aveva scelto come mentore il potentissimo presidente del Consiglio dei lavori pubblici Angelo Balducci, l'ineffabile capo della famosa Cricca degli appalti. Quel giovanotto tra un cambio di governo e l'altro si agitava e chiedeva al suo potente amico aiuto. Il 21 maggio 2008 gli invia questo ultimativo sms: «Se domani non ci vediamo giuro che mi lego seminudo a una tua gigantografia fuori casa tua urlando il mio amore e poi dandomi fuoco. E così sarò il primo balduccino suicida! V.». La V. sta per Vincenzo, che di cognome fa Spadafora ed è l'uomo che in queste ore sta facendo da levatrice al governo giallorosso. Infatti il primo tête-à-tête tra il segretario Pd, Nicola Zingaretti, e il capo politico dei 5 stelle, Luigi Di Maio, è avvenuto nella sua dimora romana. Lo stesso Spadafora nella nuova compagine dovrebbe avere un incarico di tutto rilievo, sembra sottosegretario alla presidenza del Consiglio e non più solo con la delega alle Pari opportunità, una delle specialità della casa. Lo scorso giro, quello del governo gialloblù, il nostro aveva dovuto rinunciare a fare il ministro dell'Istruzione proprio per le intercettazioni che in quei giorni riaffiorarono dalle carte dell'inchiesta sui Grandi appalti, quella per cui Balducci nel febbraio 2018 ha subito una condanna a 6 anni e mezzo per associazione per delinquere (il reato di corruzione è stato prescritto) e a ottobre la confisca di 9 milioni. Era la famosa Cricca del «sistema gelatinoso», al cui vertice, secondo gli inquirenti, c'era appunto Balducci. Da quello stesso fascicolo è emerso adesso l'sms in cui Spadafora minacciava di darsi fuoco, seppur con tono apparentemente scherzoso. Probabilmente mosso dallo stesso sense of humor, nel maggio 2009, quando era appena scoppiato il caso di Noemi Letizia, la diciottenne che chiamava Silvio Berlusconi «papi», Spadafora indossò i panni della giovane con il capo della Cricca: «Ciao Papi, incontreresti un tuo giovane balduccino? V». I messaggi di Spadafora vennero intercettati dai carabinieri del Ros e non stupirono più di tanto chi li leggeva. Infatti gli investigatori in quel periodo erano stati costretti a sentire le conversazioni più bizzarre, come quando iniziarono a intercettare un corista del Vaticano e un giovane attore mentre reclutavano carne fresca per il gentiluomo del Papa: «Angelo... io non ti dico altro. È alto 2 metri, per 97 chili, 33 anni, completamente attivo». I giornali dell'epoca riportarono il menù offerto a Balducci dai due pusher: «Ho una situazione di Napoli»; «ho una situazione cubana»; «ho un tedesco appena arrivato dalla Germania»; «ho due neri»; «ho il calciatore»; «ho uno dell'Abruzzo»; «ho il ballerino Rai». I procacciatori spesso frequentavano i collegi ecclesiastici di Roma e Balducci venne intercettato mentre domandava: «Lui poi a che ora deve tornare in seminario?».Spadafora si preoccupava, invece, del suo posto di lavoro, come si desume da un brogliaccio di una telefonata del primo maggio 2008: «Vincenzo con Angelo gli dice che ieri sera l'ha chiamato Rutelli e gli ha detto che ha sentito Figliolia (Ettore, ex capo di gabinetto dello stesso Rutelli quando era vicepremier, ndr) per cercare di sistemare gli amici più cari tra cui lui Vincenzo. Balducci chiede il numero di Francesco e Vincenzo gli dà il numero (di Rutelli, ndr)».In un'altra circostanza il percorso telefonico è inverso. È il 14 maggio 2008 quando sul cellulare di Spadafora arriva un messaggino di Barbara Palombelli, moglie di Rutelli, che gli chiede di fare da ponte col potente funzionario dei lavori pubblici. «Dopo solo 40 secondi», annotano gli inquirenti, Spadafora lo inoltra a Balducci: «Ti giro un sms appena arrivatomi dalla Palomb.». La giornalista scriveva: «Il famoso contratto di Luca Imperiali non è stato ancora mai firmato. Ci dobbiamo preocc.?». Poco dopo, un altro della Cricca, Fabio De Santis chiama Spadafora e lo rassicura: «Senti volevo avvisarti di quella cosa di Luca... che sono 4 da 10 ognuno... e che domani ne sottoscrive 3 dei 4 (…) il capo mi ha chiesto la preghiera di mandarti 'sto messaggio (…) è tutto secondo i piani, insomma». I rapporti tra Balducci e il suo «balduccino» sfiorano anche il Tg1 e il suo direttore dell'epoca, Augusto Minzolini. Al quale il gentiluomo del Papa chiede udienza per il «giovanissimo presidente dell'Unicef Italia». Minzolini autorizza il contatto, e quando Balducci lo dice a Spadafora, quest'ultimo è incredulo: «Ma veramente? (ride)... ma davvero lo posso fare? Davvero lo posso fare?». E il giovanissimo presidente dell'Unicef assume nell'organizzazione delle Nazioni unite il figlio di Angelo, Filippo Balducci. Gli assicura, per un anno e mezzo, uno stipendio di 1.300 euro lordi per 14 mensilità. «Le riconosceremo inoltre un compenso mensile lordo forfettario di euro 500 a copertura delle ore di lavoro supplementari o straordinarie da lei eventualmente effettuate comprensive delle maggiorazioni di legge», riporta la lettera di assunzione. Pochi giorni prima della firma del contratto, Balducci e Spadafora si erano sentiti al telefono per fissare un incontro, e il primo aveva chiesto di anticipare l'orario. «Agli ordini... tutto quello che lei vuole...», era stata la risposta. Non deve stupire che un uomo come Spadafora, paladino dei diritti civili e favorevole alle adozioni gay, oggi spinga per un'alleanza con i colleghi del Pd, Monica Cirinnà in testa. Anche se la sua storia non è quella tipica del progressista doc. Per esempio a 10 anni voleva farsi prete. Solo che le tentazioni della politica hanno avuto il sopravvento sulla vocazione, e decise di fuggire dal seminario. A Cardito, fonda una lista civica «Cardito in movimento» che però non si presenterà mai alle elezioni. Probabilmente perché il giovane Spadafora si rende conto di essere più bravo a collezionare bigliettini da visita che voti. Nel 1994, a 25 anni, è il braccio destro di Andrea Losco, presidente della Regione Campania in quota Udr (grazie a un ribaltone organizzato da Clemente Mastella). Poi transita nei Verdi di Alfonso Pecoraro Scanio (con cui lavorerà al ministero dell'Ambiente) e nella Margherita di Rutelli, di cui diventa capo segretaria al ministero dei Beni culturali nel secondo governo Prodi. A 34 anni, nel 2008, è presidente del Comitato italiano dell'Unicef. L'anno dopo è coordinatore del «Junior 8 Summit», un G8 per ragazzi. Incassa due consulenze per la struttura di missione delle celebrazioni dei 150 anni dell'unità d'Italia, quella di Balducci, e, nel 2010, il sindaco di Napoli Rosa Russo Iervolino (Pd) lo sceglie come presidente delle Terme di Agnano. Nel 2011 lo troviamo Garante per l'infanzia su indicazione dei presidenti di Camera e Senato, Gianfranco Fini e Renato Schifani, entrambi di centrodestra. Una promozione sponsorizzata dall'allora ministro alle Pari opportunità Mara Carfagna. Una ex parlamentare che ha assistito a quella scalata, ci ha confidato: «È un affabulatore, ma non conosce la materia dei diritti dell'infanzia. Solo una volta, in maniera un po' eclatante, difese un ragazzino gay che era stato malmenato in una scuola romana, questa era l'unica sua preoccupazione». Nel 2013, il balduccino diventa montezemolino, tanto che Scelta Civica, il movimento di Mario Monti e Luca Cordero di Montezemolo lo sonda per una candidatura in Parlamento, ma lui rifiuta. Aveva già annusato l'aria del nuovo che avanza. Si tramanda che abbia cercato un contatto con Matteo Renzi, all'epoca sindaco di Firenze, ma senza successo, prima di venire folgorato sulla via di Beppe Grillo, anzi di Luigi Di Maio. Che, nel 2018, lo porta con sé a Palazzo Chigi. A luglio Spadafora ha iniziato ad attaccare Salvini definendolo fomentatore di «odio maschilista» contro la capitana Carola Rackete e a fine agosto gli ha chiuso la porta in faccia assicurando che non c'era più spazio per un ritorno dei 5 stelle con la Lega. Ieri si è rivolto alla base dei militanti che dovranno oggi dare il via libera al governo Conte bis sulla piattaforma Rousseau: «Confido molto che i nostri attivisti ci diano fiducia anche questa volta». Per lui Di Maio chiede la conferma a sottosegretario ma con deleghe molto più pesanti come quelle che sino al mese scorso erano affidate a Giancarlo Giorgetti, o prima a Luca Lotti. Perché nell'Italia giallorosa un balduccino per fare carriera non ha più bisogno di minacciare di darsi fuoco.
Daniela Palazzoli, ritratto di Alberto Burri
Scomparsa il 12 ottobre scorso, allieva di Anna Maria Brizio e direttrice di Brera negli anni Ottanta, fu tra le prime a riconoscere nella fotografia un linguaggio artistico maturo. Tra mostre, riviste e didattica, costruì un pensiero critico fondato sul dialogo e sull’intelligenza delle immagini. L’eredità oggi vive anche nel lavoro del figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e presidente Angamc.
C’è una frase che Daniela Palazzoli amava ripetere: «Una mostra ha un senso che dura nel tempo, che crea adepti, un interesse, un pubblico. Alla base c’è una stima reciproca. Senza quella non esiste una mostra.» È una dichiarazione semplice, ma racchiude l’essenza di un pensiero critico e curatoriale che, dagli anni Sessanta fino ai primi Duemila, ha inciso profondamente nel modo italiano di intendere l’arte.
Scomparsa il 12 ottobre del 2025, storica dell’arte, curatrice, teorica, docente e direttrice dell’Accademia di Brera, Palazzoli è stata una figura-chiave dell’avanguardia critica italiana, capace di dare alla fotografia la dignità di linguaggio artistico autonomo quando ancora era relegata al margine dei musei e delle accademie. Una donna che ha attraversato cinquant’anni di arte contemporanea costruendo ponti tra discipline, artisti, generazioni, in un continuo esercizio di intelligenza e di visione.
Le origini: l’arte come destino di famiglia
Nata a Milano nel 1940, Daniela Palazzoli cresce in un ambiente dove l’arte non è un accidente, ma un linguaggio quotidiano. Suo padre, Peppino Palazzoli, fondatore nel 1957 della Galleria Blu, è uno dei galleristi che più precocemente hanno colto la portata delle avanguardie storiche e del nuovo informale. Da lui eredita la convinzione che l’arte debba essere una forma di pensiero, non di consumo.
Negli anni Cinquanta e Sessanta Milano è un laboratorio di idee. Palazzoli studia Storia dell’arte all’Università degli Studi di Milano con Anna Maria Brizio, allieva di Lionello Venturi, e si laurea su un tema che già rivela la direzione del suo sguardo: il Bauhaus, e il modo in cui la scuola tedesca ha unito arte, design e vita quotidiana. «Mi sembrava un’idea meravigliosa senza rinunciare all’arte», ricordava in un’intervista a Giorgina Bertolino per gli Amici Torinesi dell’Arte Contemporanea.
A ventun anni parte per la Germania per completare le ricerche, si confronta con Walter Gropius (che le scrive cinque lettere personali) e, tornata in Italia, viene notata da Vittorio Gregotti ed Ernesto Rogers, che la invitano a insegnare alla Facoltà di Architettura. A ventitré anni è già docente di Storia dell’Arte, prima donna in un ambiente dominato dagli uomini.
Gli anni torinesi e l’invenzione della mostra come linguaggio
Torino è il primo teatro della sua azione. Nel 1967 cura “Con temp l’azione”, una mostra che coinvolge tre gallerie — Il Punto, Christian Stein, Sperone — e che riunisce artisti come Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Luciano Fabro, Mario Merz, Michelangelo Pistoletto, Gilberto Zorio. Una generazione che di lì a poco sarebbe stata definita “Arte Povera”.
Quella mostra è una dichiarazione di metodo: Palazzoli non si limita a selezionare opere, ma costruisce relazioni. «Si tratta di individuare gli interlocutori migliori, di convincerli a condividere la tua idea, di renderli complici», dirà più tardi. Con temp l’azione è l’inizio di un modo nuovo di intendere la curatela: non come organizzazione, ma come scrittura di un pensiero condiviso.
Nel 1973 realizza “Combattimento per un’immagine” al Palazzo Reale di Torino, un progetto che segna una svolta nel dibattito sulla fotografia. Accanto a Luigi Carluccio, Palazzoli costruisce un percorso che intreccia Man Ray, Duchamp e la fotografia d’autore, rivendicando per il medium una pari dignità artistica. È in quell’occasione che scrive: «La fotografia è nata adulta», una definizione destinata a diventare emblematica.
L’intelligenza delle immagini
Negli anni Settanta, Palazzoli si muove tra Milano e Torino, tra la curatela e la teoria. Fonda la rivista “BIT” (1967-68), che nel giro di pochi numeri raccoglie attorno a sé voci decisive — tra cui Germano Celant, Tommaso Trini, Gianni Diacono — diventando un laboratorio critico dell’Italia post-1968.
Nel 1972 cura la mostra “I denti del drago” e partecipa alla 36ª Biennale di Venezia, nella sezione Il libro come luogo di ricerca, accanto a Renato Barilli. È una stagione in cui il concetto di opera si allarga al libro, alla rivista, al linguaggio. «Ho sempre pensato che la mostra dovesse essere una forma di comunicazione autonoma», spiegava nel 2007 in Arte e Critica.
La sua riflessione sull’immagine — sviluppata nei volumi Fotografia, cinema, videotape (1976) e Il corpo scoperto. Il nudo in fotografia (1988) — è uno dei primi tentativi italiani di analizzare la fotografia come linguaggio del contemporaneo, non come disciplina ancillare.
Brera e l’impegno pedagogico
Negli anni Ottanta Palazzoli approda all’Accademia di Belle Arti di Brera, dove sarà direttrice dal 1987 al 1992. Introduce un approccio didattico aperto, interdisciplinare, convinta che il compito dell’Accademia non sia formare artisti, ma cittadini consapevoli della funzione dell’immagine nel mondo. In quegli anni l’arte italiana vive la transizione verso la postmodernità: lei ne accompagna i mutamenti con una lucidità mai dogmatica.
Brera, per Palazzoli, è una palestra civile. Nelle sue aule si discute di semiotica, fotografia, comunicazione visiva. È in questo contesto che molti futuri curatori e critici — oggi figure di rilievo nelle istituzioni italiane — trovano nella sua lezione un modello di rigore e libertà.
Il sentimento del Duemila
Dalla fine degli anni Novanta al nuovo secolo, Palazzoli continua a curare mostre di grande respiro: “Il sentimento del 2000. Arte e foto 1960-2000” (Triennale di Milano, 1999), “La Cina. Prospettive d’arte contemporanea” (2005), “India. Arte oggi” (2007). Il suo sguardo si sposta verso Oriente, cogliendo i segni di un mondo globalizzato dove la fotografia diventa linguaggio planetario.
«Mi sono spostata, ho viaggiato e non solo dal punto di vista fisico», diceva. «Sono un viaggiatore e non un turista.» Una definizione che è quasi un manifesto: l’idea del curatore come esploratore di linguaggi e di culture, più che come amministratore dell’esistente.
Il suo ultimo progetto, “Photosequences” (2018), è un omaggio all’immagine in movimento, al rapporto tra sequenza, memoria e percezione.
Pensiero e eredità
Daniela Palazzoli ha lasciato un segno profondo non solo come curatrice, ma come pensatrice dell’arte. Nei suoi scritti e nelle interviste torna spesso il tema della mostra come forma autonoma di comunicazione: non semplice contenitore, ma linguaggio.
«La comprensione dell’arte», scriveva nel 1973 su Data, «nasce solo dalla partecipazione ai suoi problemi e dalla critica ai suoi linguaggi. Essa si fonda su un dialogo personale e sociale che per esistere ha bisogno di strutture che funzionino nella quotidianità e incidano nella vita dei cittadini.»
Era questa la sua idea di critica: un’arte civile, capace di rendere l’arte parte della vita.
L’eredità di una visione
Oggi il suo nome è legato non solo alle mostre e ai saggi, ma anche al Fondo Daniela Palazzoli, custodito allo IUAV di Venezia, che raccoglie oltre 1.500 volumi e documenti di lavoro. Un archivio che restituisce mezzo secolo di riflessione sulla fotografia, sul ruolo dell’immagine nella società, sul legame tra arte e comunicazione.
Ma la sua eredità più viva è forse quella raccolta dal figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e fondatore di Osart Gallery, che dal 2008 rappresenta uno dei punti di riferimento per la ricerca artistica contemporanea in Italia. Presidente dell’ANGAMC (Associazione Nazionale Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea) dal 2022 , Ortolani prosegue, con spirito diverso ma affine, quella tensione tra sperimentazione e responsabilità che ha animato il percorso della madre.
Conclusione: l’intelligenza come pratica
Nel ricordarla, colpisce la coerenza discreta della sua traiettoria. Palazzoli ha attraversato decenni di trasformazioni mantenendo una postura rara: quella di chi sa pensare senza gridare, di chi considera l’arte un luogo di ricerca e non di potere.
Ha dato spazio a linguaggi considerati “minori”, ha anticipato riflessioni oggi centrali sulla fotografia, sul digitale, sull’immagine come costruzione di senso collettivo. In un paese spesso restio a riconoscere le sue pioniere, Daniela Palazzoli ha aperto strade, lasciando dietro di sé una lezione di metodo e di libertà.
La sua figura rimane come una bussola silenziosa: nel tempo delle immagini totali, lei ci ha insegnato che guardare non basta — bisogna vedere, e vedere è sempre un atto di pensiero.
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