2019-09-29
Sotto la pochette di Conte il nulla. Quanto è grigia l’era giuseppina
L'Italia giallorossa fa rimpiangere quella degli anni Sessanta. Quando cultura e ironia andavano a braccetto. E gli intellettuali non disprezzavano il popolo. Mentre oggi il premier sembra pronto a tutto solo per il potere.Questo presidente scivoloso, con i suoi fazzolettini a quattro punte e i suoi ministri tronfi quanto vuoti mi ha fatto capire il valore dell'Italia degli anni Sessanta (i miei 20), per certi versi il suo contrario. Lo esprimeva benissimo il cinema italiano, in quel momento visto e seguito in tutto il mondo, in estasi per ogni cosa uscisse da Cinecittà. A rendere completamente diverse queste due Italie è il rapporto con la verità. L'Italia di allora, che si travestiva allegramente da antica Roma o da Far West, giocava a essere falsa ed era impudentemente autentica e umana. Questa, che si dà un tono ripetendo di essere perbene è più falsa dei soldi del Monopoli, e pretende anche che le si creda. Quella era divertente e imprevedibile e questa è noiosa come un comunicato di Confindustria, quella era fantasiosa e questa stupisce per l'arrogante ovvietà, quella era autoironica e di questa sorprende la totale mancanza di senso dell'humour dei suoi autoincensamenti. Come è potuto accadere che lo stesso popolo in pochi decenni abbia prodotto gente così diversa, con una così precipitosa caduta intellettuale, di stile, di discorso? Forse è proprio perché questi con il popolo italiano non c'entrano nulla; sono solo gli sconfitti a ripetizione degli ultimi anni, nelle mani dei quali il Potere ci ha rimesso invece di lasciarci votare e mandarli a casa. La grandezza di quell'epoca e la sua abissale distanza dall'era giuseppina mi sono apparse improvvisamente dall'appena pubblicata biografia: Chi si firma è perduto. Ennio De Concini: memorie di un fallito di successo, scritta da Jonathan Giustini per Iacobelli editore. All'epoca, alcuni personaggi del libro, che frequentavo, mi descrivevano De Concini come il deus ex machina del cinema di quegli anni, anche se (al contrario dei pataccari attuali) lui non voleva mostrarsi mai. «È l'uomo più influente del cinema attuale», mi spiegava Gillo Pontecorvo, regista de La battaglia di Algeri, Kapò, Queimada (con Marlon Brando e Maria Schneider), «ma inafferrabile». La stessa accusa, l'inafferrabilità, che nel libro De Concini muove a lui.Il fatto è che De Concini con registi e produttori, come con tutto nella vita, voleva fare svelto, e bene; soggetto, sceneggiatura, soldi e poi via a fare subito un altro film. «Quando consegno (la sceneggiatura, ndr) è quello e se agli altri non va bene pazienza»: a differenza degli eterni balletti degli inconcludenti potenti di oggi. Solo Pasolini era veloce come lui a sfornare soggetti. Mentre Gillo (ricco di nascita) era tutt'altro: perfezionista, insicuro, rifaceva le scene in continuazione. De Concini ci lavorò nel primo film di Pontecorvo, La lunga strada azzurra, con Alida Valli e Yves Montand, poi basta: tirava troppo per le lunghe. Anche questo era un tratto dell'epoca: fare, fare bene, fare in fretta, e guadagnare molto (che De Concini sintetizzava in «fare qualche lira»). Ma erano fiumi di soldi. Come l'Italia di quegli anni, che il cinema raccontava senza storie. Era l'Italia del delitto d'onore, che De Concini presentò con humour asciutto nel Divorzio all'italiana (1961), senza tutti i sentimentalismi e le tirate retoriche di oggi. Vinse l'Oscar per la sceneggiatura e fu successo mondiale di incassi. Era un'Italia così: sacche di arretratezza (che sono ancora lì), ma anche la capacità di guardarle con umanità e verità, senza nascondersi dietro una narrazione politicamente corretta. Il bello era anche che si rideva sempre molto, nei drammi come nelle commedie, mentre il piacionismo degli pseudo protagonisti attuali suscita gesti scaramantici. Coppia forte dell'epoca fu appunto quella tra Nello Santi, un pratese fantasioso, marito di una milanese erede Invernizzi, produttore con la sua Galatea film, ed Ennio De Concini, che lo riforniva di soggetti e sceneggiature. Avevano due filoni principali: quello per fare i soldi e quello per perderli con l' impegno sociale (come il toccante Italiani brava gente, con la regia di Giuseppe De Santis): li affrontavano entrambi con virile fermezza. La macchina dei soldi fu soprattutto quella dei Peplum, detti anche sandaloni, i film in costume di ambiente di solito greco-romano. Il capostipite fu Le fatiche di Ercole, soggetto e sceneggiatura di De Concini, protagonista il mister Universo Steve Reeves, apripista di altri culturisti americani, che accorsero a frotte a Roma per partecipare alle dozzine di sandaloni che seguirono. C'era anche Primo Carnera, detto «Il gigante buono» o anche «La montagna che cammina», che era stato campione mondiale di boxe 25 anni prima e qui s'impuntò. Racconta De Concini: «Non ci stava a lasciarsi buttar giù da Ercole, Steve Reeves, che in realtà non aveva la forza di alzare uno stecchino». Il film «costò un'ottantina di milioni» e fece i miliardi, nel mondo, oltre ad aprire un genere che rimase in testa alle classifiche per i dieci anni successivi. Non erano però solo stupidaggini. Intanto perché il divertimento non è mai stupido; se diverte è perché è vitale, buono. È lo squallore pretenzioso dei giuseppi che si danno un tono a deprimere. I sandaloni avevano anche altri meriti. Intanto sotto sotto si imparava sempre qualcosa. Oggi le aule universitarie sono piene di gente che Ulisse non sa neppure chi sia. Qui c'erano battute didattiche tipo: «Basta Ercole di sbatterlo a terra. Non hai capito che è Anteo, figlio della terra, e ogni volta che tocca terra diventa più forte di prima?». Roba che giuseppi non saprebbe più come raccapezzarcisi, altro che il nuovo umanesimo di plastica. E poi c'è il senso di un'appartenenza culturale vera: non solo per l'ascendenza latino-greca dei soggetti, ma perché italiano era il capostipite mondiale dei film in costume: Cabiria, girato nel 1914 a Torino (allora capitale del cinema italiano) da Giovanni Pastrone con 4.000 metri di pellicola, una proiezione di quattro ore, didascalie di Gabriele D'Annunzio, musica appositamente composta da Ildebrando Pizzetti. E un impressionante scaricatore che Pastrone aveva scovato nel porto di Genova nel ruolo di Maciste, schiavo fortissimo e fedele, difensore del popolo e degli oppressi. Anche Cabiria fece scuola, e fu studiato dal regista americano David Wark Griffith per il suo storico Intolerance. Il fatto è che nel genere Peplum (come negli spaghetti western, che gli succedono pochi anni dopo) l'oggetto amato dalla rappresentazione cinematografica è il popolo, ed è dalla parte dei suoi eroi che batte il cuore dei suoi spettatori. Ma anche dei critici più sofisticati, come i francesi dei Cahiers du cinema, pazzi per entrambi i filoni. Questa è anche la ragione (a parte i soldi) che faceva sì che tipi tutt'altro che banali, come De Concini o Nello Santi ci si dedicassero per anni. Perché non c'era il tanfo del perbenismo smorto e frustrante dei giuseppi al servizio dei potenti, ma il sudore dei disgraziati che, diventati consapevoli della propria forza, rovesciavano i tavoli del potere. Una bellezza da coprire con una tunica romana, o una camicia da cowboy. Perché se gli metti su una giacchettina blu ti viene in mente giuseppi, e diventa tutto finto.
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Piergiorgio Odifreddi (Getty Images)