2019-02-20
Sorpresa, l’«inno alla droga» di Sanremo è una canzone che invece parla del riscatto
Ora che le polemiche sul Festival di Sanremo cominciano a calare, è il momento di riascoltare uno dei brani più contestati della competizione: Rolls Royce di Achille Lauro. Considerato un inno alla droga, racconta il riscatto e la ricerca di Dio.Mentre il mondo radical chic si divertiva ballando Soldi - il brano di Mahmood che ha sollevato il noto polverone - un'altra canzone sanremese ha ottenuto parecchia pubblicità per via del suo «messaggio» (vero o presunto). Stiamo parlando di Rolls Royce, brano accusato di essere un inno alla droga. A interpretarlo è stato Achille Lauro, eclettico trapper del quartiere Vigne Nuove di Roma. Il quale - forse perché è bianco come il latte e non può passare per la versione egiziana di Remi - non ha goduto del favore della stampa progressista. Le telecamere di Striscia la notizia si sono presentate dal cantante, dagli organizzatori e conduttori del festival e perfino dal ministro Salvini sostenendo che Rolls Royce sarebbe una tipologia di ecstasy. Non solo: Lauro è stato accusato di essere uno spacciatore. Forse, però, ora che la buriana del festival comincia a calare, è giunto il momento di riascoltare questo brano tanto contestato e di riflettere su che cosa comunichi davvero. Il testo di Rolls Royce rappresenta un'intera generazione di ragazzi che, alla fine dell'infanzia, si trovano circondati da sostanze stupefacenti spacciate fuori e dentro la scuola. Ragazzi che frequentano il bosco di Rogoredo o il quartiere San Lorenzo (quello dove è morta Desirée) in cerca di droga, così come in cerca di droga, scappata dalla comunità, era la povera Pamela Mastropietro. Abbiamo citato pochi nomi di persone e luoghi, eppure rappresentano la punta di un iceberg composto da una impressionante moltitudine di giovani che resta anonima, sia quando riesce a vincere la tossicodipendenza sia quando ne viene sconfitta. La generazione di Achille Lauro (nato nel 1990) è tra quelle che più sono state dimenticate dallo Stato. Si tratta di giovani abbandonati mentre la crisi economica ne vessava i genitori e quella di valori annichiliva il contesto esistenziale dei loro cuori e delle loro menti. La canzone di Achille Lauro parla proprio di questo: dire che sia una celebrazione della droga sarebbe un po' come sostenere che Roberto Saviano celebri la camorra. Con una tecnica compositiva di stampo postmoderno, a metà tra La passeggiata di Aldo Palazzeschi (in cui il poeta racconta una passeggiata riportando tutte le scritte, le insegne di negozio e le frasi ascoltate mentre percorre Via Garibaldi) e il cut-up di William Burroughs, Lauro compone un collage dei «valori» che fanno parte della vita reale di molti giovani di oggi: «Sdraiato a terra come i Doors»; «vestito bene Via del Corso» (è sottinteso “in" e in altre versioni dice «vestito bene Michael Kors», ma il concetto non cambia); «no non è amore, è un sexy shop»; «no non è un drink, è Paul Gascoigne». Ovvero, in ordine: lo sballo, l'apparenza, il rapporto con l'altro sesso concepito prevalentemente come sessuale anziché sentimentale, il binge drinking. Il brano sembra esaltare queste «mete esistenziali», mentre, verso dopo verso, cita i nomi di artisti che, oltre ad aver costruito un enorme successo, hanno sfiorato o trovato la morte, direttamente o indirettamente, tramite le droghe (anche quelle legali come i farmaci, si veda Elvis): da Macaulay Culkin, il bambino prodigio Kevin McCallister di Mamma, ho perso l'aereo, a Amy Winehouse, da Jimi Hendrix a Elvis Presley. La Rolls Royce del titolo, poi, è un riferimento al lusso: «Rolls Royce / sì, come Marilyn Monroe», dice un altro distico che allude alla frase attribuita a Marilyn Monroe, secondo cui è meglio piangere in una Rolls Royce che su un sedile della metropolitana. Se anche la canzone finisse qui, le accuse di inneggiare alla droga sarebbero comunque pretestuose. Nella parte del testo che abbiamo citato, infatti, Lauro sta come tracciando un ritratto. Mette in musica la fotografia di un intero universo giovanile. Ma, dicevamo, la canzone non finisce qui. Anzi, prosegue con versi più profondi. «Amore mio sei il diavolo che torni ma / solo per dare fuoco al mio cuore di carta / Dio, ti prego salvaci da questi giorni / Tieni da parte un posto e segnati 'sti nomi», recita l'outro del pezzo. Qui ci troviamo davanti a un'intensa confessione della propria fragilità e del desiderio di essere salvati proprio da quel degrado che il trapper ha descritto all'inizio della canzone. Se la storia di Achille Lauro (al secolo Lauro De Marinis) fosse stata indagata con la stessa attenzione con cui è stata fatta l'esegesi dei testi di Mahmood, si sarebbe scoperto che, in effetti, Lauro è stato sì utilizzatore di droga, spacciatore e perfino rapinatore. Ma ne è uscito, da solo, dedicandosi alla musica. Lo racconta nel libro Sono io Amleto, pubblicato da Rizzoli. La storia di Achille Lauro è fin troppo comune: una famiglia nella quale il padre è vissuto come un nemico e non come una guida; una prole che frequenta rave e soprattutto centri sociali (dal Villaggio Globale al Brancaleone) dove inizia a usare droghe perché le trova; una scuola talmente sgarrupata che se smetti di frequentarla nessun insegnante intento a spendere la Carta del docente sul sito della Feltrinelli ti verrà a chiedere perché; un lavoro che nella migliore delle ipotesi offre giornate di dodici ore da facchino in nero per traslochi con paga a babbo morto. Ed è a quel punto che il «tossico» decide di salire di uno scalino, di farsi spacciatore, di provare a nuotare nel fango, invece di annegarci e basta. È la trama esistenziale di uno, mille, centomila spacciatori italiani. Ringraziando quel Dio che Achille Lauro cita veramente spesso, il giovane cantante ha iniziato a capire che quella vita andava abbandonata e che la rabbia poteva essere canalizzata nella creazione artistica quando ha visto intorno e dentro di sé la distruzione che una tale vita comportava. E questo racconta. In Ragazzi madre, album del 2016, Achille Lauro parla dei ragazzi dei quartieri difficili, senza famiglie che riescono a tirarli fuori dal gorgo in cui cadono, cresciuti in strada da ragazzi come loro e che a loro volta crescono ragazzi come loro. In una canzone di quell'album, Ulalala, Lauro dice: «Volevo avere ma non per farlo vedere», spiegando quale cosmico vuoto i giovani cerchino di colmare con molti dei disvalori oggi eletti a valori, in primis il denaro. Denaro che, nel mondo di oggi, purtroppo si può realizzare molto più facilmente disonestamente che onestamente. Lauro, adesso, ha ricostruito i rapporti con la sua famiglia e conduce una vita non più autolesionista: nel suo libro, nel capitolo finale Redenzione, parla anche della «decisione di smettere mentre i miei amici morivano» e ringrazia Dio per molte cose, addirittura per avergli dato la possibilità, col successo, di pagare per riavere i gioielli che sua madre aveva impegnato. Lo ringrazia e gli chiede scusa più volte, tanto che la sua sembra una preghiera.Ma vogliamo chiudere citando un verso di un altro brano del trapper (quello intitolato Grimey), nel quale dice: «Ho vissuto anni come in acid house / tutti i bibitoni e gli acidi sparati al rave / che strano io mi so' drogato e pari scemo te». Ecco, questa è la migliore risposta a chi lo ha ridotto a un cantore degli stupefacenti. Quel verso sembra profeticamente indirizzato a chi lo vuol ridurre ancora a essere soltanto ciò che non è più.