2018-07-30
«Sono stato nell’aldilà e ho visto Fellini»
L'ex sindaco craxiano di Milano: «Ho avuto un infarto, per un attimo mi sono apparsi una luce verde e il regista che mi veniva incontro. Da allora non ho più paura di morire». Cinque bypass, sette stent, dopo Tangentopoli si è reinventato scrittore (17 libri) e giornalista.«Ho sopportato due infarti, un intervento al centro cardiologico Monzino, cinque bypass, sette stent. Mi mancava il pacemaker, l'ho vinto un anno fa. Numeri da giocare al Lotto». Per Paolo Pillitteri sono lo spartiacque fra la prima vita e la seconda, il punto di rottura fra esistenze che non si somigliano. Politico socialista di prima fila, cognato di Bettino Craxi, sindaco della Milano con le ultime due dita di amaro da bere prima del terremoto di Tangentopoli. Poi undici processi, nove assoluzioni, una condanna e un patteggiamento. E soprattutto una seconda vita da scrittore, regista, critico cinematografico, condirettore con Arturo Diaconale dell'Opinione, «mica paglia, il primo giornale liberale d'Italia, sul quale Cavour imparò a scrivere in italiano». Ha firmato diciassette libri con ritmi da Georges Simenon, a 77 anni ne ha altri in canna e dice: «La cultura mi ha salvato la vita». Oggi si tiene in forma con quella, con qualche amico, con le passeggiate dentro una Milano sempre amata. La politica? «No, basta, in Italia è finita». Per lui la svolta avvenne nel momento del dolore più acuto, quando passeggiando per un attimo nell'aldilà vide una luce verde e Federico Fellini che gli veniva incontro.Paolo Pillitteri, cominciamo con questa immagine da Divina Commedia sceneggiata da Paolo Sorrentino. Cosa accadde?«Era l'agosto del 1994, al tempo del primo infarto. Ero a Postalesio, in Valtellina, e mia mamma Zelia si accorse che stavo male. Avvertii un dolore fortissimo al petto, persi conoscenza e il piccolo ospedale di Sondrio mi salvò la vita. In quel momento di sospensione dell'esistenza vidi una luce verde, il dolore scomparve e mi si parò davanti Federico Fellini; pervaso da un gran senso di pace non volevo più tornare indietro. Da quel momento non ho più paura di morire».Il senso di tutto questo?«Un rito di passaggio. La politica era il passato e il cinema, la scrittura, il pensiero sarebbero stati il futuro. Fellini era morto da pochi mesi, mi era rimasto nel cuore. Avevo trascorso un anno con lui, volevo scrivere un libro ma era impossibile: mi portava in tutti i ristoranti e assaggiava anche quello che ordinavo io. Sarebbe stato più facile mettere insieme un volume di ricette. Riuscii a farlo e lo pubblicai nel 1995, La baracca di Fellini. Lui non era un regista, era uno sciamano. Riuscì a prevedere anche Tangentopoli».Dove sta scritto?«Lei va a rivedersi Prova d'orchestra e ci trova la parabola del nuovo potere. Un apologo, un capolavoro, solo che non ebbe successo perché era troppo corto e gli esercenti non riuscivano a piazzarlo. Federico era pigro».La palla nera che spazzò via la prima repubblica è tornata ad agire il 4 marzo scorso. Vede nuova vita sotto le macerie dei partiti tradizionali?«C'è ancora troppa polvere nell'aria. Da una parte vedo Matteo Salvini che sa coniugare i verbi della politica ed è capo e figlio di un partito radicato da decenni sul territorio. Con un limite nel carattere: troppo irruento, troppo decisionista su tutto».Manca l'altra metà.«Ci arrivo. Dall'altra vedo Luigi Di Maio con la sindrome dell'ultimo arrivato, passa da un tema all'altro, parla di tutto e di tutti. Così facendo denota superficialità e mostra di non conoscere gli argomenti sul tavolo. Insomma, chiacchiera. Al Gazzettino Padano c'era una rubrica stupenda dal titolo: «Ciciarem un cicinin». Ecco, la manderei a Di Maio tradotta in napoletano». Vista dalla prima repubblica, la coalizione 5 stelle-Lega va lontano?«Mi sa che anche per questo governo vale la canzoncina di Ernesto Calindri: “Tutto è una lusinga/ dura minga/ dura no"».Neanche Matteo Renzi è riuscito a durare.«È crollato perché ha perso il referendum. E quando lo perdi non c'è più niente da fare, ne sapeva qualcosa Bettino con il suo invito ad andare al mare. Il referendum è il giudizio popolare dell'era moderna e lui lo ha sottovalutato. Ma per me la cosa tragicomica è che nei contenuti aveva ragione».Così succede che in assenza dei partiti l'opposizione la fanno gli intellettuali.«Ma senza ideologia e partiti l'intellettuale nuota nell'aria; come lo si intendeva ai miei tempi è scomparso. Oggi c'è polifonia, c'è varietà, ma non c'è un vero dibattito. Negli anni Ottanta e Novanta i salotti degli intellettuali facevano paura, determinavano le tendenze, eleggevano i sindaci. A Milano era così, il tram era di sinistra e la metropolitana di destra. Adesso è tutto un rumore di fondo. Prenda Roberto Saviano: senza la televisione e senza il potere mediatico di Repubblica non esisterebbe perché non ha niente da dire. Il problema è che oggi non si guarda più ai contenuti, ma a chi parla».Mentre lei scriveva 17 libri e andava al cinema, qui c'è stata la rivoluzione digitale.«Il mondo digitale è utile, va usato come un nuovo modello di lavastoviglie, non mi pongo certo con conflittualità anche perché sarà sempre più invadente. Però non mi piace perché favorisce la superficialità. È il nuovo comunismo gestito da miliardari, unifica verso il basso. Un finto livellatore, fa credere alla gente che siamo tutti allo stesso livello».Cos'era la Milano da bere?«Volti, aneddoti, la politica. Soprattutto la moda che ha dato la spinta decisiva alla Milano di oggi, alla Milano della bellezza. Ma voltarsi indietro è sempre un atto d'amore un po' cinematografico. Alla fine quell'epoca mi sembra una vecchia fotografia di Robert Capa, con la polvere del tempo depositata sulla pellicola. Vedi tutto e capisci tutto, ma cogli il distacco, sai che è storia. Le emozioni non ci sono più. Mi viene in mente una battuta da La Califfa di Alberto Bevilacqua: l'importante è essere vivi».Il suo «razzisti, straccioni» ai tranvieri ha segnato un'epoca e fa ancora la sua porca figura su YouTube.«Che storia assurda. Fuori dal deposito dell'Atm c'erano alcune roulotte di immigrati e loro non le volevano. Sono arrivato in bicicletta per rendermi conto dei motivi della protesta e quando ho capito che erano questi, mi sono arrabbiato. I tranvieri erano di sinistra, ma sembravano dei nazisti. Adesso i radical chic, che allora mi crocifissero, mi avrebbero applaudito».Cosa ricorda del periodo da sindaco?«La fatica non di amministrare, ma di tenere insieme la coalizione con i democristiani. C'era una grana al giorno, gli andreottiani erano ingestibili. Tentarono di incastrarmi con la Duomo Connection, ma Ilda Boccassini mi assolse. Poi fecero casino sul trasferimento della fiera da Lacchiarella a Rho. Al mattino l'autista mi chiedeva: “Se femm?". E io gli rispondevo: “Andemm al Domm". Servivano benedizioni».A parte Craxi qual era il politico al quale si sentiva più legato?«Il presidente Francesco Cossiga mi voleva bene, tutte le volte che pubblicavo un libro mi chiamava. Per farlo venire a Milano abbiamo inaugurato tre volte la linea 3 della metropolitana nel periodo di Italia '90. Andò anche sulla tomba di Craxi a recitare l'Eterno riposo. Schiena dritta, non lo dimenticherò mai».Fuori c'è Milano, che tutto contiene ma comincia a scoppiare. Il melting pot è una buona idea?«Milano è una stupenda città socialista che include e salva se stessa. Anche in via Paolo Sarpi, fra le botteghe cinesi, si avverte la milanesità. Questo per dire che Milano non è capace di respingere; nel 1957 qui c'era già l'assessorato all'immigrazione, c'era gente che per dormire tirava giù il letto con la corda. E in una stanza erano ammassate anche 20 persone. Nel 1963 su questo tema girai un documentario, Milano oh cara, lo sceneggiatore era Craxi. Questa città cambia sempre in meglio».In che senso, ci spiega?«È solida, consapevole, non riesci neanche a violentarla. È la più a sud d'Europa, non la più a nord del Mediterraneo. Mi piace anche la Milano verticale, quella dell'Isola, perché non è disordinata. Secondo Giò Ponti il grattacielo Pirelli doveva essere il buongiorno che la città dava ai lavoratori che arrivavano dalla stazione centrale. Quanta gente abbiamo salutato. Certo, il benvenuto è per chi rispetta le regole, perché le regole le fa Milano, patria di ogni avanguardia».Da cosa lo deduce?«È un marchio e un destino. Due anni fa erano tutti pazzi per l'artista Christo, l'impacchettatore, per via della passerella galleggiante sul lago d'Iseo. Nel 1973 da assessore alla Cultura gli feci coprire le statue nelle piazze attorno al Duomo. Nacque uno scandalo, ma monsignor Ernesto Pisoni mi assolse con la frase manzoniana Omnia munda mundis, tutto è puro per i puri. Non si inventa mai niente».Mezza vita dedicata alla politica e mezza al cinema. Chi sono i suoi registi preferiti?«I grandi costruttori di film, quelli che sanno raccontare come Alfred Hitchcock e Francois Truffaut. In Italia siamo ancora fermi a Vittorio De Sica e Federico Fellini. Oggi zero. È bravo Carlo Verdone, ma è più un attore. Il problema di fondo si chiama tv e la solita frase: facciamo un film per la tv che ci paga le spese. Come dire, mi arrendo».Ha glissato su Sorrentino, uomo da Oscar.«È solido, originale. Ha fallito con il film su Berlusconi, ma Berlusconi è già di per sé un film. Per raccontare una storia originale devi superare il flusso di immagini che si porta dietro un simile personaggio. Un giorno con lui mi sono sentito io dentro un film dei fratelli Vanzina».Per favore ce lo racconti.«Mondiali del '90 all'orizzonte, cantieri inenarrabili, io sindaco. Nel mio ufficio Luca di Montezemolo, Massimo Moratti e Silvio Berlusconi. Massimo scuote il capo: “Non ce la faremo mai". Silvio salta su: “Faccio tutto io". E Luca con un filo di voce: “Posso chiedere la parola? Suggerisco prudenza, ma coraggio". C'era l'Italia».