
Senza alcun fondamento giuridico, il vincolo esterno da noi è diventato dogma. Con l’applauso dei media e la resa della politica, che ora prova a tornare al suo posto.«L’unificazione europea sulla base di un’unione pattizia tra Stati sovrani [...] non può realizzarsi in modo tale da lasciare agli Stati membri uno spazio insufficiente per la determinazione politica delle condizioni di vita economiche, culturali e sociali. Questo vale in particolare per le materie che danno forma agli ambienti della vita dei cittadini tutelati dai diritti fondamentali, soprattutto allo spazio privato della responsabilità individuale e della sicurezza personale e sociale, e per le decisioni politiche che dipendono in particolar modo da pre-comprensioni culturali, storiche e linguistiche e che alimentano i discorsi nello spazio di una sfera pubblica politica organizzata dai partiti politici e dal Parlamento».La frase qui citata (traduzione a cura della Corte costituzionale italiana) è stata sottoscritta dai giudici della Corte costituzionale tedesca, la quale nella sentenza del 30 giugno 2009 ha affermato la compatibilità della ratifica del Trattato di Lisbona con la Legge fondamentale della Germania, «a condizione che venisse approvata una norma volta a garantire al Parlamento tedesco adeguati diritti di partecipazione nel processo legislativo europeo». Il Trattato di Lisbona, attualmente in vigore, è l’architettura più recente che fonda le istituzioni dell’Ue: per l’Italia fu firmato da Romano Prodi. La prima differenza salta agli occhi, ed è utile materia di ragionamento per chi parli di primazia del diritto (e della giurisprudenza) europeo su quello nazionale: il principale Paese membro dell’Ue ha sottoposto il Trattato - che non è una Costituzione - al vaglio della propria Corte costituzionale di Karlsruhe. Era cioè quest’ultima a essere preminente rispetto al Trattato, e non viceversa.Dovrebbe bastare questo a comprendere come la via italiana all’Ue sia un’anomalia continentale: in nessun altro Paese il «ce lo chiede l’Europa» ha preso una via giuridicamente, politicamente e culturalmente così appecoronata come da noi. Tutto in assenza di fonti del diritto su cui basare il fantasioso assunto per cui, nei fatti, una direttiva o una sentenza rispettivamente dell’Ue o della Corte di Giustizia Ue di colpo potessero valere più della nostra Carta, fino a ipotizzare il dovere, per i nostri giudici, di disapplicare le leggi ipoteticamente in contrasto con esse.Come è stato possibile? Ovviamente sulla questione si potrebbero costruire corsi di laurea (i quali però, essendo speso intitolati a Jean Monnet, devono seguire altre suggestioni): in sintesi, il vincolo esterno è diventato strada più rapida per aumentare il potere di aree politiche e di fasce della magistratura. La raffinata operazione di neutralizzazione del conflitto politico sotto l’aura di una presunta logica (rigorosamente costruita da precise scelte della Corte costituzionale, anche in materia di ingressi migratori) ha compiuto così la più politica delle scelte in assenza del - o contro il - corpo elettorale e la sua diretta rappresentanza: solo nel nostro Paese questo slittamento del potere costituente si è verificato con il plauso quasi corale della grande maggioranza dei media e spesso senza una reale opposizione, se non tardiva, della categoria più penalizzata: la classe politica.La cosa più interessante, o inquietante, è che non esiste una cornice giuridica reale che abbia mai trasferito le scelte più intime della «sfera pubblica politica» (per citare Karlsruhe) fuori dalla competenza di governo e Parlamento: si tratta di una sorta di allucinazione collettiva da cui praticamente tutti gli altri Paesi si sono tenuti alla larga. L’idea bizzarra per cui una sentenza della Corte di Giustizia possa, nei fatti, pesare più della Carta, affidando a un tribunale il compito di riscrivere i rapporti diplomatici di una democrazia con altri Paesi, ha trovato terreno fertile solo da noi. È un tema che dovrebbe unire la politica, se essa ha interesse comune a preservarsi.
2025-10-21
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(Arma dei Carabinieri)
Ordinanza di custodia cautelare nei confronti di 19 persone indagate per associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti, detenzione ai fini di spaccio di sostanze stupefacenti, rapina con armi, tentata estorsione, incendio, lesioni personali aggravate dalla deformazione dell’aspetto e altro. Con l’aggravante del metodo mafioso.
Questa mattina, nei comuni di Gallipoli, Nardò, Galatone, Sannicola , Seclì e presso la Casa Circondariale di Lecce, i Carabinieri del Comando Provinciale di Lecce hanno portato a termine una vasta operazione contro un’associazione finalizzata al traffico di stupefacenti che operava nella zona ionica del Salento. L’intervento ha mobilitato 120 militari, supportati dai comandi territoriali, dal 6° Nucleo Elicotteri di Bari Palese, dallo Squadrone Eliportato Cacciatori «Puglia», dal Nucleo Cinofili di Modugno (Ba), nonché dai militari dell’11° Reggimento «Puglia».
Su disposizione del Giudice per le Indagini Preliminari del Tribunale di Lecce, su richiesta della Procura Distrettuale Antimafia, sono state eseguite misure cautelari di cui 7 in carcere e 9 ai domiciliari su un totale di 51 indagati. Gli arrestati sono gravemente indiziati di associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti, detenzione ai fini di spaccio di sostanze stupefacenti, rapina con armi, tentata estorsione, incendio, lesioni personali aggravate dalla deformazione dell’aspetto e altro, con l’aggravante del metodo mafioso.
Tutto è cominciato nel giugno del 2020 con l’arresto in flagranza per spaccio di stupefacenti avvenuto a Galatone di un giovane nato nel 1999. Le successive investigazioni avviate dai militari dell’Arma hanno consentito di individuare l’esistenza di due filoni parallel ed in costante contatto, che si spartivano le due principali aree di spaccio della zona ionica del Salento, suddivise tra Nardò e Gallipoli. Quello che sembrava un’attività apparentemente isolata si è rivelata ben presto la punta dell’iceberg di due strutture criminali ramificate, ben suddivise sui rispettivi territori, capaci di piazzare gradi quantitativi di droga. In particolare, l’organizzazione che operava sull’area di Nardò è risultata caratterizzata da una struttura verticistica in grado di gestire una sistematica attività di spaccio di stupefacenti aggravata dal tipico ricorso alla violenza, in perfetto stile mafioso anche mediante l’utilizzo di armi, finalizzata tanto al recupero dei crediti derivanti dalla cessione di stupefacente, quanto al controllo del territorio ed al conseguente riconoscimento del proprio potere sull’intera piazza neretina.
Sono stati alcuni episodi a destare l’attenzione degli inquirenti. Un caso eclatante è stato quando,dopo un prelievo di denaro presso un bancomat, una vittima era stata avvicinata da alcuni individui armati che, con violenza e minaccia, la costringevano a cedere il controllo della propria auto.
Durante il tragitto, la vittima veniva colpita con schiaffi e minacciata con una pistola puntata alla gamba destra e al volto, fino a essere portata in un luogo isolato, dove i malviventi la derubavano di una somma in contanti di 350 euro e delle chiavi dell’auto.
Uno degli aggressori esplodeva successivamente due colpi d’arma da fuoco in direzione della macchina, uno dei quali colpiva lo sportello dal lato del conducente.
In un'altra circostanza invece, nei pressi di un bar di Nardò, una vittima era stata aggredita da uno dei sodali in modo violento, colpendola più volte con una violenza inaudita e sproporzionata anche dopo che la stessa era caduta al suolo con calci e pugni al volto, abbandonandolo per terra e causandogli la deformazione e lo sfregio permanente del viso.
Per mesi i Carabinieri hanno seguito le tracce delle due strutture criminose, intrecciando intercettazioni, pedinamenti, osservazioni discrete e perfino ricognizioni aeree. Un lavoro paziente che ha svelato un traffico continuo di cocaina, eroina, marijuana e hashish, smerciati non solo nei centri abitati ma anche nelle località marine più frequentate della zona.
Nell’organizzazione, un ruolo di primo piano è stato rivestito anche dalle donne di famiglia. Alcune avevano ruoli centrali, come referenti sia per il rifornimento dei pusher sia per lo spaccio al dettaglio. Altre gestivano lo spaccio e lo stoccaggio della droga, controllavano gli approvvigionamenti e le consegne, alcune avvenute anche alla presenza del figlio minore di una di loro. Spesso utilizzavano automobili di terzi soggetti estranei alla compagine criminale con il compito di “apripista”, agevolando così lo spostamento dello stupefacente.
Un’altra donna vicina al capo gestiva per conto suo i contatti telefonici, organizzava gli incontri con le altre figure di spicco dell’organizzazione e svolgeva, di fatto, il ruolo di “telefonista”. In tali circostanze, adottava cautele particolari al fine di eludere il controllo delle forze dell’ordine, come l’utilizzo di chat dedicate create su piattaforme multimediali di difficile intercettazione (WhatsApp e Telegram).
Nell’azione delle due strutture è stato determinante l’uso della tecnologia e l’ampio ricorso ai sistemi di messaggistica istantanea da parte dei fruitori finali, che contattavano i loro pusher di riferimento per ordinare le dosi. In alcuni casi gli stessi pusher, per assicurarsi della qualità del prodotto ceduto, ricontattavano i clienti per acquisire una “recensione” sullo stupefacente e quindi fidelizzare il cliente.
La droga, chiamata in codice con diversi appellativi che ricordavano cibi o bevande (come ad es. “birra” o “pane fatto in casa”), veniva prelevata da nascondigli sicuri e preparata in piccole dosi prima di essere smerciata ai pusher per la diffusione sul territorio. Un sistema collaudato che ha permesso alle due frange di accumulare ingenti profitti nel Salento ionico, fino all’intervento di oggi.
Il bilancio complessivo dell’operazione è eloquente: dieci arresti in flagranza, il sequestro di quantitativi di cocaina, eroina, hashish e marijuana, che avrebbero potuto inondare il territorio con quasi 5.000 dosi da piazzare al dettaglio.
Il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Lecce ha ritenuto gravi gli elementi investigativi acquisiti dai Carabinieri della Compagnia di Gallipoli, ha condiviso l’impostazione accusatoria della Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce, emettendo dunque l’ordinanza di custodia cautelare a cui il Comando Provinciale Carabinieri di Lecce ha dato esecuzione nella mattinata di oggi.
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Ansa
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