2023-03-19
«Io, soldato di pace che ha fatto ogni guerra»
Monsignor Angelo Frigerio (Esercito)
Angelo Frigerio, il monsignore, generale di corpo d’armata, fa il cappellano militare del 1° Reggimento trasmissioni Nato. Missioni in Bosnia, Iraq, Libano, Kossovo, Afghanistan, Gibuti, Turchia, Somalia: «Siamo disarmati e ascoltiamo. Che errore abolire il servizio obbligatorio».Il sabato e la domenica, Angelo Frigerio, classe 1956, grado ecclesiastico monsignore, grado militare generale di corpo d’armata, celebra l’eucaristia nelle parrocchie del suo paese natale, Seregno, in Brianza. Dal lunedì al venerdì invece, a Milano, fa il cappellano militare del 1° Reggimento trasmissioni Nato, presso la caserma Santa Barbara, 1.000 soldati italiani in organico, una delle due unità del Corpo di reazione rapida, con quartier generale a Solbiate Olona (Varese), alle direttive del comando supremo, per l’Europa, dell’alleanza atlantica, situato in Belgio. Don Angelo, «tutti mi hanno sempre chiamato così», ha vissuto una dura adolescenza. Nel 1970, a 14 anni, perse, in un incidente sull’Autostrada del sole, il padre, 49, camionista, e il fratello, 17, spirato alla vigilia di Natale dopo 23 giorni di coma. Restò solo con la madre. Faceva la prima Itis, alle serali e, di giorno, l’elettricista. Il trauma familiare l’allontanò dalla messa, ma non dall’oratorio, «perché c’era un prete giovane, aggiustavo gratis le luci del campo di calcio». Diventato perito elettrotecnico, nel 1976, frequentò un corso, «tenuto da Giuseppe Lazzati», all’eremo San Salvatore di Erba. «A Milano si dice chi tuca taca, rimasi coinvolto. Avevo una fidanzata, una bellissima ragazza oggi sposata e mamma di tre figli e le dissi: “È bene che ti trovi uno che pensi solo a te…”». Poi gli studi in seminario. L’11 giugno 1983, Carlo Maria Martini, l’ordinò sacerdote. L’arcivescovo di Milano l’avrebbe voluto «parroco a Sant’Ilario» e non, come don Angelo auspicava, missionario in Africa. Una sera di giugno squillò il telefono. Era l’ordinario militare, don Giovanni Marra. «Dal 1° settembre devi presentarti alla scuola allievi ufficiali di complemento artiglieria a Bracciano, sai dov’è?». «Partii nel ’94 con la mia Fiat Uno per Bracciano, 3.000 persone sotto i 25 anni, ufficiali e soldati semplici, scoprii che c’erano 120 allievi della scuola elementare, analfabeti…». Iniziò così il suo apostolato nell’esercito, raggiungendo i livelli più elevati. È stato anche cappellano del carcere militare di Forte Boccea, a Roma, chiuso nel 2003, «Erich Priebke e Roberto Savi, il capo della banda della Uno bianca, erano miei parrocchiani, Savi faceva la comunione, Priebke no, ma si confessava con un frate olandese». L’impianto della nuova legge, n. 70 del 2021, sui cappellani militari, l’ha congegnato lui. Che atmosfera si respira tra i soldati del 1° reggimento Nato?«Devo essere sincero. I militari italiani hanno una coscienza molto chiara su ciò che sta avvenendo in Ucraina, cioè che difficilmente la Nato può essere coinvolta in un conflitto come questo perché, se così fosse, sarebbe un disastro».La terza guerra mondiale?«Tutti usano quella parola lì, non so se la terza o l’ultima, ma un intervento diretto Nato vorrebbe dire una provocazione che la Russia non riuscirebbe a sostenere se non con le armi nucleari. Dio ce ne scampi».Si arriverà a un negoziato di pace? «Il grande errore di Putin è stato l’invasione. Quello dell’Europa dimostrare che non c’era alcuna intenzione di mettere in difficoltà la Russia. Una radicale distinzione, all’inizio, tra Ue e Nato, avrebbe giovato. Forse Putin poteva segnalare il disagio nel Donbass all’Onu, dove ha un seggio permanente nel Consiglio di sicurezza». Quali responsabilità ha Biden?«Mi chiedo se gli americani hanno davvero voglia che nasca una forza armata europea. E se nasce, diventa un doppione della Nato? Credo l’Europa debba chiarire se è indipendente o no dagli Stati Uniti. Quando diventerà maggiorenne anche sul piano militare? Siamo ancora alla scuola materna. E qual è la funzione dell’Onu? Il suo potere d’intervento equivale a poco». È andato in missioni italiane all’estero?«Le ho fatte tutte. Bosnia, Kossovo, Afghanistan, Iraq, Libano, Gibuti, Turchia, Somalia. Ora le missioni sono più complicate, oltre che costose e dovrebbero essere tutte sotto l’egida dell’Onu. Questa guerra dell’Ucraina invasa dalla Russia ha messo in pericolo l’equilibrio del vecchio sistema e la Nato sta rivedendo la sua organizzazione». Qual è compito di un cappellano militare? «Quello di ogni sacerdote in qualsiasi altro ambito di ministero. Un soldato, per parlare con lui, in Italia e all’estero, non deve seguire la scala gerarchica. Si può confessare anche col generale di corpo d’armata, e a questi nessuno può chiedere: “Cosa ti ha detto il soldato?”. La sera prima della strage di Nassirya (Iraq, 12 novembre 2003, ndr), un militare poi ucciso parlò col cappellano militare di cose personali. Dopo l’attentato ne ha parlato confidenzialmente coi genitori, non con il comandante». I cappellani militari sono operatori di pace?«Riteniamo lo siano due volte. Primo, perché, anche in tempo di guerra, sono disarmati. Secondo, perché non motivano le missioni, ma ascoltano e benedicono le persone».Lei ha mai preso in mano un’arma?«Mai. E così tutti i cappellani». Quanti siete in Italia?«162, di cui un vicario generale militare, che è sacerdote, e un ordinario militare, arcivescovo».Si sta parlando di reintrodurre la leva obbligatoria. «Mi sembra una cosa tardiva. Quando ero segretario generale della Curia e si abolì la leva, suggerivo 6 mesi di servizio obbligatorio, con possibilità di scelta tra forze armate e ambiti civili. Mi chiamavano antimilitaristi delle comunità terapeutiche dicendomi: “Perdiamo 27.000 operatori, pagati pur poco dallo Stato, per noi gratis”. La visita militare era uno screening rapido su tutti i giovani italiani. Ma i distretti militari non ci sono più… E non abbiamo i medici…». L’ha visto il film Full Metal Jacket di Kubrik? «L’ho visto sì. Una grande americanata. Grazie a Dio abbiamo un approccio un po’ diverso in ambito formativo militare. A volte c’è qualche testa calda che scimmiotta questi sottufficiali americani, ma c’è più rispetto».
Nel riquadro il professor Andrea Fiorillo, presidente dell’Ente Europeo di Psichiatria e testimonial scientifico della giornata palermitana (iStock)
Il 10 ottobre Palermo celebra la Giornata Mondiale della Salute Mentale con eventi artistici, scientifici e culturali per denunciare abbandono e stigma e promuovere inclusione e cura, su iniziativa della Fondazione Tommaso Dragotto.
Il 10 ottobre, Palermo non sfila: agisce. In occasione della Giornata Mondiale della Salute Mentale, la città lancerà per il secondo anno consecutivo un messaggio inequivocabile: basta con l’abbandono, basta con i tagli, basta con lo stigma. Agire, tutti insieme, con la forza dei fatti e non l’ipocrisia delle parole. Sul palco dell’evento – reale e simbolico – si alterneranno concerti di musica classica, teatro militante, spettacoli di attori provenienti dal mondo della salute mentale, insieme con tavoli scientifici di livello internazionale e momenti di riflessione pubblica.
Di nuovo «capitale della salute mentale» in un Paese che troppo spesso lascia soli i più fragili, a Palermo si costruirà un racconto, fatto di inclusione reale, solidarietà vera, e cultura della comunità come cura. Organizzato dalla Fondazione Tommaso Dragotto e realizzato da Big Mama Production, non sarà solo un evento, ma una denuncia trasformata in proposta concreta. E forse, anche una lezione per tutta l’Italia che alla voce sceglie il silenzio, tra parole come quelle del professor Andrea Fiorillo, presidente dell’Ente Europeo di Psichiatria e testimonial scientifico della giornata palermitana che ha detto: «I trattamenti farmacologici e psicoterapici che abbiamo oggi a disposizione sono tra i più efficaci tra quelli disponibili in tutta la medicina. È vero che in molti casi si parla di trattamenti sintomatici e non curativi, ma molto spesso l’eliminazione del sintomo è di per sé stesso curativo. È bene - continua Fiorillo - diffondere il messaggio che oggi si può guarire dai disturbi mentali, anche dai più gravi, ma solo con un approccio globale che miri alla persona e non alla malattia».
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