2019-01-20
«Sogno il ritorno del film muto per prendere in giro i trapper»
Mimo, attore e regista, Maurizio Nichetti conobbe il successo internazionale con il suo Ratataplan senza dialoghi: «Il cinema è morto ma non l'ha ammazzato la televisione. Va pensato in termini moderni e con i codici del suo tempo».Entrando nel Centro sperimentale di cinematografia di Milano per incontrare il direttore artistico Maurizio Nichetti, ci si sente un po' intimiditi come il bislacco ingegner Colombo nelle scene iniziali di Ratataplan (1979), film d'esordio che trasformò lo sconosciuto regista meneghino in una superstar del cinema e della televisione. L'atmosfera rigorosa e imponente prodotta dall'efficace architettura razionalista dell'ex Manifattura Tabacchi, sorta alla fine degli anni Venti, incute una certa soggezione. Allo stesso modo dei protocolli austeri (consegna del documento e dotazione di un badge ospite) necessari per vagare all'interno della struttura in attesa di essere ricevuti. E però quel senso di straniamento si dissolve in un baleno come lo sbuffo di una sigaretta quando, a prelevarti da un salottino ricavato nel bel mezzo di un corridoio, arriva Nichetti in persona. Sarà, forse, per quegli occhi all'ingiù in grado di disegnare sul suo volto un sorriso sempiterno. Oltre che per il suo fare cordiale, privo di formalismi. «Prego, accomodiamoci in questa sala, fa meno caldo», osserva infilato in un golf di lana oversize. Sulle pareti della stanza, trafitta al centro da un lungo tavolo da riunione, a sovrastare i divanetti in pelle rossa è appesa la storia del cinema italiano: una gigantografia di Anita Ekberg in La dolce Vita e alcuni scatti di scena di La Viaccia, pellicola del 1961 diretta da Mauro Bolognini, con Claudia Cardinale e Jean-Paul Belmondo all'apice della loro espressione estetica. «Le do una copia del dvd di Domani si balla». È la versione restaurata, appena presentata al pubblico, della commedia surreale uscita nel 1982 per raccontare l'ascesa delle televisioni private prima che un certo Silvio Berlusconi cominciasse a trasmettere dal centro di produzione di Cologno Monzese. «Rivedere il film è stato inquietante. Girai le scene della piccola emittente Onda 33 nell'ex area Icet, una specie di Cinecittà milanese che alla fine di quell'anno fu rilevata da Berlusconi, inquadrando le parabole che oggi sono di Mediaset».Vuol dire che, senza saperlo, realizzò un film di fantascienza sulla televisione nel luogo esatto dove sarebbe sorto l'impero Berlusconi?«Esatto. E non è tutto. Indovini dove ambientai le scene di in una casa di riposo per ex attori? Villa Borromeo, ad Arcore. Franco Miseria, autore delle coreografie, venne a fare il film portandosi dietro un giovane aiutante che inserii come comparsa. Sa chi era? Lucio Presta, oggi il re del divismo televisivo».Lei è un profeta. O una Cassandra, secondo i punti di vista.«Il mio intento non era quello di dire “Attenti, la tv è pericolosa!". Fotografavo un momento, avendo annusato che qualcosa nel mondo dello spettacolo stava cambiando».Questo fiuto da dove veniva?«Da un'esperienza in Rai. Nel 1979, mentre facevo Ratataplan, Renzo Arbore mi chiamò nel suo programma L'altra domenica invitandomi a realizzare un servizio comico sul sottobosco televisivo milanese. Così mi informai riguardo alle emittenti private locali e contattai i vari editori, da Rusconi a Rizzoli. Compreso un signor nessuno chiamato Berlusconi, che fra tutti fu l'unico a concedermi un'intervista. Sui gradini dell'hotel Jolly a Milano 2, allora sede di Canale 5, mi illustrò per filo e per segno ciò che aveva in mente. Confezionai il materiale e lo spedii alla Rai. Quando lo videro, mi dissero: “Non si può mandare in onda, non fa ridere". Io risposi: “C'è poco da ridere, questo sta per farvi un culo così"».Altro che fantascienza…«Era tutto vero. Domani si balla fu un anno zero della tv. Anche se non andò benissimo. Berlusconi, vecchia volpe, che mi corteggiava dai tempi di Ratataplan, al primo insuccesso tornò a bussare. E io andai a fare Quo vadiz?».È vero che faceva la televisione turandosi il naso?«Una fesseria. Dopo Domani si balla, il mio primo film parlato contro l'abuso della parola, andai a lavorare nel regno della parola perché avevo capito che la tv offriva una visibilità e una popolarità straordinarie. Con qualche controindicazione».Ovvero?«Il problema della televisione è che se non accetti di farla tutti i giorni non ti chiamano più. E io non volevo vivere in tv. Ero abituato al cinema, dove si lavorava due mesi per un'ora e mezza di film. A Quo vadiz? registravamo tre ore di trasmissione in cinque giorni. Dopo 12 puntate ero esaurito. Me ne andai alla Rai a fare Pista!, il primo programma tv in diretta a trasmettere i cartoni animati di Walt Disney. Tornai da Berlusconi nel 1989 per Ladri di Saponette, un film contro le interruzioni pubblicitarie».Chiedere i soldi al dominus della réclame per fare un film contro la pubblicità è un colpo da maestro.«Berlusconi se ne sbatteva le balle, contavano solo gli affari. Mi rivolsi a lui perché se fossi andato dalla Rai sarebbe diventato un film contro Berlusconi».Nessun timore di essere bollato come regista di destra?«Ho sempre avuto l'onore di essere considerato di destra da quelli di sinistra e di sinistra da quelli di destra. In Francia, mi fischiarono perché il film era prodotto dal nemico arrivato a casa loro a comprargli la televisione con La Cinq. Mai stato ossequioso coi potenti, mai fatto i film per gli intellettuali. E infatti non ho più lavorato».A proposito: ha seguito l'affaire Freccero a Rai 2?«Posso dire poco della Rai di oggi, non la frequento granché. Quando cambiano le dirigenze c'è sempre qualcuno che viene epurato. Niente di nuovo. Le racconto un aneddoto».Prego.«Negli anni, ho proposto diversi progetti alla Rai, che rispondeva di rado. Ricordo che una volta mi recai personalmente a viale Mazzini, sapendo della presenza di un importante capo struttura che mi doveva una risposta da un anno e mezzo. Non si faceva mai trovare. Quel giorno entro in ascensore con un tipo, poi ne sale un altro e il primo scende. Il secondo mi fa: “Sai chi era quello lì?". Era il tizio che rincorrevo da un anno e mezzo. Mi scappò da ridere. Non sapendo che faccia avesse, io non lo avevo riconosciuto; lui finse di non conoscermi. E magari avrà pure pensato: “Guarda 'sto stronzo… Un anno e mezzo che mi scrive e neanche mi saluta". Perché poi questi sono dei divi nel loro ambiente, abituati a ricevere inchini e salamelecchi».Si è definito logorroico, che per un mimo non è male.«Il mimo non è uno che non parla perché non può parlare: sceglie di non parlare. Se non avessi parlato così tanto, nessuno mi avrebbe finanziato Ratataplan».Già… Come riuscì a farsi produrre da Franco Cristaldi un film d'esordio privo di dialoghi?«Ci vorrebbe una giornata intera. Per farla breve, mi convocò perché il suo socio, Nicola Carraro, mi aveva visto ballare a Ischia». Ansa Ballava a Ischia?«Ero lì per la presentazione di Allegro non troppo, un cartone fatto con Bruno Bozzetto, che aveva le spese pagate in quanto regista. Io no. La sera in cui Carraro mi vide ero disperato: avevo buttato via due mesi di stipendio per pagarmi due notti all'albergo La Reginella, quello costruito da Angelo Rizzoli. Il film non se l'era filato nessuno, non avevo raccattato mezzo contatto. Per scaricare la frustrazione, mi misi a ballare senza sosta nella discoteca dell'hotel. Carraro mi notò, disse che coi baffi e i capelli lunghi gli ricordavo Nanni Moretti. Non c'entravo nulla, ma stavano cercando facce nuove e finii nell'ufficio di Cristaldi. Convincerlo fu la cosa più facile: gli bastò aumentare di una settimana il budget di Gillo Pontecorvo, che stava lavorando a Ogro, e con 100 milioni di lire finanziò una pellicola che aveva già mezz'ora di girato».Fu un ballo propiziatorio il suo: Ratataplan incassò oltre 6 miliardi di lire diventando un successo internazionale.«E Carraro e Cristaldi finirono sulla copertina di Capital come la coppia di imprenditori che aveva fatto l'investimento dell'anno».Lei si arricchì?«No, avevo una percentuale minima. Ma quel film mi diede carta bianca sulle sceneggiature successive».Se lo sarebbe aspettato?«Per niente. Non potevo immaginare di arrivare in un momento storico così favorevole, dopo dieci anni di strategia della tensione. Anni tremendi, di angoscia. Quando, lentamente, questa cappa di negatività cominciò ad allentarsi e si comprese che si poteva criticare senza mettere le bombe, Ratataplan raccolse una generazione che aveva bisogno di leggerezza».Dalla sua ultima regia per il cinema sono passati 18 anni. Le manca?«Mi manca poter fare qualcosa che mi piace. Negli ultimi anni ho fatto qualche film per la tv, ma non è che mi sia divertito granché. Facevo quello che mi dicevano: condividevo le sceneggiature con gli editor, tutto era molto “palettato". Non hanno bisogno di un regista con delle idee, gli basta un nome che firmi una regia».Smettere di fare film per il grande schermo fu più una scelta sua o degli altri?«Cominciò tutto con la grande delusione di Honolulu baby. Ci lavorai per tre anni e alla fine non uscì. Non mi era mai capitata una cosa del genere. Accettai la proposta di fare il direttore del Trento Film festival della Montagna. Mi aiutò a dimenticare Chi ha incastrato Roger Rabbit?, i cui titoli di testa erano costati quanto il mio Volere volare, e a riposizionarmi su un cinema della realtà. Che poi non so fare e non mi piace. Non sono disposto a vivere due anni in un furgone sul Grande raccordo anulare per realizzare un documentario. Non è la mia vita. A me piace vedere la gente che sorride, che ama una fantasia».Appartiene a quella categoria di registi che vedono il cinema sul lettino, pronto per l'estrema unzione?«Il cinema ha vissuto il suo periodo d'oro nel Novecento ed è imploso col nuovo millennio. Rimpiangere gli Antonioni, i Risi, non ha senso: quelli erano intellettuali della loro epoca che si esprimevano con un media di moda. Oggi il cinema ha perso la sua centralità nella vita della gente. Bisogna pensare in termini moderni, altrimenti si diventa dei frustrati. È questo che cerco di insegnare ai ragazzi».Come?«Con lo storytelling transmultimediale, e cioè il racconto di una storia o di un contenuto attraverso media diversi: dallo smartphone al tablet, fino alla televisione».Impossibile generare nuovi autori?«Vede, per me è un problema di intelligenze. Esistono periodi storici in cui le intelligenze si applicano al nuovo. Jean Renoir era figlio del grande Renoir, eppure si applicò al cinema perché la pittura impressionista era uno strumento datato per rappresentare la realtà. Si andava verso l'astrattismo. Capisce cosa voglio dire?».Sì. Ma non vede alcuna crisi culturale, nessuno stordimento televisivo di massa?«Che ci sia stato un abbassamento del gusto e della cultura è indubbio. Ma la colpa di chi è? Non lo so. Forse, anche dei telefonini che io e lei abbiamo in tasca. Dire che la colpa è della televisione mi pare riduttivo».Fellini sosteneva che il telecomando avesse creato un esercito di spettatori impazienti, una specie di plotone di esecuzione.«È evidente che il telecomando fosse nevroticamente un potere nelle mani dello spettatore. Cosa che si è evoluta in un potere dell'interattività, dell'uno vale uno. La gente prima si è abituata a fare zapping tra i canali, poi a votare una canzone a Sanremo, poi a eliminare un concorrente del Grande Fratello. Fino a pensare che con un click si potesse decidere se fare o meno la Tav».Lei ha fatto un film contro la pubblicità pur avendo diretto svariati spot. Qualcuno potrebbe accusarla di cerchiobottismo.«No, perché non ho mai fatto film che ridicolizzassero qualcosa. Gli spot inseriti in Ladri di Saponette erano veri, non caricature. Registi come Fellini o Moretti attaccavano la televisione ridicolizzandola, ma il cinema non sarà mica morto per colpa di Berlusconi. Gli diamo troppa importanza».Perché si tagliò i baffi per Ladri di Saponette?«Fu una scelta obbligata dall'incapacità di trovare un protagonista per il bianco e nero. Avevo cercato Paolo Hendel e Sergio Castellitto, entrambi impegnati. A due settimane dall'inizio delle riprese, ero senza un attore per una parte che non volevo dare a un volto noto. Passavo le giornate a tormentare mia moglie, che una sera sbottò: “Tagliati i baffi e fallo tu!". Si accese una lampadina. Nessuno mi aveva mai visto senza baffi».Nei fotogrammi iniziali, il critico Claudio G. Fava, che nel film interpreta sé stesso, convinto di dover dibattere il cinema colto di John Frankenheimer è invece spiazzato e spazientito nell'apprendere di dover introdurre il suo film. Un verso alla critica?«No, volevo qualcosa che fosse vero. Fava scrisse personalmente la sua parte di copione. Nonostante la moglie, convinta che volessi prenderlo in giro, lo avesse invitato a non partecipare».Che rapporto ha avuto con la critica?«Purtroppo per i critici, non sono mai stato il giovane outsider che loro dovevano scoprire e presentare. Mi scoprì prima il pubblico, quindi tolsi loro il lavoro. E questo non me l'hanno mai perdonato. Nessuno ha potuto spiegare chi era Nichetti».In Domani si balla, tocca un tema attualissimo come quello della sicurezza. Il padre di Mariangela Melato, ossessionato dai ladri, fa la guardia alla porta di casa, mentre lei dopo avere parcheggiato l'automobile si porta appresso uno pneumatico come antifurto. Un'altra previsione azzeccata?«Probabilmente, si trattava di una mentalità che avevo percepito negli anziani. Oggi è più evidente perché siamo un Paese di anziani. Credo che la paura venga da vecchi (ora che ho 70 anni posso dirlo) perché più vivi e più ne senti di tutti i colori».Della Melato cosa ricorda?«Era una persona appassionata, generosa. La cercai perché avevo in mente una coppia comica sul modello dei clown, il bianco e l'augusto: il primo autoritario, preciso, il secondo incapace, pasticcione. Mariangela, venendo da una scuola di cinema di polso come quella di Lina Wertmüller, non poteva che essere un clown bianco. Ci trovammo a discutere del film in un ristorante a New York: due milanesi che non si erano mai incrociati nella loro città. Buffo, no?».Milano è una costante nei suoi film. In Ratataplan, l'ingegner Colombo la attraversava di corsa fendendo la nebbia con un vassoio in mano.«Da allora Milano è cambiata tanto. Come il resto del mondo. Io credo in meglio, al di là delle sue problematiche».Quanto è cinematografica?«Tanto. Ha tutto: le case di ringhiera e i grattacieli, passato e futuro».Ha detto che è una città dove tutti si sentono a casa, anche se sono nati altrove. Perché?«Perché il milanese ha sempre accolto. Torino, per esempio, nasce intorno alla Fiat, con la classe operaia che veniva dal Meridione e la nobiltà eredità della Sabaudia. Queste due realtà non si sono mai mischiate. Se vai a Torino a fare l'operaio, muori operaio; a Milano, Angelo Rizzoli era un Martinitt. Il fenomeno del terruncello di Diego Abatantuono mostrava che se uno veniva qui a lavorare e si comportava bene, diventava più milanese dei milanesi».I suoi genitori che lavoro facevano?«Mamma era sarta, papà faceva il segretario didattico a scuola. Non ho mai detto di voler fare il cinema, non avrebbero capito. Mio padre voleva che diventassi un odontotecnico. Per accontentarlo, una volta andai a disegnare protesi dentali in uno studio».Allo Iulm, dal 2013, tiene un laboratorio di regia. Come sono le nuove leve del cinema italiano?«Distratte da tutte le potenzialità a disposizione. Se dico ai ragazzi “Ho conosciuto il mimo Jacques Tati e vi assicuro che…", a quel punto hanno già smesso di ascoltarmi per aprire il computer e cercare Tati su Wikipedia. Inizialmente, questa cosa mi mandava in bestia. Ora non faccio più nomi, cerco di fornire concetti che non diano punti di riferimento per aggrapparsi ai motori di ricerca. È divertente».Racconti di quell'incontro con Tati.«Lo conobbi a Parigi nel 1979. Andammo insieme a una proiezione di Ratataplan alla Sorbona. Mi stroncò: “C'est pas possible de faire un film muet aujourd'hui". Per lui il cinema muto era morto. Ed era vero per lui, come è vero per me oggi. Ma se un ragazzo di 20 anni riuscisse a farlo coi codici del suo tempo, magari ironizzando sul mondo dei trapper, potrebbe tornare a essere fresco».Cosa le disse Tati dopo la proiezione?«Scappò via per non incontrare la Rai. Era in causa per un paio di sketch che la Rai aveva trasmesso per 20 anni senza mai corrispondergli una lira. Fece lasciare nel mio albergo un biglietto col quale mi invitava a casa sua a bere un tè il giorno successivo. Quando gli chiesi se gli fosse piaciuto il film, rispose: “Tu as de bonnes jambes". Hai delle belle gambe. Io non capii. Mi spiegò che quando guardava un comico non ascoltava ciò che diceva: gli guardava le gambe. Se stavano ferme, era un comico televisivo; se si muovevano molto, era un comico cinematografico. In modo semplice, mi aveva fatto un complimento offrendomi una chiave di lettura. È stata la critica più bella che abbia mai ricevuto».
Attività all'aria aperta in Val di Fassa (Gaia Panozzo)
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Lo spettacolo Gabriele d’Annunzio, una vita inimitabile, con Edoardo Sylos Labini e le musiche di Sergio Colicchio, ha debuttato su RaiPlay il 10 settembre e approda su RaiTre il 12, ripercorrendo le tappe della vita del Vate, tra arte, politica e passioni.
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