2025-07-15
Una carota tirolese con la racchetta ci ricorda che è bello sentirsi italiani
Jannik Sinner celebra l'Italia dopo la vittoria del 13 luglio in un'immagine postata dall'ente organizzatore di Wimbledon
Il miracolo di Jannik, ragazzo timido e per giunta di provincia, è catalizzare attorno a sé un sano patriottismo. Col nostro popolo funziona così: abbiamo bisogno di qualcuno che arrivi da lontano per apprezzare casa.A vederli quei due, l’altra sera e tutte le volte che si sono affrontati, l’italiano sembrava lui, lo sconfitto di domenica scorsa, Carlos Alcaraz. Un italiano un po’ meridionale, comunque mediterraneo, bruno, di carnagione più scura, non alto, proprio come l’italiano viene figurato nel mondo. E invece l’italiano per l’anagrafe e non solo, diciamo per grazia di Dio e volontà della nazione, era Jannik Sinner, figlio di Siglinde e Hanspeter Sinner, una famiglia dai nomi tipicamente italiani; lui, il ragazzo di carnagione bianca, i capelli rossi, alto e longilineo come un nord-europeo, uno che in casa parla tedesco, e che a parte la cittadinanza fiscale a Montecarlo, è sudtirolese, saldamente inserito nel suo habitat sud tirolese; e quel nome evoca, in chi ha una certa età, ostilità diffuse, a volte disprezzo, voglia di secessione, perfino attentati, e comunque un antico fastidio per la cittadinanza italiana e soprattutto per l’appartenenza all’Italia e una persistente nostalgia austriaca, germanica, se non asburgica. Eppure è scattato un tifo italiano per Sinner come non era mai successo nel tennis. A livello di masse. Irrazionale diranno alcuni, d’altra parte il tifo è un’affezione che sconfina nell’infezione; idola tribus unito a idola fori, lo chiameranno i colti che hanno letto Bacone. Ma cosa spinge un popolo a tifare davvero con tutto il cuore per un ragazzo invece che l’altro, anche se le apparenze dicono il contrario delle appartenenze, e i legami nazionali, secondo il racconto dominante, non contano più niente? Da dove sbuca questo nazionalismo sportivo, si giocoso ma vivace e verace, da dove spunta questo amor patrio di ritorno? Sbuca dal fatto che dentro di noi abita un noi che nessun individualismo e globalismo riesce ad estirpare, un istinto di familiarità, di preferenza, di predilezione, che è un legame naturale e psicologico, sociale e simbolico, culturale e linguistico. Può declinare il nazionalismo che appartiene ormai a cent’anni fa, può tramontare lo sciovinismo, ma non si può estirpare quel senso di appartenenza a un popolo, a una terra, a una lingua, a un immaginario condiviso. E lo applichiamo anche laddove non ci sono segni evidenti di italianità: pensate anche alle squadre di calcio, e in certi periodi e in certi paesi perfino alle nazionali di calcio, dove ci sono stranieri. Eppure quelli, benché ingaggiati a suon di soldi, benché provenienti da altri paesi, sono i «nostri». Alla fine, il marchio nostrano, sia esso italiano o d’altra patria, piccola o grande che sia, conta e racconta ancora e supera ogni reale provenienza e motivazione. Per arrivare agli eccessi, potremmo dire che se facessero una gara internazionale di criceti, quello che porta il tricolore sulle spalle sarà sostenuto come il «nostro». Poi certo, se si passa al regno umano è tutta un’altra storia.L’istinto al legame di prossimità è da un verso un fatto istintivo, prerazionale, emotivo; dall’altro è una sorta di archetipo platonico, di forma ideale a cui sentiamo di aderire per un innato sentimento di comunità, cioè di identità e appartenenza.Ma per tornare dai cieli platonici a terra, cioè dall’iperuranio al terreno di gioco, non è stato bello, lo diciamo da italiani, vedere Sinner a Wimbledon abbandonato a se stesso dall’Italia ufficiale e quirinalizia, mentre c’erano i reali della Casa britannica e i Reali di Spagna a tifare per il loro atleta; non c’era nessun sovrano italiano, nessun Presidente nostrano a sostenerlo, neanche uno straccio di ministro dello sport, a sottolineare che l’Italia era davvero tutta con lui, e poi a esultare con lui per la vittoria. Eppure il tennis è diventato ormai uno sport popolare, di massa, diventa l’evento che fa copertina nei media, tutti parlano di tennis come se lo conoscessero da bambini e invece la gran parte della gente fino a poco tempo fa, quando faceva zapping e incrociava una partita di tennis lo vedeva alla stessa stregua dell’intervallo con le pecorelle, cambiava canale o diceva: che palle, c’è il tennis. Ora è sorto impetuoso l’amore massiccio per il tennis, e insieme il tifo patriottico per Jannik. Dal canto suo, Sinner ha mostrato di meritarsi questa simpatia popolare; ha mostrato più volte il piacere e perfino l’orgoglio di dirsi italiano, senza nulla togliere alla sua identità altoatesina o sudtirolese; è uno che a differenza del sindaco di Merano, lui mentalmente la fascia tricolore l’ha indossata e l’indossa con fierezza e senza alcuna riluttanza. E poi ci piace come personaggio, la sua umiltà, la sua determinazione, il suo affetto per i suoi genitori, la sua serietà, il suo spirito sportivo e cavalleresco, la sua fraternità con i rivali di gioco, le sue battute fuori dal campo di gioco, in cui tradisce le sue amabili incertezze di ragazzo, per giunta di provincia. O i suoi dubbi se chiamare Sua Altezza la Principessa Kate, lui che era più alto di lei, la ragazza che aveva di fronte.Poi, certo, ci sono pacchi di soldi, fiumi di spot. In fondo l’unico precedente storico grandioso a Jannik Re d’Italia di un tedesco salutato come grande italiano è stato l’Imperatore Federico II di Svevia, rossiccio pure lui, come suo nonno Barbarossa, e tedesco doc anche se nato a Jesi, di stirpe Hohenstaufen, che pure veniva definito Puer Apuliae, intendendo per Puglia il sud d’Italia, dove fu magnifico sovrano, tra Napoli, Palermo e la Puglia, dove venne a morire. Per carità, non paragoniamo la grande storia con la cronaca sportiva, manteniamo vivo il senso delle proporzioni. Ma se ci pensate bene, a farci amare l’Italia, a farci sentire orgogliosi di essere italiani, nei secoli scorsi sono stati soprattutto coloro che venivano a visitarla, a scoprirla, a conquistarla, a disputarsela e infine a vivere da noi. Ci vollero tedeschi per scoprire il pregio di molte antichità che noi avevamo abbandonato all’incuria per secoli; ci vollero francesi e spagnoli, persino arabi e turchi, per farci capire quanto fosse preziosa l’Italia. C’è voluta ora una carota tirolese dal gambo lungo, travestita da tennista, per farci capire che a volte è bello sentirsi italiani.
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