2020-11-21
Siete proprio sicuri che la legge 194 passerebbe il vaglio della Consulta?
L'aborto è legale dopo 90 giorni solo se sussiste un grave pericolo per la donna. Prima, il feto non ha tutela. Se si sollevasse il caso, potrebbe essere riconosciuta l'«irragionevolezza» della norma.E se per caso anche la legge italiana sull'interruzione volontaria della gravidanza (la famosa 194 del 1978) presentasse qualche profilo di incostituzionalità, così come lo ha presentato l'analoga legge vigente in Polonia, recentemente caduta, come è noto, sia pure in parte, sotto la scure della Corte costituzionale di quel Paese? L'interrogativo potrebbe, a prima vista, sembrare molto azzardato, considerando che la legge 194 è in vigore da oltre 40 anni ed è sempre passata indenne in tutte le numerose occasioni in cui è stata sottoposta al vaglio dei giudici della Consulta. Vi è però da dire che in nessuna di tali occasioni risulta che siano state poste in discussione, direttamente ed espressamente, le norme che costituiscono il cuore dell'intera legge, vale a dire gli articoli 4 e 5, sulla base dei quali è riconosciuto alla donna il diritto di interrompere la gravidanza, entro i primi novanta giorni, alla sola condizione (semplificando al massimo) che essa «accusi» l'esistenza di un «serio pericolo per la sua salute fisica o psichica» e si sottoponga poi a una trafila essenzialmente burocratica, all'esito della quale le viene rilasciato un documento che le dà titolo a ottenere l'intervento abortivo; il che si verifica anche nel caso in cui risulti che la salute della donna non correrebbe, in realtà, dalla prosecuzione della gravidanza, alcun «serio pericolo». Ciò a differenza di quanto è previsto dai successivi articoli 6 e 7 della stessa legge, sulla base del quale l'interruzione della gravidanza dopo i 90 giorni è consentita invece solo a condizione che sia stato oggettivamente accertata da un medico ospedaliero, l'esistenza di un pericolo (stavolta definito «grave», ma la sostanza non cambia), per la salute fisica o psichica della donna. Ora, una tale differenziazione appare quanto di più irrazionale si possa immaginare. Infatti, delle due l'una: o si ritiene che la vita del feto meriti una qualche forma di tutela legale, e allora non si spiega perché questa debba mancare fino a che non siano trascorsi novanta giorni dal concepimento, lasciando che, entro questo termine, la donna sia sostanzialmente libera di decidere, a suo totale arbitrio, della vita o della morte della creatura che porta in grembo; oppure si ritiene che la vita del feto non meriti alcuna tutela legale, e allora non si comprende perché questa gli debba invece essere fornita solo perché siano passati novanta giorni dal concepimento, consentendo alla donna, dopo questo termine, l'interruzione della gravidanza solo a condizione che il pericolo per la sua salute sia oggettivamente accertato. Se così è, potrebbe esservi quindi spazio per una declaratoria di incostituzionalità della normativa in questione per la sua manifesta «irragionevolezza». Ormai da molti anni la Corte costituzionale ha ritenuto di aver titolo a censurare le scelte operate dal legislatore quando esse appaiano contrarie al principio, appunto, della «ragionevolezza», quale riflesso, secondo la stessa Corte, del principio di uguaglianza enunciato nell'art. 3 della Costituzione. Si potrebbe però osservare che l'eliminazione della irragionevolezza potrebbe anche essere ottenuta a spese non degli articoli 4 e 5 della legge 194 ma piuttosto degli articoli 6 e 7, eliminando quindi la necessità dell'obiettivo accertamento delle condizioni di «grave pericolo» per la salute della donna anche nel caso in cui si voglia dar luogo all'interruzione della gravidanza dopo il termine dei novanta giorni dal concepimento. Ad escludere una tale possibilità dovrebbe però valere quanto affermato dalla stessa Corte costituzionale, prima ancora dell'entrata in vigore della legge 194, proprio nella sentenza n. 27/1975 con la quale rese non punibile l'aborto volontario in tutti i casi in cui la prosecuzione della gestazione implicasse un «danno o pericolo grave, medicalmente accertato, nei sensi di cui in motivazione e non altrimenti evitabile, per la salute della madre». E si specificava, nella parte finale della motivazione, che, secondo la stessa Corte, era «obbligo del legislatore predisporre le cautele necessarie per impedire che l'aborto venga procurato senza seri accertamenti sulla realtà e gravità del danno o pericolo che potrebbe derivare alla madre dal proseguire della gestazione; e perciò la liceità dell'aborto deve essere ancorata a una previa valutazione della sussistenza delle condizioni atte a giustificarla». Appare quindi evidente come solo la disciplina dettata dagli articoli 4 e 5 della legge 194 per l'interruzione della gravidanza entro i primi novanta giorni (e non quella dettata dai successivi articoli 6 e 7 per il caso dell'interruzione dopo il novantesimo giorno) si ponga in netto contrasto con le suddette affermazioni della Corte, escludendo senza giustificazione alcuna la necessità di quell'accertamento sull'oggettiva esistenza del danno o del pericolo per la salute della donna che la stessa Corte, come si è appena visto, aveva invece ritenuto imprescindibile. Solo i suddetti articoli 4 e 5, pertanto, nella parte in cui consentono l'interruzione della gravidanza anche quando quell'accertamento sia mancato, dovrebbero cadere sotto la ipotetica mannaia della Corte costituzionale. Ma perché la Corte possa pronunciarsi sulla legittimità o meno di una norma di legge occorre che la relativa questione venga sollevata, d'ufficio o a istanza di parte, nell'ambito di un giudizio penale, civile o amministrativo per la cui definizione sarebbe decisiva l'applicazione o meno di quella stessa norma; condizione, questa, che, con riguardo agli articoli in questione della legge 194, potrebbe realizzarsi, verosimilmente, solo se, a fronte della richiesta di interruzione della gravidanza entro i primi novanta giorni, pur nell'accertata assenza di alcun «serio pericolo» per la salute della donna, il consultorio familiare o il medico di fiducia della donna rifiutassero il rilascio del documento che comunque consentirebbe l'effettuazione dell'intervento, ovvero se, nonostante l'avvenuto rilascio di quel documento, la struttura sanitaria cui la donna si fosse rivolta ne disconoscesse la validità e rifiutasse, quindi, di procedere all'intervento. Per tale via potrebbe, infatti, darsi luogo a un contenzioso giudiziario nell'ambito del quale la questione di costituzionalità potrebbe essere sollevata ed eventualmente accolta, con la conseguenza, in tal caso, che in tutte le ipotesi sopra indicate, la riconosciuta illegittimità costituzionale della norma farebbe venir meno l'apparente illegittimità del rifiuto opposto ad adempimenti da essa previsti. Il problema è però che per l'opposizione di un tale rifiuto occorrerebbe una notevole dose di coraggio e nessuno, per quanto è dato sapere, sembra che finora l'abbia trovata, né appare probabile che qualcuno la trovi in avvenire. Volendo comunque essere ottimisti si potrebbe quindi sperare, più che in una pronuncia della Corte costituzione, in un intervento del legislatore che modifichi la norma vigente nel senso di escludere la praticabilità dell'aborto, anche entro i novanta giorni, quando dagli accertamenti medici sia emerso che la prosecuzione della gravidanza non comporta alcun «serio pericolo» per la salute della donna; il che, d'altra parte, è quanto dovrebbe suggerire anche il comune buon senso.
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