2022-07-28
Siamo il «Borghese» di Mario Monicelli: i potenti ci dominano usando la speranza
Alberto Sordi in Un borghese piccolo piccolo di Mario Monicelli (1977)
È come per l’uomo qualunque che Alberto Sordi interpreta nel 1977: il miraggio di una futura liberazione ci ha trasformato in schiavi.Giovanni Vivaldi lavora in un ministero ed è vicino alla pensione. Lui e la moglie ripongono tutte le loro speranze nel figlio Mario, diplomato ragioniere; per ottenergli favori in un concorso, Giovanni, fervente cattolico, accetta perfino di iscriversi a una loggia massonica. Ottiene così in anticipo la traccia della prova scritta ma, la mattina dell’esame, a una rapina in banca segue una sparatoria e Mario viene ucciso. Mentre la moglie, colta da malore, rimane afona e invalida, Giovanni si dedica alla ricerca dell’assassino. Lo trova, lo pedina, lo stordisce con un cric e lo imprigiona in un capanno che usava per andare a pesca. Ne segue l’agonia e, quando muore, rimpiange che se ne sia andato troppo presto. È la trama del film Un borghese piccolo piccolo, diretto da Mario Monicelli nel 1977 e interpretato, nel ruolo del protagonista, da Alberto Sordi. Monicelli aveva inventato la commedia all’italiana, il genere dolce-amaro, rido-per-non-piangere, che soppiantò il neorealismo, con I soliti ignoti del 1958. (È significativo che questo film fosse candidato all’Oscar per migliore film straniero in rappresentanza dell’Italia nello stesso anno in cui fu candidato per lo stesso premio, in rappresentanza però della Jugoslavia, anche Una strada lunga un anno, del regista Giuseppe De Santis di Riso amaro, il più fedele esponente del neorealismo: un vero e proprio passaggio di consegne che prendeva la forma di un esilio). La commedia all’italiana Monicelli l’aveva calzata come un guanto, sottolineandone la drammaticità in La grande guerra, usandola per denunciare l’ambiguità delle lotte sindacali in I compagni, proiettandola in un passato fantastorico in L’armata Brancaleone, volgendola al femminile (e scoprendo la verve comica di Monica Vitti) in La ragazza con la pistola, giocando con la stupidità di politici e golpisti in Vogliamo i colonnelli, prendendo in giro pure l’aldilà in Amici miei. Ora ne ha abbastanza. Dichiara che non c’è più niente da ridere; afferma l’«irrappresentabilità degli italiani, per perdita irreversibile di tutti i caratteri positivi» e sancisce la morte dello stesso genere che aveva creato. Testimoniata anche da Sordi, che della commedia all’italiana era stato una delle espressioni più tipiche ed efficaci e che, in Un borghese piccolo piccolo, per la prima volta incarna una pura maschera tragica: il suo personaggio non fa mai ridere; fa schifo. In anni successivi, Monicelli avrebbe rincarato la dose. In un’intervista del 25 marzo 2010 avrebbe detto: «Quello che in Italia non c’è mai stato, è una bella botta, una bella rivoluzione […] c’è stata in Inghilterra, c’è stata in Francia, c’è stata in Russia, c’è stata in Germania. Dappertutto, meno che in Italia. Quindi ci vuole qualcosa che riscatti veramente questo popolo che è sempre stato sottoposto, sono trecento anni che è schiavo di tutti». In parte, è schiavo perché si fa imbrogliare da parole vane: «La speranza è una trappola, è una brutta parola, non si deve dire. La speranza è una trappola inventata dai padroni, da quelli che ti dicono: state buoni, state zitti, pregate che avrete il vostro riscatto, la vostra ricompensa nell’aldilà, perciò adesso state buoni, tornate a casa». Otto mesi dopo, il 29 novembre, Monicelli, malato terminale di cancro alla prostata, si suicidò gettandosi da una finestra del quinto piano, nell’ospedale dove era ricoverato. Il 25 maggio 1946 si era suicidato con un colpo di rivoltella, nel bagno di casa, il padre Tomaso Monicelli ed era stato Mario a trovarne il cadavere. Tomaso era stato direttore e proprietario del Resto del Carlino, ma ne era stato espropriato dal regime fascista dopo le sue critiche seguite al delitto Matteotti; era stato costretto a mendicare un lavoro per sopravvivere con la famiglia e dopo la guerra da questo lavoro (presso la Rizzoli) era stato licenziato. Nel 2007, Mario disse in un’altra intervista: «Ho capito il suo gesto. Era stato tagliato fuori ingiustamente dal suo lavoro, anche a guerra finita, e sentiva di non avere più niente da fare qua. La vita non è sempre degna di essere vissuta; se smette di essere vera e dignitosa non ne vale la pena».Tiriamo le somme di questo lungo dramma. La speranza è il miraggio con cui i potenti invitano all’inerzia e alla rassegnazione. Chi se ne fa sedurre perde, un passo dopo l’altro, il proprio decoro e il proprio rispetto per sé stesso; diventa uno schiavo. Fa quel che gli dicono: si iscrive a una loggia massonica, si chiude in casa, va in giro con una mutanda in faccia, sempre sognando una liberazione a venire. Se un potente accenna a un possibile ritiro, lo prega di rimanere: i servi hanno bisogno di padroni. Ma non sia mai che quel potente cada nella polvere, perché allora i servi gliela faranno pagare. Anche loro hanno sentimenti: l’invidia, il livore, la stizza. E, con sentimenti così, sono perfettamente in grado, quando si sentono al sicuro, di torturare un debole, di oltraggiare un cadavere.Agli altri, a quelli che il miraggio non seduce, spesso non rimane, in una simile gabbia di matti, che la strada stoica del suicidio. Seneca insegna.
Charlie Kirk (Getty Images). Nel riquadro Tyler Robinson
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