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2020-06-02
Si riaprono i confini delle Regioni. Ma nel Meridione studiano dei filtri
Christian Solinas (Ansa)
Ancora 24 ore l'Italia tornerà unita: domani, 3 giugno, cade l'ultima barriera della mobilità, quella tra le varie Regioni italiane, e finisce così in archivio un'altra delle tristi limitazioni imposte dal lockdown anticoronavirus. Quei muri invisibili quanto invalicabili che hanno diviso le Regioni italiane scompariranno, si spera, per sempre: il via libera è arrivato dal governo, confortato dai dati elaborati dall'Istituto superiore di sanità attraverso l'analisi di 21 parametri che segnalano il livello di rischio delle diverse Regioni. «Al momento», ha fatto sapere l'Iss, «in Italia non vengono riportate situazioni critiche relative all'epidemia di Covid-19»: semaforo verde, quindi, ma attenzione a tenere la guardia sempre alta. «È chiaro che un rischio lo stiamo assumendo», dice il ministro della Salute, Roberto Speranza, a 1/2 ora in più su Rai Tre, «poiché il rischio zero ora non esiste ma ci arriveremo solo quando ci sarà il vaccino. Fino ad allora si tratta di assumersi dei rischi ponderati e di provare a gestire una fase diversa. Che ci sia una differenza sui territori è un dato di fatto innegabile e il Nord ha pagato il prezzo più alto, ma ora il trend di tutte le Regioni va nella direzione giusta. Al momento», aggiunge Speranza, «i dati ci dicono che è vero che ci sono differenze quantitative ma la tendenza di tutte le regioni va nella direzione giusta ed è in discesa. Le settimane che arriveranno sono ancora con un esito non scontato e le misure di distanziamento e precauzione saranno determinanti».
La soddisfazione per la riapertura sovrasta le voci critiche, quelle di alcuni presidenti di Regione che negli ultimi giorni hanno manifestato dubbi e perplessità sul «liberi tutti». Il simbolo degli isolazionisti, il presidente della Sardegna, Christian Solinas, teorico del «certificato di immunità» per chi approda sull'isola, dopo la bocciatura da parte del governo è costretto al dietrofront: «Tratteremo fino all'ultimo», precisa Solinas, «per un accordo, ma se non riusciremo a trovarlo, allora appronteremo un sistema più articolato che prevede la registrazione dei passeggeri all'ingresso su una piattaforma e la compilazione di un questionario epidemiologico che serve a noi per avere contezza su dove concentrare i maggiori controlli. Pensiamo a un incentivo per chi volesse sottoporsi a una verifica con un test», spiega Solinas a Rai Radio1, «potremmo riconoscere un piccolo voucher, un bonus da spendere in Sardegna».
L'idea è quella di chiedere ai turisti in partenza per la Sardegna una autocertificazione relativa ai sintomi del coronavirus. Il presidente della Sicilia, Nello Musumeci, che pure aveva manifestato la volontà di chiedere il «passaporto sanitario» ai turisti, ingrana la retromarcia in maniera felpata: «Occorrerà verificare», argomenta Musumeci, «la provenienza, l'esistenza di eventuali casi sospetti nel nucleo familiare, indicare giorno dopo giorno la tracciabilità della presenza del turista». Tra i perplessi anche il presidente della Campania, Vincenzo De Luca: «La Campania», annuncia De Luca, «valuterà le decisioni del governo, e adotterà, senza isterie e in modo responsabile, insieme ai protocolli di sicurezza già vigenti, controlli e test rapidi con accresciuta attenzione per prevenire, per quanto possibile, il sorgere nella nostra Regione di nuovi focolai epidemici».
Toni epici, e in verità un po' grotteschi, quelli utilizzati dall'assessore alla Sanità del Lazio, Alessio D'Amato, secondo il quale l'esigenza è «continuare a difendere Roma»: il pretoriano del presidente della Regione, Nicola Zingaretti, promette «massima attenzione ad aeroporti e stazioni perché Termini, Fiumicino e Ciampino preoccupano», e si augura «il tracciamento a livello nazionale».
Il governo, per andare incontro alle istanze dei presidenti di Regione più preoccupati dal via libera agli spostamenti, è orientato a consentire la registrazione di chi entra nel territorio regionale e la possibilità di effettuare test rapidi, ma solo se il soggetto interessato darà il suo assenso.
Soddisfatti gli altri governatori: «I dati sono estremamente positivi», sottolinea il presidente della Lombardia, Attilio Fontana. «Tutte e tre le pagelle del ministero ci hanno confermato che i nostri numeri sono pienamente in regola», gioisce il presidente del Piemonte, Alberto Cirio. «Capisco la preoccupazione di qualche collega», sottolinea il governatore del veneto, Luca Zaia, «ma spero si possa aprire tutti assieme, anche a livello europeo. Abbiamo la necessità di aumentare gli spostamenti e le relazioni». «Il nemico è il virus», argomenta il presidente della Liguria, Giovanni Toti, «non sono le persone, qualsiasi sia la loro provenienza». Per il presidente della Puglia, Michele Emiliano, «è arrivato il momento di riaprire il Paese a condizioni di normalità e la condizione di normalità fondamentale è la libertà di circolazione». La presidente della Calabria, Jole Santelli, sottolinea di essere «pronta ad accogliere i turisti. Siamo a contagio zero», sottolinea la Santelli, «e nel rispetto di tutte le misure contro il coronavirus, ora posso dire a chi arriva in Calabria: l'unico pericolo sarà quello di ingrassare».
Rossi diventa razzista con i lombardi
Secondo alcuni, in Toscana si aggirano due presidenti della Regione: si chiamano entrambi Enrico Rossi, si somigliano tantissimo, ma sulla sicurezza sanitaria la pensano in maniera diametralmente opposta.
Il primo, in piena emergenza coronavirus, alla fine dello scorso febbraio, bollava come «fascioleghisti» quelli che gli suggerivano, considerato l'imminente rientro in Toscana di 2.500 cinesi che erano stati in patria per festeggiare il loro capodanno, di predisporre una quarantena di 14 giorni. Fulgido esempio di accoglienza senza se e senza ma, il Rossi 1 polemizzava a tutto spiano con chiunque predicasse prudenza. Il secondo Enrico Rossi, invece, è un fanatico della sicurezza e, in previsione della riapertura dei confini tra le regioni italiane, in programma domani, mostra tutto il suo scetticismo rispetto alla decisione del governo di non rinchiudere in una specie di mega zona rossa i cittadini della Lombardia. Il Rossi 2, sostanzialmente, se potesse circonderebbe la Toscana con una grande muraglia (ovviamente) cinese, e non farebbe entrare nessun lombardo. Trattasi, invece, della stessa persona, il Rossi-banderuola, pronto a cambiare idea a seconda della convenienza politica e propagandistica del momento.
Era la fine di febbraio, il coronavirus dilagava in Cina, e il virologo Roberto Burioni, all'Agi, affermava: «È assolutamente necessario che i 2.500 cinesi che rientreranno dalla Cina in Toscana rimangano per 14 giorni in quarantena. La quarantena è l'unica arma di difesa che abbiamo per proteggerci dalla diffusione del coronavirus e non possiamo non usarla. Da medico», avvertiva Burioni, «posso dire che se anche una persona di queste 2.500 uscisse di casa e risultasse poi infetta si metterebbe a rischio tutto il lavoro di contenimento fatto finora. In questo casi credo sia mille volte più importante eccedere in prudenza che lasciare tutto alla faciloneria».
La stessa preoccupazione veniva espressa da medici, ricercatori, esperti, protagonisti politici. Rossi però faceva il disinvolto: «Al momento», dichiarava alla Nazione, «non c'è nessun allarme, nessun caso di nuovo coronavirus tra persone di ritorno dalla Cina. Quindi, certo, dobbiamo alzare il livello di attenzione e di prevenzione, ma prima di tutto combattere la paura, l'ignoranza, il pregiudizio, i fenomeni di razzismo». Non contento, Rossi twittava: «La Toscana in materia di prevenzione contro il coronavirus, seguendo le linee nazionali di sorveglianza attiva, sta facendo più di tutte le altre Regioni. Chi ci attacca o non è bene informato, o è in malafede o è un fascioleghista».
Il presidente toscano mostrava scioltezza e tranquillità nei giorni in cui i primi casi di coronavirus si registravano in Italia e l'allarme, soprattutto per gli arrivi dalla Cina, era altissimo. Ora che invece (se Dio vuole) la situazione sembra tornata sotto controllo, Rossi indossa i panni dell'ultimo giapponese e critica la decisione del governo di aprire la mobilitò tra le Regioni, Lombardia compresa: «L'esperienza ci dice», dichiara Rossi al Corriere della Sera, «che la diffusione del virus in Toscana, come in altre Regioni, è stata il prodotto della fuga dalla Lombardia poco prima del lockdown. Quindi un po' di prudenza e la pazienza di aspettare una settimana in più non so a chi avrebbero potuto far male. La verità è che Fontana e Sala hanno fatto la corsa per la riapertura e alla fine il governo si è adeguato. Il peso della Lombardia nelle scelte c'è, inutile negarlo. Invece una maggiore gradualità», avverte Rossi, «terrebbe insieme meglio il Paese». Enrico Rossi, il granduca della coerenza.
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Riduci
Domani si potrà tornare a circolare liberamente in tutta Italia grazie al benestare del governo e dell'Iss. Ai governatori del Sud rimangono i dubbi: il sardo Christian Solinas pensa a un bonus per i turisti che faranno il test.Enrico Rossi diventa razzista con i lombardi. Il presidente della Toscana accusava di «fascioleghismo» chi chiedeva la quarantena per i cinesi rientrati dalla loro patria. Ora vorrebbe tener fuori chi arriva dal Nord... Lo speciale comprende due articoli.Ancora 24 ore l'Italia tornerà unita: domani, 3 giugno, cade l'ultima barriera della mobilità, quella tra le varie Regioni italiane, e finisce così in archivio un'altra delle tristi limitazioni imposte dal lockdown anticoronavirus. Quei muri invisibili quanto invalicabili che hanno diviso le Regioni italiane scompariranno, si spera, per sempre: il via libera è arrivato dal governo, confortato dai dati elaborati dall'Istituto superiore di sanità attraverso l'analisi di 21 parametri che segnalano il livello di rischio delle diverse Regioni. «Al momento», ha fatto sapere l'Iss, «in Italia non vengono riportate situazioni critiche relative all'epidemia di Covid-19»: semaforo verde, quindi, ma attenzione a tenere la guardia sempre alta. «È chiaro che un rischio lo stiamo assumendo», dice il ministro della Salute, Roberto Speranza, a 1/2 ora in più su Rai Tre, «poiché il rischio zero ora non esiste ma ci arriveremo solo quando ci sarà il vaccino. Fino ad allora si tratta di assumersi dei rischi ponderati e di provare a gestire una fase diversa. Che ci sia una differenza sui territori è un dato di fatto innegabile e il Nord ha pagato il prezzo più alto, ma ora il trend di tutte le Regioni va nella direzione giusta. Al momento», aggiunge Speranza, «i dati ci dicono che è vero che ci sono differenze quantitative ma la tendenza di tutte le regioni va nella direzione giusta ed è in discesa. Le settimane che arriveranno sono ancora con un esito non scontato e le misure di distanziamento e precauzione saranno determinanti».La soddisfazione per la riapertura sovrasta le voci critiche, quelle di alcuni presidenti di Regione che negli ultimi giorni hanno manifestato dubbi e perplessità sul «liberi tutti». Il simbolo degli isolazionisti, il presidente della Sardegna, Christian Solinas, teorico del «certificato di immunità» per chi approda sull'isola, dopo la bocciatura da parte del governo è costretto al dietrofront: «Tratteremo fino all'ultimo», precisa Solinas, «per un accordo, ma se non riusciremo a trovarlo, allora appronteremo un sistema più articolato che prevede la registrazione dei passeggeri all'ingresso su una piattaforma e la compilazione di un questionario epidemiologico che serve a noi per avere contezza su dove concentrare i maggiori controlli. Pensiamo a un incentivo per chi volesse sottoporsi a una verifica con un test», spiega Solinas a Rai Radio1, «potremmo riconoscere un piccolo voucher, un bonus da spendere in Sardegna».L'idea è quella di chiedere ai turisti in partenza per la Sardegna una autocertificazione relativa ai sintomi del coronavirus. Il presidente della Sicilia, Nello Musumeci, che pure aveva manifestato la volontà di chiedere il «passaporto sanitario» ai turisti, ingrana la retromarcia in maniera felpata: «Occorrerà verificare», argomenta Musumeci, «la provenienza, l'esistenza di eventuali casi sospetti nel nucleo familiare, indicare giorno dopo giorno la tracciabilità della presenza del turista». Tra i perplessi anche il presidente della Campania, Vincenzo De Luca: «La Campania», annuncia De Luca, «valuterà le decisioni del governo, e adotterà, senza isterie e in modo responsabile, insieme ai protocolli di sicurezza già vigenti, controlli e test rapidi con accresciuta attenzione per prevenire, per quanto possibile, il sorgere nella nostra Regione di nuovi focolai epidemici».Toni epici, e in verità un po' grotteschi, quelli utilizzati dall'assessore alla Sanità del Lazio, Alessio D'Amato, secondo il quale l'esigenza è «continuare a difendere Roma»: il pretoriano del presidente della Regione, Nicola Zingaretti, promette «massima attenzione ad aeroporti e stazioni perché Termini, Fiumicino e Ciampino preoccupano», e si augura «il tracciamento a livello nazionale».Il governo, per andare incontro alle istanze dei presidenti di Regione più preoccupati dal via libera agli spostamenti, è orientato a consentire la registrazione di chi entra nel territorio regionale e la possibilità di effettuare test rapidi, ma solo se il soggetto interessato darà il suo assenso.Soddisfatti gli altri governatori: «I dati sono estremamente positivi», sottolinea il presidente della Lombardia, Attilio Fontana. «Tutte e tre le pagelle del ministero ci hanno confermato che i nostri numeri sono pienamente in regola», gioisce il presidente del Piemonte, Alberto Cirio. «Capisco la preoccupazione di qualche collega», sottolinea il governatore del veneto, Luca Zaia, «ma spero si possa aprire tutti assieme, anche a livello europeo. Abbiamo la necessità di aumentare gli spostamenti e le relazioni». «Il nemico è il virus», argomenta il presidente della Liguria, Giovanni Toti, «non sono le persone, qualsiasi sia la loro provenienza». Per il presidente della Puglia, Michele Emiliano, «è arrivato il momento di riaprire il Paese a condizioni di normalità e la condizione di normalità fondamentale è la libertà di circolazione». La presidente della Calabria, Jole Santelli, sottolinea di essere «pronta ad accogliere i turisti. Siamo a contagio zero», sottolinea la Santelli, «e nel rispetto di tutte le misure contro il coronavirus, ora posso dire a chi arriva in Calabria: l'unico pericolo sarà quello di ingrassare».<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/si-riaprono-i-confini-delle-regioni-ma-nel-meridione-studiano-dei-filtri-2646143755.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="rossi-diventa-razzista-con-i-lombardi" data-post-id="2646143755" data-published-at="1591038144" data-use-pagination="False"> Rossi diventa razzista con i lombardi Secondo alcuni, in Toscana si aggirano due presidenti della Regione: si chiamano entrambi Enrico Rossi, si somigliano tantissimo, ma sulla sicurezza sanitaria la pensano in maniera diametralmente opposta. Il primo, in piena emergenza coronavirus, alla fine dello scorso febbraio, bollava come «fascioleghisti» quelli che gli suggerivano, considerato l'imminente rientro in Toscana di 2.500 cinesi che erano stati in patria per festeggiare il loro capodanno, di predisporre una quarantena di 14 giorni. Fulgido esempio di accoglienza senza se e senza ma, il Rossi 1 polemizzava a tutto spiano con chiunque predicasse prudenza. Il secondo Enrico Rossi, invece, è un fanatico della sicurezza e, in previsione della riapertura dei confini tra le regioni italiane, in programma domani, mostra tutto il suo scetticismo rispetto alla decisione del governo di non rinchiudere in una specie di mega zona rossa i cittadini della Lombardia. Il Rossi 2, sostanzialmente, se potesse circonderebbe la Toscana con una grande muraglia (ovviamente) cinese, e non farebbe entrare nessun lombardo. Trattasi, invece, della stessa persona, il Rossi-banderuola, pronto a cambiare idea a seconda della convenienza politica e propagandistica del momento. Era la fine di febbraio, il coronavirus dilagava in Cina, e il virologo Roberto Burioni, all'Agi, affermava: «È assolutamente necessario che i 2.500 cinesi che rientreranno dalla Cina in Toscana rimangano per 14 giorni in quarantena. La quarantena è l'unica arma di difesa che abbiamo per proteggerci dalla diffusione del coronavirus e non possiamo non usarla. Da medico», avvertiva Burioni, «posso dire che se anche una persona di queste 2.500 uscisse di casa e risultasse poi infetta si metterebbe a rischio tutto il lavoro di contenimento fatto finora. In questo casi credo sia mille volte più importante eccedere in prudenza che lasciare tutto alla faciloneria». La stessa preoccupazione veniva espressa da medici, ricercatori, esperti, protagonisti politici. Rossi però faceva il disinvolto: «Al momento», dichiarava alla Nazione, «non c'è nessun allarme, nessun caso di nuovo coronavirus tra persone di ritorno dalla Cina. Quindi, certo, dobbiamo alzare il livello di attenzione e di prevenzione, ma prima di tutto combattere la paura, l'ignoranza, il pregiudizio, i fenomeni di razzismo». Non contento, Rossi twittava: «La Toscana in materia di prevenzione contro il coronavirus, seguendo le linee nazionali di sorveglianza attiva, sta facendo più di tutte le altre Regioni. Chi ci attacca o non è bene informato, o è in malafede o è un fascioleghista». Il presidente toscano mostrava scioltezza e tranquillità nei giorni in cui i primi casi di coronavirus si registravano in Italia e l'allarme, soprattutto per gli arrivi dalla Cina, era altissimo. Ora che invece (se Dio vuole) la situazione sembra tornata sotto controllo, Rossi indossa i panni dell'ultimo giapponese e critica la decisione del governo di aprire la mobilitò tra le Regioni, Lombardia compresa: «L'esperienza ci dice», dichiara Rossi al Corriere della Sera, «che la diffusione del virus in Toscana, come in altre Regioni, è stata il prodotto della fuga dalla Lombardia poco prima del lockdown. Quindi un po' di prudenza e la pazienza di aspettare una settimana in più non so a chi avrebbero potuto far male. La verità è che Fontana e Sala hanno fatto la corsa per la riapertura e alla fine il governo si è adeguato. Il peso della Lombardia nelle scelte c'è, inutile negarlo. Invece una maggiore gradualità», avverte Rossi, «terrebbe insieme meglio il Paese». Enrico Rossi, il granduca della coerenza.
Gabriele D'Annunzio (Ansa)
Il patrimonio mondiale dell’umanità rappresentato dalla cucina italiana sarà pure «immateriale», come da definizione Unesco, ma è fatto di carne, ossa, talento e creatività. È il risultato delle centinaia di migliaia di persone che, nel corso dei secoli e dei millenni, hanno affinato tecniche, scoperto ingredienti, assemblato gusti, allevato animali con amore e coltivato la terra con altrettanta dedizione. Insomma, dietro la cucina italiana ci sono... gli italiani.
Ed è a tutti questi peones e protagonisti della nostra storia che il riconoscimento va intestato. Ma anche a chi assapora le pietanze in un ristorante, in un bistrot o in un agriturismo. Alla fine, se ci si pensa, la cucina italiana siamo tutti noi: sono i grandi chef come le mamme o le nonne che si danno da fare tra le padelle della cucina. Sono i clienti dei ristoranti, gli amanti dei formaggi come dei salumi. Sono i giornalisti che fanno divulgazione, sono i fotografi che immortalano i piatti, sono gli scrittori che dedicano pagine e pagine delle loro opere ai manicaretti preferiti dal protagonista di questo o quel romanzo. Insomma, la cucina è cultura, identità, passato e anche futuro.
Giancarlo Saran, gastropenna di questo giornale, ha dato alle stampe Peccatori di gola 2 (Bolis edizioni, 18 euro, seguito del fortunato libro uscito nel 2024 vincitore del Premio selezione Bancarella cucina), volume contenente 13 ritratti di personaggi di spicco del mondo dell’italica buona tavola («Un viaggio curioso e goloso tra tavola e dintorni, con illustri personaggi del Novecento compresi alcuni insospettabili», sentenzia l’autore sulla quarta di copertina). Ci sono il «fotografo» Bob Noto e l’attore Ugo Tognazzi, l’imprenditore Giancarlo Ligabue e gli scrittori Gabriele D’Annunzio, Leonardo Sciascia e Andrea Camilleri. E poi ancora Lella Fabrizi (la sora Lella), Luciano Pavarotti, Pietro Marzotto, Gianni Frasi, Alfredo Beltrame, Giuseppe Maffioli, Pellegrino Artusi.
Un giro d’Italia culinario, quello di Saran, che testimonia come il riconoscimento Unesco potrebbe dare ulteriore valore al nostro made in Italy, con risvolti di vario tipo: rispetto dell’ambiente e delle nostre tradizioni, volano per l’economia e per il turismo, salvaguardia delle radici dal pericolo di una appiattente omologazione sociale e culturale. Sfogliando Peccatori 2, si può possono scovare, praticamente a ogni pagina, delle chicche. Tipo, la passione di D’Annunzio per le uova e la frittata. Scrive Saran: «D’Annunzio aveva un’esperienza indelebile legata alle frittate, che ebbe occasione di esercitare in diretta nelle giornate di vacanza a Francavilla con i suoi giovani compagni di ventura in cui, a rotazione, erano chiamati “l’uno a sfamare tutti gli altri”. Lasciamogli la cronaca in diretta. Chi meglio di lui. “In un pomeriggio di luglio ci attardavamo nella delizia del bagno quando mi fu rammentato, con le voci della fame, toccare a me le cura della cucina”. La affronta come si deve. “Non mancai di avvolgermi in una veste di lino rapita a Ebe”, la dea della giovinezza, “e di correre verso la vasta dimora costruita di tufo e adornata di maioliche paesane”. Non c’è storia: “Ruppi trentatré uova e, dopo averle sbattute, le agguagliai (mischiai) nella padella dal manico di ferro lungo come quello di una chitarra”. La notte è illuminata dal chiaro di luna che si riflette sulle onde, silenziose in attesa, e fu così che “adunai la sapienza e il misurato vigore... e diedi il colpo attentissimo a ricevere la frittata riversa”. Ma nulla da fare, questa, volando nel cielo non ricadde a terra, ovvero sulla padella. E qui avviene il miracolo laico. “Nel volgere gli occhi al cielo scorsi nel bagliore del novilunio la tunica e l’ala di un angelo”. Il finale conseguente. “L’angelo, nel passaggio, aveva colta la frittata in aria, l’aveva rapita, la sosteneva con le dita” con la missione imperativa di recarla ai Beati, “offerta di perfezione terrestre...”, di cui lui era stato (seppur involontario) protagonista. “Io mi vanto maestro insuperabile nell’arte della frittata per riconoscimento celestiale”.
La buona e sana cucina, dunque, ha come traino produttori e ristoratori «ma ancor più valore aggiunto deriva da degni ambasciatori e, con questo, i Peccatori di gola credo meritino piena assoluzione», conclude l’autore.
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Dal primo luglio 2026, in tutta l’Unione europea entrerà in vigore un contributo fisso di tre euro per ciascun prodotto acquistato su internet e spedito da Paesi extra-Ue, quando il valore della spedizione è inferiore a 150 euro. L’orientamento politico era stato definito già il mese scorso; la riunione di ieri del Consiglio Ecofin (12 dicembre) ne ha reso operativa l’applicazione, stabilendone i criteri.
Il prelievo di 3 euro si applicherà alle merci in ingresso nell’Unione europea per le quali i venditori extra-Ue risultano registrati allo sportello unico per le importazioni (Ioss) ai fini Iva. Secondo fonti di Bruxelles, questo perimetro copre «il 93% di tutti i flussi di e-commerce verso l’Ue».
In realtà, la misura non viene presentata direttamente come un’iniziativa mirata contro la Cina, anche se è dalla Repubblica Popolare che proviene la quota maggiore di pacchi. Una delle preoccupazioni tra i ministri è che parte della merce venga immessa nel mercato unico a prezzi artificialmente bassi, anche attraverso pratiche di sottovalutazione, per aggirare le tariffe che si applicano invece alle spedizioni oltre i 150 euro. La Commissione europea stima che nel 2024 il 91% delle spedizioni e-commerce sotto i 150 euro sia arrivato dalla Cina; inoltre, valutazioni Ue indicano che fino al 65% dei piccoli pacchi in ingresso potrebbe essere dichiarato a un valore inferiore al reale per evitare i dazi doganali.
«La decisione sui dazi doganali per i piccoli pacchi in arrivo nell’Ue è importante per garantire una concorrenza leale ai nostri confini nell’era odierna dell’e-commerce», ha detto il commissario per il Commercio, Maroš Šefčovič. Secondo il politico slovacco, «con la rapida espansione dell’e-commerce, il mondo sta cambiando rapidamente e abbiamo bisogno degli strumenti giusti per stare al passo».
La decisione finale da parte di Bruxelles arriva dopo un iter normativo lungo cinque anni. La Commissione europea aveva messo sul tavolo, nel maggio 2023, la cancellazione dell’esenzione dai dazi doganali per i pacchi con valore inferiore a 150 euro, inserendola nel pacchetto di riforma doganale. Nella versione originaria, l’entrata in vigore era prevista non prima della metà del 2028. Successivamente, il Consiglio ha formalizzato l’abolizione dell’esenzione il 13 novembre 2025, chiedendo però di anticipare l’applicazione già al 2026.
C’è poi un secondo balzello messo a punto dall’esecutivo Meloni. Si tratta di un emendamento che prevede l’introduzione di un contributo fisso di due euro per ogni pacco spedito con valore dichiarato fino a 150 euro.
La misura, però, non sarebbe limitata ai soli invii provenienti da Paesi extra-Ue. Rispetto alle ipotesi circolate in precedenza, l’impostazione è stata ampliata: se approvata, la tassa finirebbe per applicarsi a tutte le spedizioni di piccoli pacchi, indipendentemente dall’origine, quindi anche a quelle spedite dall’Italia. In origine, l’idea sembrava mirata soprattutto a intercettare le micro-spedizioni generate da piattaforme come Shein o Temu. Il punto, però, è che colpire esclusivamente i pacchi extra-europei avrebbe reso la misura assimilabile a un dazio, materia che rientra nella competenza dell’Unione europea e non dei singoli Stati membri. Per evitare questo profilo di incompatibilità, l’emendamento alla manovra 2026 ha quindi «generalizzato» il prelievo, estendendolo all’intero perimetro delle spedizioni. L’effetto pratico è evidente: la tassa non impatterebbe solo sulle piattaforme asiatiche, ma anche sugli acquisti effettuati su Amazon, eBay e, in generale, su qualsiasi negozio online che spedisca pacchi entro quella soglia di valore dichiarato.
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Riduci
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Insomma: il vento è cambiato. E non spinge più la solita, ingombrante, vela francese che negli ultimi anni si era abituata a intendere l’Italia come un’estensione naturale della Rive Gauche.
E invece no. Il pendolo torna indietro. E con esso tornano anche ricordi e fantasie: Piersilvio Berlusconi sogna la Francia. Non quella dei consessi istituzionali, ma quella di quando suo padre, l’unico che sia riuscito a esportare il varietà italiano oltre le Alpi, provò l’avventura di La Cinq.
Una televisione talmente avanti che il presidente socialista François Mitterrand, per non farla andare troppo lontano, decise di spegnerla. Letteralmente.
Erano gli anni in cui gli italiani facevano shopping nella grandeur: Gianni Agnelli prese una quota di Danone e Raul Gardini mise le mani sul più grande zuccherificio francese, giusto per far capire che il gusto per il raffinato non ci era mai mancato. Oggi al massimo compriamo qualche croissant a prezzo pieno.
Dunque, Berlusconi – quello junior, stavolta – può dirlo senza arrossire: «La Francia sarebbe un sogno». Si guarda intorno, valuta, misura il terreno: Tf1 e M6.
La prima, dice, «ha una storia imprenditoriale solida»: niente da dire, anche le fortezze hanno i loro punti deboli. Con la seconda, «una finta opportunità». Tradotto: l’affare che non c’è, ma che ti fa perdere lo stesso due settimane di telefonate.
Il vero punto, però, è che mentre noi guardiamo a Parigi, Parigi si deve rassegnare. Lo dimostra il clamoroso stop di Crédit Agricole su Bpm, piantato lì come un cartello stradale: «Fine delle ambizioni». Con Bank of America che conferma la raccomandazione «Buy» su Mps e alza il target price a 11 euro. E non c’è solo questo. Natixis ha dovuto rinunciare alla cassaforte di Generali dov’è conservata buona parte del risparmio degli italiani. Vivendi si è ritirata. Tim è tornata italiana.
Il pendolo, dicevamo, ha cambiato asse. E spinge ben più a Ovest. Certo Parigi rimane il più importante investitore estero in Italia. Ma il vento della geopolitica e cambiato. Il nuovo asse si snoda tra Washington e Roma Gli americani non stanno bussando alla porta: sono già entrati.
E non con due spicci.
Ieri le due sigle più «Miami style» che potessero atterrare nel dossier Ilva – Bedrock Industries e Flacks Group – hanno presentato le loro offerte. Americani entrambi. Dall’odore ancora fresco di oceano, baseball e investimenti senza fronzoli.
E non è un caso isolato.
In Italia operano oltre 2.700 imprese a partecipazione statunitense, che generano 400.000 posti di lavoro. Non esattamente compratori di souvenir. Sono radicati nei capannoni, nella logistica, nelle tecnologie, nei servizi, nella manifattura. Un pezzo intero di economia reale. Poi c’è il capitolo dei giganti della finanza globale: BlackRock, Vanguard, i soliti nomi che quando entrano in una stanza fanno più rumore del tuono. Hanno fiutato l’aria e annusato l’Italia come fosse un tartufo bianco d’Alba: raro, caro e conveniente.
Gli incontri istituzionali degli ultimi anni parlano chiaro: data center, infrastrutture, digitalizzazione, energia.
Gli americani non si accontentano. Puntano al core del futuro: tecnologia, energia, scienza della vita, space economy, agritech.
Dopo l’investimento di Kkr nella rete fissa Telecom - uno dei deal più massicci degli ultimi quindici anni - la direzione è segnata: Washington ha scoperto che l’Italia rende.
A ottobre 2025 la grande conferma: missione economica a Washington, con una pioggia di annunci per oltre 4 miliardi di euro di nuovi investimenti. Non bonus, non promesse, ma progetti veri: space economy, sostenibilità, energia, life sciences, agri-tech, turism. Tutti settori dove l’Italia è più forte di quanto creda, e più sottovalutata di quanto dovrebbe.
A questo punto il pendolo ha parlato: gli americani investono, i francesi frenano.
E chissà che, alla fine, non si chiuda il cerchio: gli Usa tornano in Italia come investitori netti, e Berlusconi torna in Francia come ai tempi dell’avventura di La Cinq.
Magari senza che un nuovo Mitterrand tolga la spina.
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