2020-06-02
Si riaprono i confini delle Regioni. Ma nel Meridione studiano dei filtri
Domani si potrà tornare a circolare liberamente in tutta Italia grazie al benestare del governo e dell'Iss. Ai governatori del Sud rimangono i dubbi: il sardo Christian Solinas pensa a un bonus per i turisti che faranno il test.Enrico Rossi diventa razzista con i lombardi. Il presidente della Toscana accusava di «fascioleghismo» chi chiedeva la quarantena per i cinesi rientrati dalla loro patria. Ora vorrebbe tener fuori chi arriva dal Nord... Lo speciale comprende due articoli.Ancora 24 ore l'Italia tornerà unita: domani, 3 giugno, cade l'ultima barriera della mobilità, quella tra le varie Regioni italiane, e finisce così in archivio un'altra delle tristi limitazioni imposte dal lockdown anticoronavirus. Quei muri invisibili quanto invalicabili che hanno diviso le Regioni italiane scompariranno, si spera, per sempre: il via libera è arrivato dal governo, confortato dai dati elaborati dall'Istituto superiore di sanità attraverso l'analisi di 21 parametri che segnalano il livello di rischio delle diverse Regioni. «Al momento», ha fatto sapere l'Iss, «in Italia non vengono riportate situazioni critiche relative all'epidemia di Covid-19»: semaforo verde, quindi, ma attenzione a tenere la guardia sempre alta. «È chiaro che un rischio lo stiamo assumendo», dice il ministro della Salute, Roberto Speranza, a 1/2 ora in più su Rai Tre, «poiché il rischio zero ora non esiste ma ci arriveremo solo quando ci sarà il vaccino. Fino ad allora si tratta di assumersi dei rischi ponderati e di provare a gestire una fase diversa. Che ci sia una differenza sui territori è un dato di fatto innegabile e il Nord ha pagato il prezzo più alto, ma ora il trend di tutte le Regioni va nella direzione giusta. Al momento», aggiunge Speranza, «i dati ci dicono che è vero che ci sono differenze quantitative ma la tendenza di tutte le regioni va nella direzione giusta ed è in discesa. Le settimane che arriveranno sono ancora con un esito non scontato e le misure di distanziamento e precauzione saranno determinanti».La soddisfazione per la riapertura sovrasta le voci critiche, quelle di alcuni presidenti di Regione che negli ultimi giorni hanno manifestato dubbi e perplessità sul «liberi tutti». Il simbolo degli isolazionisti, il presidente della Sardegna, Christian Solinas, teorico del «certificato di immunità» per chi approda sull'isola, dopo la bocciatura da parte del governo è costretto al dietrofront: «Tratteremo fino all'ultimo», precisa Solinas, «per un accordo, ma se non riusciremo a trovarlo, allora appronteremo un sistema più articolato che prevede la registrazione dei passeggeri all'ingresso su una piattaforma e la compilazione di un questionario epidemiologico che serve a noi per avere contezza su dove concentrare i maggiori controlli. Pensiamo a un incentivo per chi volesse sottoporsi a una verifica con un test», spiega Solinas a Rai Radio1, «potremmo riconoscere un piccolo voucher, un bonus da spendere in Sardegna».L'idea è quella di chiedere ai turisti in partenza per la Sardegna una autocertificazione relativa ai sintomi del coronavirus. Il presidente della Sicilia, Nello Musumeci, che pure aveva manifestato la volontà di chiedere il «passaporto sanitario» ai turisti, ingrana la retromarcia in maniera felpata: «Occorrerà verificare», argomenta Musumeci, «la provenienza, l'esistenza di eventuali casi sospetti nel nucleo familiare, indicare giorno dopo giorno la tracciabilità della presenza del turista». Tra i perplessi anche il presidente della Campania, Vincenzo De Luca: «La Campania», annuncia De Luca, «valuterà le decisioni del governo, e adotterà, senza isterie e in modo responsabile, insieme ai protocolli di sicurezza già vigenti, controlli e test rapidi con accresciuta attenzione per prevenire, per quanto possibile, il sorgere nella nostra Regione di nuovi focolai epidemici».Toni epici, e in verità un po' grotteschi, quelli utilizzati dall'assessore alla Sanità del Lazio, Alessio D'Amato, secondo il quale l'esigenza è «continuare a difendere Roma»: il pretoriano del presidente della Regione, Nicola Zingaretti, promette «massima attenzione ad aeroporti e stazioni perché Termini, Fiumicino e Ciampino preoccupano», e si augura «il tracciamento a livello nazionale».Il governo, per andare incontro alle istanze dei presidenti di Regione più preoccupati dal via libera agli spostamenti, è orientato a consentire la registrazione di chi entra nel territorio regionale e la possibilità di effettuare test rapidi, ma solo se il soggetto interessato darà il suo assenso.Soddisfatti gli altri governatori: «I dati sono estremamente positivi», sottolinea il presidente della Lombardia, Attilio Fontana. «Tutte e tre le pagelle del ministero ci hanno confermato che i nostri numeri sono pienamente in regola», gioisce il presidente del Piemonte, Alberto Cirio. «Capisco la preoccupazione di qualche collega», sottolinea il governatore del veneto, Luca Zaia, «ma spero si possa aprire tutti assieme, anche a livello europeo. Abbiamo la necessità di aumentare gli spostamenti e le relazioni». «Il nemico è il virus», argomenta il presidente della Liguria, Giovanni Toti, «non sono le persone, qualsiasi sia la loro provenienza». Per il presidente della Puglia, Michele Emiliano, «è arrivato il momento di riaprire il Paese a condizioni di normalità e la condizione di normalità fondamentale è la libertà di circolazione». La presidente della Calabria, Jole Santelli, sottolinea di essere «pronta ad accogliere i turisti. Siamo a contagio zero», sottolinea la Santelli, «e nel rispetto di tutte le misure contro il coronavirus, ora posso dire a chi arriva in Calabria: l'unico pericolo sarà quello di ingrassare».<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/si-riaprono-i-confini-delle-regioni-ma-nel-meridione-studiano-dei-filtri-2646143755.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="rossi-diventa-razzista-con-i-lombardi" data-post-id="2646143755" data-published-at="1591038144" data-use-pagination="False"> Rossi diventa razzista con i lombardi Secondo alcuni, in Toscana si aggirano due presidenti della Regione: si chiamano entrambi Enrico Rossi, si somigliano tantissimo, ma sulla sicurezza sanitaria la pensano in maniera diametralmente opposta. Il primo, in piena emergenza coronavirus, alla fine dello scorso febbraio, bollava come «fascioleghisti» quelli che gli suggerivano, considerato l'imminente rientro in Toscana di 2.500 cinesi che erano stati in patria per festeggiare il loro capodanno, di predisporre una quarantena di 14 giorni. Fulgido esempio di accoglienza senza se e senza ma, il Rossi 1 polemizzava a tutto spiano con chiunque predicasse prudenza. Il secondo Enrico Rossi, invece, è un fanatico della sicurezza e, in previsione della riapertura dei confini tra le regioni italiane, in programma domani, mostra tutto il suo scetticismo rispetto alla decisione del governo di non rinchiudere in una specie di mega zona rossa i cittadini della Lombardia. Il Rossi 2, sostanzialmente, se potesse circonderebbe la Toscana con una grande muraglia (ovviamente) cinese, e non farebbe entrare nessun lombardo. Trattasi, invece, della stessa persona, il Rossi-banderuola, pronto a cambiare idea a seconda della convenienza politica e propagandistica del momento. Era la fine di febbraio, il coronavirus dilagava in Cina, e il virologo Roberto Burioni, all'Agi, affermava: «È assolutamente necessario che i 2.500 cinesi che rientreranno dalla Cina in Toscana rimangano per 14 giorni in quarantena. La quarantena è l'unica arma di difesa che abbiamo per proteggerci dalla diffusione del coronavirus e non possiamo non usarla. Da medico», avvertiva Burioni, «posso dire che se anche una persona di queste 2.500 uscisse di casa e risultasse poi infetta si metterebbe a rischio tutto il lavoro di contenimento fatto finora. In questo casi credo sia mille volte più importante eccedere in prudenza che lasciare tutto alla faciloneria». La stessa preoccupazione veniva espressa da medici, ricercatori, esperti, protagonisti politici. Rossi però faceva il disinvolto: «Al momento», dichiarava alla Nazione, «non c'è nessun allarme, nessun caso di nuovo coronavirus tra persone di ritorno dalla Cina. Quindi, certo, dobbiamo alzare il livello di attenzione e di prevenzione, ma prima di tutto combattere la paura, l'ignoranza, il pregiudizio, i fenomeni di razzismo». Non contento, Rossi twittava: «La Toscana in materia di prevenzione contro il coronavirus, seguendo le linee nazionali di sorveglianza attiva, sta facendo più di tutte le altre Regioni. Chi ci attacca o non è bene informato, o è in malafede o è un fascioleghista». Il presidente toscano mostrava scioltezza e tranquillità nei giorni in cui i primi casi di coronavirus si registravano in Italia e l'allarme, soprattutto per gli arrivi dalla Cina, era altissimo. Ora che invece (se Dio vuole) la situazione sembra tornata sotto controllo, Rossi indossa i panni dell'ultimo giapponese e critica la decisione del governo di aprire la mobilitò tra le Regioni, Lombardia compresa: «L'esperienza ci dice», dichiara Rossi al Corriere della Sera, «che la diffusione del virus in Toscana, come in altre Regioni, è stata il prodotto della fuga dalla Lombardia poco prima del lockdown. Quindi un po' di prudenza e la pazienza di aspettare una settimana in più non so a chi avrebbero potuto far male. La verità è che Fontana e Sala hanno fatto la corsa per la riapertura e alla fine il governo si è adeguato. Il peso della Lombardia nelle scelte c'è, inutile negarlo. Invece una maggiore gradualità», avverte Rossi, «terrebbe insieme meglio il Paese». Enrico Rossi, il granduca della coerenza.
Il presidente di Generalfinance e docente di Corporate Finance alla Bocconi Maurizio Dallocchio e il vicedirettore de la Verità Giuliano Zulin
Dopo l’intervista di Maurizio Belpietro al ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin, Zulin ha chiamato sul palco Dallocchio per discutere di quante risorse servono per la transizione energetica e di come la finanza possa effettivamente sostenerla.
Il tema centrale, secondo Dallocchio, è la relazione tra rendimento e impegno ambientale. «Se un green bond ha un rendimento leggermente inferiore a un titolo normale, con un differenziale di circa 5 punti base, è insensato - ha osservato - chi vuole investire nell’ambiente deve essere disposto a un sacrificio più elevato, ma serve chiarezza su dove vengono investiti i soldi». Attualmente i green bond rappresentano circa il 25% delle emissioni, un livello ritenuto ragionevole, ma è necessario collegare in modo trasparente raccolta e utilizzo dei fondi, con progetti misurabili e verificabili.
Dallocchio ha sottolineato anche il ruolo dei regolamenti europei. «L’Europa regolamenta duramente, ma finisce per ridurre la possibilità di azione. La rigidità rischia di scoraggiare le imprese dal quotarsi in borsa, con conseguenze negative sugli investimenti green. Oggi il 70% dei cda delle banche è dedicato alla compliance e questo non va bene». Un altro nodo evidenziato riguarda la concentrazione dei mercati: gli emittenti privati si riducono, mentre grandi attori privati dominano la borsa, rendendo difficile per le imprese italiane ed europee accedere al capitale. Secondo Dallocchio, le aziende dovranno abituarsi a un mercato dove le banche offrono meno credito diretto e più strumenti di trading, seguendo il modello americano.
Infine, il confronto tra politica monetaria europea e americana ha messo in luce contraddizioni: «La Fed dice di non occuparsi di clima, la Bce lo inserisce nei suoi valori, ma non abbiamo visto un reale miglioramento della finanza green in Europa. La sensibilità verso gli investimenti sostenibili resta più personale che istituzionale». Il panel ha così evidenziato come la finanza sostenibile possa sostenere la transizione energetica solo se accompagnata da chiarezza, regole coerenti e attenzione al ritorno degli investimenti, evitando mode o vincoli eccessivi che rischiano di paralizzare il mercato.
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Intervistato da Maurizio Belpietro, direttore de La Verità, il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica Gilberto Pichetto Fratin non usa giri di parole: «Io non sono contro l’elettrico, sono convinto che il motore elettrico abbia un futuro enorme. Ma una cosa è credere in una tecnologia, un’altra è trasformarla in un’imposizione politica. Questo ha fatto l’Unione Europea con la scadenza del 2035». Secondo Pichetto Fratin, il vincolo fissato a Bruxelles non nasce da ragioni scientifiche: «È come se io oggi decidessi quale sarà la tecnologia del 2040. È un metodo sovietico, come le tavole di Leontief: la politica stabilisce dall’alto cosa succederà, ignorando il mercato e i progressi scientifici. Nessuno mi toglie dalla testa che Timmermans abbia imposto alle case automobilistiche europee – che all’epoca erano d’accordo – il vincolo del 2035. Ma oggi quelle stesse industrie si accorgono che non è più sostenibile».
Il motore elettrico: futuro sì, imposizioni no. Il ministro tiene a ribadire di non avere pregiudizi sulla tecnologia: «Il motore elettrico è il più semplice da costruire, ha sette-otto volte meno pezzi, si rompe raramente. Pensi al motore del frigorifero: quello di mia madre ha funzionato cinquant’anni senza mai guastarsi. È una tecnologia solida. Ma da questo a imporre a tutti gli europei di pagare la riconversione industriale delle case automobilistiche, ce ne corre». Colonnine e paradosso dell’uovo e della gallina. Belpietro chiede conto del tema infrastrutturale: perché le gare per le colonnine sono andate deserte? Pichetto Fratin replica: «Perché non c’è il mercato. Non ci sono abbastanza auto elettriche in circolazione, quindi nessuno vuole investire. È il classico paradosso: prima l’uovo o la gallina?». Il ministro racconta di aver tentato in tutti i modi: «Ho fatto bandi, ho ripetuto le gare, ho perfino chiesto a Rfi di partecipare. Alla fine ho dovuto riconvertire i 597 milioni di fondi europei destinati alle colonnine, dopo una lunga contrattazione con Bruxelles. Ma anche qui si vede l’assurdità: l’Unione Europea ci impone obiettivi, senza considerare che il mercato non risponde».
Prezzi eccessivi e mercato bloccato. Un altro nodo è il costo delle auto elettriche: «In Germania servono due o tre annualità di stipendio di un operaio per comprarne una. In Italia ce ne vogliono cinque. Non è un caso che fino a poco tempo fa fossero auto da direttori di giornale o grandi manager. Questo non è un mercato libero, è un’imposizione politica». L’errore: imporre il motore, non le emissioni. Per Pichetto Fratin, l’errore dell’Ue è stato vincolare la tecnologia, non il risultato: «Se l’obiettivo era emissione zero nel 2035, bastava dirlo. Ci sono già veicoli diesel a emissioni zero, ci sono biocarburanti, c’è il biometano. Ma Bruxelles ha deciso che l’unica via è l’elettrico. È qui l’errore: hanno trasformato una direttiva ambientale in un regalo alle case automobilistiche, scaricando il costo sugli europei».
Bruxelles e la vicepresidente Ribera. Belpietro ricorda le dichiarazioni della vicepresidente Teresa Ribera. Il ministro risponde: «La Ribera è una che ascolta, devo riconoscerlo. Ma resta molto ideologica. E la Commissione Europea è un rassemblement, non un vero governo: dentro c’è di tutto. In Spagna, per esempio, la Ribera è stata protagonista delle scelte che hanno portato al blackout, puntando solo sulle rinnovabili senza un mix energetico». La critica alla Germania. Il ministro non risparmia critiche alla Germania: «Prima chiudono le centrali nucleari, poi riaprono quelle a carbone, la fonte più inquinante. È pura ipocrisia. Noi in Italia abbiamo smesso col carbone, ma a Berlino per compiacere i Verdi hanno abbandonato il nucleare e sono tornati indietro di decenni».
Obiettivi 2040: «Irrealistici per l’Italia». Si arriva quindi alla trattativa sul nuovo target europeo: riduzione del 90% delle emissioni entro il 2040. Pichetto Fratin è netto: «È un obiettivo irraggiungibile per l’Italia. I Paesi del Nord hanno territori sterminati e pochi abitanti. Noi abbiamo centomila borghi, due catene montuose, il mare, la Pianura Padana che soffre già l’inquinamento. Imporre le stesse regole a tutti è sbagliato. L’Italia rischia di non farcela e di pagare un prezzo altissimo». Il ruolo del gas e le prospettive future. Il ministro difende il gas come energia di transizione: «È il combustibile fossile meno dannoso, e ci accompagnerà per decenni. Prima di poterlo sostituire servirà il nucleare di quarta generazione, o magari la fusione. Nel frattempo il gas resta la garanzia di stabilità energetica». Conclusione: pragmatismo contro ideologia. Nelle battute finali dell’intervista con Belpietro, Pichetto Fratin riassume la sua posizione: «Ridurre le emissioni è un obiettivo giusto. Ma un conto è farlo con scienza e tecnologia, un altro è imporre scadenze irrealistiche che distruggono l’economia reale. Qui non si tratta di ambiente: si tratta di ideologia. E i costi ricadono sempre sugli europei.»
Il ministro aggiunge: «Oggi produciamo in Italia circa 260 TWh. Il resto lo importiamo, soprattutto dalla Francia, poi da Montenegro e altri paesi. Se vogliamo davvero dare una risposta a questo fabbisogno crescente, non c’è alternativa: bisogna guardare al nucleare. Non quello di ieri, ma un nuovo nucleare. Io sono convinto che la strada siano i piccoli reattori modulari, anche se aspettiamo i fatti concreti. È lì che dobbiamo guardare». Pichetto Fratin chiarisce: «Il nucleare non è un’alternativa alle altre fonti: non sostituisce l’eolico, non sostituisce il fotovoltaico, né il geotermico. Ma è un tassello indispensabile in un mix equilibrato. Senza, non potremo mai reggere i consumi futuri». Gas liquido e rapporti con gli Stati Uniti. Il discorso scivola poi sul gas: «Abbiamo firmato un accordo standard con gli Stati Uniti per l’importazione di Gnl, ma oggi non abbiamo ancora i rigassificatori sufficienti per rispettarlo. Oggi la nostra capacità di importazione è di circa 28 miliardi di metri cubi l’anno, mentre l’impegno arriverebbe a 60. Negli Usa i liquefattori sono in costruzione: servirà almeno un anno o due. E, comunque, non è lo Stato a comprare: sono gli operatori, come Eni, che decidono in base al prezzo. Non è un obbligo politico, è mercato». Bollette e prezzi dell’energia. Sul tema bollette, il ministro precisa: «L’obiettivo è farle scendere, ma non esistono bacchette magiche. Non è che con un mio decreto domani la bolletta cala: questo accadeva solo in altri regimi. Noi stiamo lavorando per correggere il meccanismo che determina il prezzo dell’energia, perché ci sono anomalie evidenti. A breve uscirà un decreto con alcuni interventi puntuali. Ma la verità è che per avere bollette davvero più basse bisogna avere energia a un costo molto più basso. E i francesi, grazie al nucleare, ce l’hanno a prezzi molto inferiori ai nostri».
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