In arrivo il golden power sull’offerta di Unicredit per Banco Bpm: il governo darà il via libera ma chiede all’istituto di dire addio alla presenza in Russia. Tra le altre condizioni, il mantenimento della sede operativa in Italia e garanzie sui prestiti alle imprese.
In arrivo il golden power sull’offerta di Unicredit per Banco Bpm: il governo darà il via libera ma chiede all’istituto di dire addio alla presenza in Russia. Tra le altre condizioni, il mantenimento della sede operativa in Italia e garanzie sui prestiti alle imprese. Si avvicina la stretta finale sull’offerta pubblica di scambio (Ops) lanciata da Unicredit su Banco Bpm. Dopo l’ok di Consob e Bce, resta ora soltanto il parere – attesissimo – del Comitato golden power di Palazzo Chigi. La decisione, inizialmente attesa entro il 30 aprile, potrebbe arrivare già questo venerdì 18 aprile, o comunque prima dell’assemblea di Generali del 24, data chiave sul fronte della governance del Leone triestino e del ruolo che giocherà Unicredit con il suo 5,12%.Secondo fonti di stampa, il governo sarebbe orientato verso un sì condizionato, con una serie di prescrizioni vincolanti. Si tratterebbe di un compromesso tra l’interesse strategico dell’operazione – vista con favore dagli analisti – e la tutela degli asset ritenuti sensibili per la stabilità del sistema finanziario.La valutazione del Comitato golden power – strumento introdotto per difendere asset strategici italiani da scalate non in linea con l’interesse nazionale – contempla tre ipotesi: veto all’operazione: ritenuto altamente improbabile, dato che l’Ops ha già superato il vaglio tecnico di Consob e Bce e un blocco da parte del governo rappresenterebbe un intervento politico dirompente, certamente non gradito ai grandi investitori internazionali.Via libera incondizionato: anch’esso poco probabile. Escludere del tutto l’operazione dal perimetro della normativa golden power implicherebbe una rinuncia da parte del governo ad esercitare qualunque tutela strategica.Via libera con prescrizioni: è lo scenario più realistico, e secondo quanto riportato da Repubblica e Il Messaggero è anche quello attualmente in discussione.I paletti allo studio sono molteplici. Secondo quanto emerso, Palazzo Chigi starebbe valutando: chiarezza sulla rete degli sportelli che tenga conto sia della necessità del presidio territoriale sia di eventuali rilievi Antitrust.Mantenimento di una sede operativa stabile in Italia per la nuova entità risultante dalla fusione. Garanzie sul livello di finanziamenti all’economia reale, in particolare per quanto riguarda gli impieghi e il mantenimento di adeguati standard di attività nell’area del Nord-Est dove è più forte il radicamento di Banco Bpm. Monitoraggio dell’attività di investment banking, per evitare un’eccessiva razionalizzazione che possa compromettere la concorrenza o ridurre l’offerta di servizi finanziari alle imprese.Fin qui si tratta di prescrizioni obbligate e non certo difficili da rispettare. L’uscita dal mercato russo (chiesta anche dalla Bce) è senza dubbio la più critica. Il governo, chiederà di vendere la filiale moscovita «al più presto».Unicredit, infatti, mantiene tuttora una presenza significativa nel Paese, nonostante l’invasione dell’Ucraina e le sanzioni europee. La posizione è strategicamente delicata e politicamente sensibile. Tuttavia, l’ad Andrea Orcel ha finora mostrato cautela estrema, se non aperta resistenza, a un disimpegno immediato. Secondo fonti finanziarie, una cessione accelerata dell’asset russo costerebbe alla banca circa 50 punti base di capitale: un impatto non marginale, soprattutto in una fase in cui ogni punto di capitale può incidere sull’equilibrio dell’operazione e sulla redditività futura.La posizione di Orcel è chiara: vendere oggi, in un contesto di guerra e di prezzi fortemente depressi, non è conveniente né finanziariamente razionale. La banca ha già svalutato significativamente la partecipazione, ma continua a operare in regime di compliance alle sanzioni. In pratica la filiale non svolge più alcuna attività né di raccolta né di impieghi. Si limita a espletare dei servizi per conto di istituzioni italiane (per esempio il pagamento degli stipendi al personale dell’ambasciata).Nonostante il quadro non ancora definito, gli analisti di Equita Sim ribadiscono la solidità industriale del progetto. In un report mattutino, la sim milanese conferma il giudizio «buy» sul titolo Unicredit, mentre mantiene un «hold» su Banco Bpm.Diverso invece il giudizio di Dbrs che ha alzato il rating sull’istituto guidato da Giuseppe Castagna portandolo a BBB (high), da BBB. La promozione, spiega una nota, riflette i continui miglioramenti della redditività di Banco Bpm, ottenuti grazie a una combinazione di controllo dei costi operativi, basso costo del rischio e un maggiore livello di diversificazione del business.Il mercato sembra credere nella riuscita della combinazione. Il titolo Unicredit ha registrato un nuovo rialzo (+1,95%) e Banco Bpm +1,16% confermando il sentiment positivo degli investitori. L’attenzione resta ora tutta concentrata sulla decisione del governo: se venerdì arriverà il via libera condizionato, l’Ops potrà finalmente decollare, con un quadro più chiaro sulle regole e una finestra temporale favorevole per completare una delle più ambiziose operazioni degli ultimi anni.
Johann Chapoutot (Wikimedia)
Col saggio «Gli irresponsabili», Johann Chapoutot rilegge l’ascesa del nazismo senza gli occhiali dell’ideologia. E mostra tra l’altro come socialdemocratici e comunisti appoggiarono il futuro Führer per mettere in crisi la Repubblica di Weimar.
«Quella di Weimar è una storia così viva che resuscita i morti e continua a porre interrogativi alla Germania e, al di là della Germania, a tutte le democrazie che, di fronte al periodo 1932-1933, a von Papen e Hitler, ma anche a Schleicher, Hindenburg, Hugenberg e Thyssen, si sono trovate a misurare la propria finitudine. Se la Grande Guerra ha insegnato alle civiltà che sono mortali, la fine della Repubblica di Weimar ha dimostrato che la democrazia è caduca».
(Guardia di Finanza)
I finanzieri del Comando Provinciale di Palermo, grazie a una capillare attività investigativa nel settore della lotta alla contraffazione hanno sequestrato oltre 10.000 peluches (di cui 3.000 presso un negozio di giocattoli all’interno di un noto centro commerciale palermitano).
I peluches, originariamente disegnati da un artista di Hong Kong e venduti in tutto il mondo dal colosso nella produzione e vendita di giocattoli Pop Mart, sono diventati in poco tempo un vero trend, che ha generato una corsa frenetica all’acquisto dopo essere stati indossati sui social da star internazionali della musica e del cinema.
In particolare, i Baschi Verdi del Gruppo Pronto Impiego, attraverso un’analisi sulla distribuzione e vendita di giocattoli a Palermo nonché in virtù del costante monitoraggio dei profili social creati dagli operatori del settore, hanno individuato sette esercizi commerciali che disponevano anche degli iconici Labubu, focalizzando l’attenzione soprattutto sul prezzo di vendita, considerando che gli originali, a seconda della tipologia e della dimensione vengono venduti con un prezzo di partenza di circa 35 euro fino ad arrivare a diverse migliaia di euro per i pezzi meno diffusi o a tiratura limitata.
A seguito dei preliminari sopralluoghi effettuati all’interno dei negozi di giocattoli individuati, i finanzieri ne hanno selezionati sette, i quali, per prezzi praticati, fattura e packaging dei prodotti destavano particolari sospetti circa la loro originalità e provenienza.
I controlli eseguiti presso i sette esercizi commerciali hanno fatto emergere come nella quasi totalità dei casi i Labubu fossero imitazioni perfette degli originali, realizzati con materiali di qualità inferiore ma riprodotti con una cura tale da rendere difficile per un comune acquirente distinguere gli esemplari autentici da quelli falsi. I prodotti, acquistati senza fattura da canali non ufficiali o da piattaforme e-commerce, perlopiù facenti parte della grande distribuzione, venivano venduti a prezzi di poco inferiori a quelli praticati per gli originali e riportavano loghi, colori e confezioni del tutto simili a questi ultimi, spesso corredati da etichette e codici identificativi non conformi o totalmente falsificati.
Questi elementi, oltre al fatto che in alcuni casi i negozi che li ponevano in vendita fossero specializzati in giocattoli originali di ogni tipo e delle più note marche, potevano indurre il potenziale acquirente a pensare che si trattasse di prodotti originali venduti a prezzi concorrenziali.
In particolare, in un caso, l’intervento dei Baschi Verdi è stato effettuato in un negozio di giocattoli appartenente a una nota catena di distribuzione all’interno di un centro commerciale cittadino. Proprio in questo negozio è stato rinvenuto il maggior numero di pupazzetti falsi, ben 3.000 tra esercizio e magazzino, dove sono stati trovati molti cartoni pieni sia di Labubu imbustati che di scatole per il confezionamento, segno evidente che gli addetti al negozio provvedevano anche a creare i pacchetti sorpresa, diventati molto popolari proprio grazie alla loro distribuzione tramite blind box, ossia scatole a sorpresa, che hanno creato una vera e propria dipendenza dall’acquisto per i collezionisti di tutto il mondo. Tra gli esemplari sequestrati anche alcune copie più piccole di un modello, in teoria introvabile, venduto nel mese di giugno a un’asta di Pechino per 130.000 euro.
Soprattutto in questo caso la collocazione all’interno di un punto vendita regolare e inserito in un contesto commerciale di fiducia, unita alla cura nella realizzazione delle confezioni, avrebbe potuto facilmente indurre in errore i consumatori convinti di acquistare un prodotto ufficiale.
I sette titolari degli esercizi commerciali ispezionati e destinatari dei sequestri degli oltre 10.000 Labubu falsi che, se immessi sul mercato avrebbero potuto fruttare oltre 500.000 euro, sono stati denunciati all’Autorità Giudiziaria per vendita di prodotti recanti marchi contraffatti.
L’attività s’inquadra nel quotidiano contrasto delle Fiamme Gialle al dilagante fenomeno della contraffazione a tutela dei consumatori e delle aziende che si collocano sul mercato in maniera corretta e che, solo nell’ultimo anno, ha portato i Baschi Verdi del Gruppo P.I. di Palermo a denunciare 37 titolari di esercizi commerciali e a sequestrare oltre 500.000 articoli contraffatti, tra pelletteria, capi d’abbigliamento e profumi recanti marchi delle più note griffe italiane e internazionali.
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Stefano Arcifa
Parla il neopresidente dell’Aero Club d’Italia: «Il nostro Paese primeggia in deltaplano, aeromodellismo, paracadutismo e parapendio. Rivorrei i Giochi della gioventù dell’aria».
Per intervistare Stefano Arcifa, il nuovo presidente dell’Aero Club d’Italia (Aeci), bisogna «intercettarlo» come si fa con un velivolo che passa alto e veloce. Dalla sua ratifica da parte del governo, avvenuta alla fine dell’estate, è sempre in trasferta per restare vicino ai club, enti federati e aggregati, che riuniscono gli italiani che volano per passione.
Arcifa, che cos’è l’Aero Club d’Italia?
«È il più antico ente aeronautico italiano, il riferimento per l’aviazione sportiva e turistica italiana, al nostro interno abbracciamo tutte le anime di chi ha passione per ciò che vola, dall’aeromodellismo al paracadutismo, dagli ultraleggeri al parapendio e al deltaplano. Da noi si insegna l’arte del volo con un’attenzione particolare alla sicurezza e al rispetto delle regole».
Riccardo Molinari (Ansa)
Il capogruppo leghista alla Camera: «Stiamo preparando un pacchetto sicurezza bis: rafforzeremo la legittima difesa ed estenderemo la legge anti sgomberi anche alla seconda casa. I militari nelle strade vanno aumentati».
«Vi racconto le norme in arrivo sul comparto sicurezza, vogliamo la legittima difesa “rinforzata” e nuove regole contro le baby gang. L’esercito nelle strade? I soldati di presidio vanno aumentati, non ridotti. Landini? Non ha più argomenti: ridicolo scioperare sulla manovra».
Riccardo Molinari, capogruppo della Lega alla Camera, la Cgil proclama l’ennesimo sciopero generale per il 12 dicembre.
«Non sanno più di cosa parlare. Esaurito il filone di Gaza dopo la firma della tregua, si sono gettati sulla manovra. Ma non ha senso».






