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2022-02-28
Sfumature di uova
(IStock)
Secondo l’ultimo report Ismea disponibile, nel 2020 in Italia sono state deposte 12,6 miliardi di uova, prodotte da 41 milioni di galline ovaiole di oltre 2.600 allevamenti. Secondo i dati Anagrafe nazionale, nel 2020 il 49% dei capi in deposizione è allevato «a terra», il 42% in allevamenti con «gabbie arricchite», il 4% in allevamenti all’aperto e il 5% in allevamenti biologici. Sono meno del 10% i capi che passano parte della giornata all’aria aperta, circa 3 milioni e mezzo e di cui quasi 2 milioni certificati biologici. Cosa vuol dire allevamento bio? E gabbia arricchita? La gabbia arricchita, leggermente più capiente di quella convenzionale, è stata imposta dalla Direttiva comunitaria 74/1999 da noi attuata il 3 gennaio 2012. Ogni singolo uovo deve avere stampato un codice alfanumerico e la data di scadenza. Il primo numero che lo compone indica proprio il tipo di allevamento: 0 per le uova biologiche, 1 per l’allevamento all’aperto, 2 a terra, 3 in gabbia arricchita.
Dopo, due lettere indicano il paese dell’Unione Europea nel quale le uova sono state deposte (IT sta per Italia), poi il codice Istat del Comune di produzione e della provincia, infine il numero che identifica l’allevamento. Cosa vuol dire «0 uova biologiche»? Che le galline devono mangiare biologico e avere spazio: massimo 6 galline per metro quadrato all’interno, con limite massimo per allevamento di 3.000 galline, zona esterna obbligatoria, di 4 metri quadrati per gallina. E «1 all’aperto»? Al massimo 9 galline per metro quadrato, con spazio esterno, anche qui obbligatorio, di 4 metri quadrati per gallina senza limiti di numero di capi.
occhio ai metri quadrati
Nel codice 2 «allevamento a terra», abbiamo sempre 9 galline per metro quadrato ma senza spazio esterno né limite di capienza. Nell’allevamento «3 in gabbia», ora arricchita, le galline hanno 750 centimetri quadrati, poco più dei 550 delle vecchie gabbie, non c’è spazio esterno né limite di capienza. Questo codice è stampato solo sull’uovo, mentre sulla confezione non si vede: vi compaiono però frasi che indicano per esteso quanto esso sintetizza. Sulla confezione troviamo anche l’indicazione della categoria. Categoria A vuol dire guscio pulito e intatto, camera d’aria non superiore a 6 millimetri e 4 millimetri nella categoria Extra, albume pulito, nessun odore, né trattamenti di conservazione. Le uova che non hanno queste caratteristiche finiscono in categoria B, uova di seconda qualità o conservate. La categoria C è per le uova declassate e destinate all’industria alimentare.
Oggi tutto viene ripensato e, spesso, ricreato. Quando l’avvento della nuova versione riguarda il cibo, ci troviamo quasi sempre di fronte a neoalimenti che lasciano insoddisfatti e nostalgici della versione classica. Nel caso dell’uovo, pare accadere il contrario. L’uovo 2.0 si ribella al fatto che l’allevamento di galline abbia talvolta acquisito le caratteristiche proprie della concezione industriale e interviene su ogni aspetto: ricovero interno, spazio esterno, nutrizione. Il vegano è insoddisfatto ugualmente, perché l’allevamento virtuoso comunque concepisce l’animale come materiale produttivo in mano all’uomo. Tuttavia, in questo allevamento gentile si ritorna al rapporto che l’uomo intratteneva con l’animale nell’allevamento preindustriale. Seppure queste uova siano spesso brandite come status symbol in virtù del costo più alto dell’uovo di allevamento 3, la cosa che più conta è che veicolino l’idea che un nuovo uovo è possibile.
Il più noto produttore di nuovo uovo è Paolo Parisi. Nel podere Le Macchie di Usigliano di Lari (Pisa) 2.000 galline ovaiole pascolano in area recintata assumendo come fonte proteica il latte delle capre già allevate dall’azienda. Un «riciclo» che ha trasformato queste uova in leggendarie per chef e pasticceri per l’alto livello proteico del tuorlo che, montato, incamera tre volte più aria di un uovo canonico. Il packaging di Oliviero Toscani ha fatto il resto: l’ovale della testa di Paolo Parisi accanto a un uovo e lo slogan «Cerco il pelo nell’uovo», così come l’impressione della firma anche sul guscio, solletica l’idea dell’«uovo griffato» e del «superuovo». Altro uovo di ricerca è il Fantolino selezione chef di Davide Oldani, parte dei prodotti Foo’d e risultato della ricerca dell’«uovo ideale per dar vita alle migliori ricette dell’alta cucina», da galline alimentate con l’«antica formula» dell’azienda e seguendo le indicazioni dello chef. Altro ancora è Luovo dell’azienda agricola Il fiore delle Dolomiti di Belluno, Limana: le galline sono allevate secondo le 5 libertà fondamentali del Brambell Report del 1965, ovvero libertà dalla fame, dal dolore, dalle malattie, da paura e stress e di vivere in un ambiente adeguato e ascoltano musica classica.
le cinque regole
Le uova usate dagli Alajmo e dal panificatore brianzolo che ha rielevato il pane a prodotto pregiato Davide Longoni sono le uova di montagna di Valle San Felice sul lago di Garda, che vivono in 1 ettaro di bosco tra i castagni. L’uovo e la canapa (anche i nomi delle uova sono ricercati, ricordano quelli di quadri o romanzi) sono le uova abruzzesi di Silvia Bambagini Oliva e la madre Marisa Colitti, alimentate con mais, crusca e semi di canapa. Le uova del rapace di Beano di Codroipo aspirano a compiere «la rivoluzione della gallina», riportando il pollaio alla concezione del pollaio di casa con 250 «galline felici». Delle uova di selva parliamo sotto nell’intervista all’ideatore, che ha imposto un ritmo umano non solo all’allevamento, ma anche a esportazione e consegna.
Dal punto di vista nutrizionale, un’indagine della Regione Veneto pubblicata nel 2011 ha evidenziato come le uova provenienti da galline biologiche e/o allevate all’aperto presentano maggiori livelli di acidi grassi polinsaturi e omega 3 rispetto alle uova di allevamento a terra e in gabbia e le ha definite qualitativamente migliori. Si parla di decimali e mg, ma per molti, unito al pensiero che la gallina veda terra e sole, fa tanta differenza.
«I miei pennuti vivono nei boschi Non c’è uno spettacolo più bello»
In un bosco di castagni sopra Morbegno, a 600 metri di altitudine, 2.000 galline vivono in quasi completa libertà. Producono uova che hanno conquistato chef di livello (Cesare Battisti del Ratanà le prepara «alla milanese», Jean Marc Vezzoli le usa per impastare il panettone) e privati che le ricevono entro 24 ore dalla deposizione. A consegnarle - di persona - è Massimo Rapella, ideatore, con la moglie Elisabetta, delle uova di selva. La virtù dalla necessità: «Io e mia moglie abbiamo una laurea in scienze dell’educazione, siamo educatori, abbiamo aperto una comunità per minori nel 2005 e l’abbiamo gestita fino al 2012 come comunità residenziale», racconta Rapella alla Verità. «Con la crisi economica del 2008, il sociale è stata la prima ruota a saltare e come noi hanno chiuso tante piccole comunità. Avevamo già la selva, per passarci del tempo con i ragazzi perché la natura è uno spazio terapeutico, educativo di per sé. Dovevamo pagare il mutuo. Abbiamo osservato che le nostre quattro galline dal giardino andavano sempre nel bosco a razzolare».
Razzolare, ossia? «La gallina fa le buche nel terreno, scava con le zampe, becca. Il prato è piuttosto morbido, nel bosco sotto la terra ci sono le radici, sopra le foglie, è una zona viva. Cercando, ho scoperto che le galline attuali, le femmine del Gallus gallus domesticus, sono una sottospecie addomesticata derivante da specie selvatiche che in origine vivevano nelle foreste del Sudest asiatico. Il gallo forcello, della famiglia dei Phasianidae come il Gallus gallus, vive ancora selvatico nelle nostre montagne. Per la gallina, il bosco è un habitat in cui sta bene. Abbiamo provato a metterne 400, poi 700, adesso sono 2.000. La scommessa era: si comporteranno come quelle quattro?».
A quanto pare, la scommessa è stata vinta. E vedere (sul sito Uovodiselva.it) foto e video delle galline nella selva fa pensare a quanto la natura vera sia più bella di una pianta in vaso di polipropilene sul balcone di un grattacielo: «È la dimensione del bello», dice Rapella. «Le uova marroni o celesti sono belle, come lo è vedere le galline che le depongono in mezzo agli alberi. Valore non è solo avere l’uovo sano e la gallina felice, ma anche il bello, che ci salverà. Produrre cibo e trasformare cibo sono gesti che nutrono le persone. Gesti d’amore, come quello della mamma che allatta il bambino. Ma il gesto ha questo livello etico molto alto solo se autentico. Se produco cibo spazzatura per fare business o cucino tanto per cucinare, quel gesto perde di valore».
Proprio per preservare questo valore bisogna rispettare anche la selva e gli altri animali che la abitano: «Cerchiamo un certo equilibrio con la natura. Non ci interessa eliminare le volpi», dice il nostro allevatore. Che cerca, tra le altre cose, di preservare anche il pianeta: «Abbiamo detto fin dall’inizio che non volevamo dare le uova ai negozi ma portarle al consumatore finale. Niente imballaggi, non vogliamo sprecare un grammo di plastica o di cartone. Noi siamo partiti dal “buono, pulito e giusto” e per essere puliti non bisogna far finta di esserlo. Sovraccaricare le uova di pluriball e immettere tonnellate di CO2 per spedirle ovunque non avrebbe senso. Chilometro zero vuol dire tutto e niente, perché le cose prese vicino a casa possono non essere di qualità. Parlerei di cibo prossimo perché te lo porta il produttore. Il mio limite è 100 chilometri, la Brianza, Milano, Sondrio».
Si tratta di un approccio radicale che rimodella due paradigmi: quello del biologico come massima applicazione della naturalità all’allevamento contemporaneo e quello della produzione industriale come massima fornitrice di lavoro rispetto a quella artigianale: «Non abbiamo detto “Creiamo un nuovo prodotto biologico, questi sono gli standard bio, manteniamoci all’interno”. Abbiamo creato una vision, come si dice in inglese, e l’abbiamo realizzata: “La gallina deve stare fuori sempre, estate e inverno, pioggia e neve, e rientrare solo a dormire. No imballaggi, no CO2. E l’uovo lo consegniamo noi”. I limiti che ci siamo dati sono molto più restrittivi del biologico. La gallina sta fuori tutto il tempo della luce. A giugno apriamo un po’ prima delle 6 e rientrano alle 22, a dicembre dalle 7,30 alle 17. Nel bosco ci deve essere sempre una persona ogni 500 galline, poi bisogna andare a raccogliere le uova, sistemarle, prepararle, consegnarle».
L’allevamento ordinario non regge il confronto con questo: «Nell’allevamento a terra attualmente ci sono 9 galline per metro quadrato. In 10 metri quadrati di bosco io invece tengo una gallina. Il rapporto è 1 a 90». Proporzionalmente, in un tale allevamento lavorano più persone, perché le galline vanno seguite passo passo. E pensando all’addetto che le sorveglia nella selva viene in mente la figura del pastore: «È un rapporto con la natura molto viscerale», spiega Rapella.
Qui siamo esattamente nell’ambito della tradizione: fino a qualche decennio fa, il rapporto con la natura era questo, mentre nell’industria l’animale è spesso trattato come mera materia prima amorfa e inanimata: «Dobbiamo fare una riflessione più ampia. Si ha la tendenza a colpevolizzare i produttori, per esempio di prosciutto. Ci indigniamo perché i maialini vengono raccolti con le pale, con le ruspe e diciamo che queste cose non devono accadere. Senza però domandarci quanto prosciutto mangiamo a settimana. Se esiste questo sistema è perché noi lo accettiamo. Se vogliamo veramente parlare di benessere animale dobbiamo essere disposti a cambiare le nostre abitudini perché mangiamo troppa carne e vogliamo che i prodotti costino poco», racconta Rapella.
«Il mio uovo al pollaio», prosegue l’allevatore, «costa 70 centesimi e ha un prezzo di produzione di 50 centesimi, altissimo. Ci sono uova di allevamento 3, in gabbia, che già il rivenditore vende a pasticcerie e ristoranti a 12/13 centesimi, e ci si scandalizza di un uovo a 70 centesimi. Però ci sono vini in brick da 1 euro al litro e il Sassicaia ne costa 60. È sempre vino, però si accetta che il Sassicaia fatto in un certo modo costi di più. Per l’altro cibo, quando si supera il rapporto 1 a 2 o 1 a 3 si comincia a dire: “Beh, però, insomma...”».
Per forza di cose, quando si sceglie un approccio così netto bisogna anche affrontare le conseguenze. E sapere che la produzione sarà limitata. «Per preservare il benessere animale dobbiamo cambiare le nostre abitudini e spendere di più», commenta Rapella. «Non può essere tutto uovo di selva se mangiamo tutte queste uova. L’uovo di selva non andrà oltre le 2.000 galline. Tanti mi hanno chiesto, da altre regioni, di creare un franchising dell’allevamento nel bosco. Ma sarebbe come fare la Gioconda e poi farne altre due o tre. La Gioconda ha senso perché è unica. Va riscoperto il valore dell’unicità. L’uovo di selva sono le 2.000 galline che vivono sopra Morbegno nella valle del Bitto. Il resto sarà un’altra cosa».
La virtualità che ha sostituito la realtà ci ha disabituato anche alla fisicità, che invece dovremmo recuperare. Massimo non ama mostrare il suo volto, vuole che l’obiettivo sia fisso sulle galline, ma impiega completamente la sua persona: consegna a mano, diventa amico del cliente e accoglie volentieri il visitatore nella selva. Il suo è un approccio radicalmente slow: non è una produzione «lenta» che poi accelera e magari inquina al momento della distribuzione. E per ovviare al limite di consegna dei 100 chilometri si può fare un bel viaggetto verso l’allevamento: «Per provare l’emozione di un piatto di spaghetti devi mangiarli. Per provare l’emozione dell’uovo di selva devi venire nel bosco a raccoglierlo».
Continua a leggereRiduci
Sempre più numerose le varietà in commercio: di allevamento, a terra, in gabbie arricchite, biologiche. Attenzione ai codici riportati sui gusci. Si moltiplicano i produttori che lasciano le galline libere di razzolare: i prodotti ceduti ai grandi chef.Massimo Rapelli ha avviato un inedito esperimento in Valtellina: «Chilometro zero? No, conta la qualità. E io di strada ne faccio parecchia per effettuare le consegne di persona ai miei clienti».Lo speciale contiene due articoli.Secondo l’ultimo report Ismea disponibile, nel 2020 in Italia sono state deposte 12,6 miliardi di uova, prodotte da 41 milioni di galline ovaiole di oltre 2.600 allevamenti. Secondo i dati Anagrafe nazionale, nel 2020 il 49% dei capi in deposizione è allevato «a terra», il 42% in allevamenti con «gabbie arricchite», il 4% in allevamenti all’aperto e il 5% in allevamenti biologici. Sono meno del 10% i capi che passano parte della giornata all’aria aperta, circa 3 milioni e mezzo e di cui quasi 2 milioni certificati biologici. Cosa vuol dire allevamento bio? E gabbia arricchita? La gabbia arricchita, leggermente più capiente di quella convenzionale, è stata imposta dalla Direttiva comunitaria 74/1999 da noi attuata il 3 gennaio 2012. Ogni singolo uovo deve avere stampato un codice alfanumerico e la data di scadenza. Il primo numero che lo compone indica proprio il tipo di allevamento: 0 per le uova biologiche, 1 per l’allevamento all’aperto, 2 a terra, 3 in gabbia arricchita. Dopo, due lettere indicano il paese dell’Unione Europea nel quale le uova sono state deposte (IT sta per Italia), poi il codice Istat del Comune di produzione e della provincia, infine il numero che identifica l’allevamento. Cosa vuol dire «0 uova biologiche»? Che le galline devono mangiare biologico e avere spazio: massimo 6 galline per metro quadrato all’interno, con limite massimo per allevamento di 3.000 galline, zona esterna obbligatoria, di 4 metri quadrati per gallina. E «1 all’aperto»? Al massimo 9 galline per metro quadrato, con spazio esterno, anche qui obbligatorio, di 4 metri quadrati per gallina senza limiti di numero di capi. occhio ai metri quadratiNel codice 2 «allevamento a terra», abbiamo sempre 9 galline per metro quadrato ma senza spazio esterno né limite di capienza. Nell’allevamento «3 in gabbia», ora arricchita, le galline hanno 750 centimetri quadrati, poco più dei 550 delle vecchie gabbie, non c’è spazio esterno né limite di capienza. Questo codice è stampato solo sull’uovo, mentre sulla confezione non si vede: vi compaiono però frasi che indicano per esteso quanto esso sintetizza. Sulla confezione troviamo anche l’indicazione della categoria. Categoria A vuol dire guscio pulito e intatto, camera d’aria non superiore a 6 millimetri e 4 millimetri nella categoria Extra, albume pulito, nessun odore, né trattamenti di conservazione. Le uova che non hanno queste caratteristiche finiscono in categoria B, uova di seconda qualità o conservate. La categoria C è per le uova declassate e destinate all’industria alimentare. Oggi tutto viene ripensato e, spesso, ricreato. Quando l’avvento della nuova versione riguarda il cibo, ci troviamo quasi sempre di fronte a neoalimenti che lasciano insoddisfatti e nostalgici della versione classica. Nel caso dell’uovo, pare accadere il contrario. L’uovo 2.0 si ribella al fatto che l’allevamento di galline abbia talvolta acquisito le caratteristiche proprie della concezione industriale e interviene su ogni aspetto: ricovero interno, spazio esterno, nutrizione. Il vegano è insoddisfatto ugualmente, perché l’allevamento virtuoso comunque concepisce l’animale come materiale produttivo in mano all’uomo. Tuttavia, in questo allevamento gentile si ritorna al rapporto che l’uomo intratteneva con l’animale nell’allevamento preindustriale. Seppure queste uova siano spesso brandite come status symbol in virtù del costo più alto dell’uovo di allevamento 3, la cosa che più conta è che veicolino l’idea che un nuovo uovo è possibile. Il più noto produttore di nuovo uovo è Paolo Parisi. Nel podere Le Macchie di Usigliano di Lari (Pisa) 2.000 galline ovaiole pascolano in area recintata assumendo come fonte proteica il latte delle capre già allevate dall’azienda. Un «riciclo» che ha trasformato queste uova in leggendarie per chef e pasticceri per l’alto livello proteico del tuorlo che, montato, incamera tre volte più aria di un uovo canonico. Il packaging di Oliviero Toscani ha fatto il resto: l’ovale della testa di Paolo Parisi accanto a un uovo e lo slogan «Cerco il pelo nell’uovo», così come l’impressione della firma anche sul guscio, solletica l’idea dell’«uovo griffato» e del «superuovo». Altro uovo di ricerca è il Fantolino selezione chef di Davide Oldani, parte dei prodotti Foo’d e risultato della ricerca dell’«uovo ideale per dar vita alle migliori ricette dell’alta cucina», da galline alimentate con l’«antica formula» dell’azienda e seguendo le indicazioni dello chef. Altro ancora è Luovo dell’azienda agricola Il fiore delle Dolomiti di Belluno, Limana: le galline sono allevate secondo le 5 libertà fondamentali del Brambell Report del 1965, ovvero libertà dalla fame, dal dolore, dalle malattie, da paura e stress e di vivere in un ambiente adeguato e ascoltano musica classica. le cinque regoleLe uova usate dagli Alajmo e dal panificatore brianzolo che ha rielevato il pane a prodotto pregiato Davide Longoni sono le uova di montagna di Valle San Felice sul lago di Garda, che vivono in 1 ettaro di bosco tra i castagni. L’uovo e la canapa (anche i nomi delle uova sono ricercati, ricordano quelli di quadri o romanzi) sono le uova abruzzesi di Silvia Bambagini Oliva e la madre Marisa Colitti, alimentate con mais, crusca e semi di canapa. Le uova del rapace di Beano di Codroipo aspirano a compiere «la rivoluzione della gallina», riportando il pollaio alla concezione del pollaio di casa con 250 «galline felici». Delle uova di selva parliamo sotto nell’intervista all’ideatore, che ha imposto un ritmo umano non solo all’allevamento, ma anche a esportazione e consegna. Dal punto di vista nutrizionale, un’indagine della Regione Veneto pubblicata nel 2011 ha evidenziato come le uova provenienti da galline biologiche e/o allevate all’aperto presentano maggiori livelli di acidi grassi polinsaturi e omega 3 rispetto alle uova di allevamento a terra e in gabbia e le ha definite qualitativamente migliori. 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La virtù dalla necessità: «Io e mia moglie abbiamo una laurea in scienze dell’educazione, siamo educatori, abbiamo aperto una comunità per minori nel 2005 e l’abbiamo gestita fino al 2012 come comunità residenziale», racconta Rapella alla Verità. «Con la crisi economica del 2008, il sociale è stata la prima ruota a saltare e come noi hanno chiuso tante piccole comunità. Avevamo già la selva, per passarci del tempo con i ragazzi perché la natura è uno spazio terapeutico, educativo di per sé. Dovevamo pagare il mutuo. Abbiamo osservato che le nostre quattro galline dal giardino andavano sempre nel bosco a razzolare». Razzolare, ossia? «La gallina fa le buche nel terreno, scava con le zampe, becca. Il prato è piuttosto morbido, nel bosco sotto la terra ci sono le radici, sopra le foglie, è una zona viva. Cercando, ho scoperto che le galline attuali, le femmine del Gallus gallus domesticus, sono una sottospecie addomesticata derivante da specie selvatiche che in origine vivevano nelle foreste del Sudest asiatico. Il gallo forcello, della famiglia dei Phasianidae come il Gallus gallus, vive ancora selvatico nelle nostre montagne. Per la gallina, il bosco è un habitat in cui sta bene. Abbiamo provato a metterne 400, poi 700, adesso sono 2.000. La scommessa era: si comporteranno come quelle quattro?». A quanto pare, la scommessa è stata vinta. E vedere (sul sito Uovodiselva.it) foto e video delle galline nella selva fa pensare a quanto la natura vera sia più bella di una pianta in vaso di polipropilene sul balcone di un grattacielo: «È la dimensione del bello», dice Rapella. «Le uova marroni o celesti sono belle, come lo è vedere le galline che le depongono in mezzo agli alberi. Valore non è solo avere l’uovo sano e la gallina felice, ma anche il bello, che ci salverà. Produrre cibo e trasformare cibo sono gesti che nutrono le persone. Gesti d’amore, come quello della mamma che allatta il bambino. Ma il gesto ha questo livello etico molto alto solo se autentico. Se produco cibo spazzatura per fare business o cucino tanto per cucinare, quel gesto perde di valore». Proprio per preservare questo valore bisogna rispettare anche la selva e gli altri animali che la abitano: «Cerchiamo un certo equilibrio con la natura. Non ci interessa eliminare le volpi», dice il nostro allevatore. Che cerca, tra le altre cose, di preservare anche il pianeta: «Abbiamo detto fin dall’inizio che non volevamo dare le uova ai negozi ma portarle al consumatore finale. Niente imballaggi, non vogliamo sprecare un grammo di plastica o di cartone. Noi siamo partiti dal “buono, pulito e giusto” e per essere puliti non bisogna far finta di esserlo. Sovraccaricare le uova di pluriball e immettere tonnellate di CO2 per spedirle ovunque non avrebbe senso. Chilometro zero vuol dire tutto e niente, perché le cose prese vicino a casa possono non essere di qualità. Parlerei di cibo prossimo perché te lo porta il produttore. Il mio limite è 100 chilometri, la Brianza, Milano, Sondrio». Si tratta di un approccio radicale che rimodella due paradigmi: quello del biologico come massima applicazione della naturalità all’allevamento contemporaneo e quello della produzione industriale come massima fornitrice di lavoro rispetto a quella artigianale: «Non abbiamo detto “Creiamo un nuovo prodotto biologico, questi sono gli standard bio, manteniamoci all’interno”. Abbiamo creato una vision, come si dice in inglese, e l’abbiamo realizzata: “La gallina deve stare fuori sempre, estate e inverno, pioggia e neve, e rientrare solo a dormire. No imballaggi, no CO2. E l’uovo lo consegniamo noi”. I limiti che ci siamo dati sono molto più restrittivi del biologico. La gallina sta fuori tutto il tempo della luce. A giugno apriamo un po’ prima delle 6 e rientrano alle 22, a dicembre dalle 7,30 alle 17. Nel bosco ci deve essere sempre una persona ogni 500 galline, poi bisogna andare a raccogliere le uova, sistemarle, prepararle, consegnarle». L’allevamento ordinario non regge il confronto con questo: «Nell’allevamento a terra attualmente ci sono 9 galline per metro quadrato. In 10 metri quadrati di bosco io invece tengo una gallina. Il rapporto è 1 a 90». Proporzionalmente, in un tale allevamento lavorano più persone, perché le galline vanno seguite passo passo. E pensando all’addetto che le sorveglia nella selva viene in mente la figura del pastore: «È un rapporto con la natura molto viscerale», spiega Rapella. Qui siamo esattamente nell’ambito della tradizione: fino a qualche decennio fa, il rapporto con la natura era questo, mentre nell’industria l’animale è spesso trattato come mera materia prima amorfa e inanimata: «Dobbiamo fare una riflessione più ampia. Si ha la tendenza a colpevolizzare i produttori, per esempio di prosciutto. Ci indigniamo perché i maialini vengono raccolti con le pale, con le ruspe e diciamo che queste cose non devono accadere. Senza però domandarci quanto prosciutto mangiamo a settimana. Se esiste questo sistema è perché noi lo accettiamo. Se vogliamo veramente parlare di benessere animale dobbiamo essere disposti a cambiare le nostre abitudini perché mangiamo troppa carne e vogliamo che i prodotti costino poco», racconta Rapella. «Il mio uovo al pollaio», prosegue l’allevatore, «costa 70 centesimi e ha un prezzo di produzione di 50 centesimi, altissimo. Ci sono uova di allevamento 3, in gabbia, che già il rivenditore vende a pasticcerie e ristoranti a 12/13 centesimi, e ci si scandalizza di un uovo a 70 centesimi. Però ci sono vini in brick da 1 euro al litro e il Sassicaia ne costa 60. È sempre vino, però si accetta che il Sassicaia fatto in un certo modo costi di più. Per l’altro cibo, quando si supera il rapporto 1 a 2 o 1 a 3 si comincia a dire: “Beh, però, insomma...”». Per forza di cose, quando si sceglie un approccio così netto bisogna anche affrontare le conseguenze. E sapere che la produzione sarà limitata. «Per preservare il benessere animale dobbiamo cambiare le nostre abitudini e spendere di più», commenta Rapella. «Non può essere tutto uovo di selva se mangiamo tutte queste uova. L’uovo di selva non andrà oltre le 2.000 galline. Tanti mi hanno chiesto, da altre regioni, di creare un franchising dell’allevamento nel bosco. Ma sarebbe come fare la Gioconda e poi farne altre due o tre. La Gioconda ha senso perché è unica. Va riscoperto il valore dell’unicità. L’uovo di selva sono le 2.000 galline che vivono sopra Morbegno nella valle del Bitto. Il resto sarà un’altra cosa». La virtualità che ha sostituito la realtà ci ha disabituato anche alla fisicità, che invece dovremmo recuperare. Massimo non ama mostrare il suo volto, vuole che l’obiettivo sia fisso sulle galline, ma impiega completamente la sua persona: consegna a mano, diventa amico del cliente e accoglie volentieri il visitatore nella selva. Il suo è un approccio radicalmente slow: non è una produzione «lenta» che poi accelera e magari inquina al momento della distribuzione. E per ovviare al limite di consegna dei 100 chilometri si può fare un bel viaggetto verso l’allevamento: «Per provare l’emozione di un piatto di spaghetti devi mangiarli. Per provare l’emozione dell’uovo di selva devi venire nel bosco a raccoglierlo».
Lee Raybon avrebbe ambizioni da detective. Non da investigatore tout court. Piuttosto, vorrebbe essere un reporter, di quelli capaci - forti solo delle proprie risorse - di portare a termine indagini e inchieste, di dar forma alle notizie prima ancora che queste vengano diffuse dalle autorità competenti.
L'ambizione, tuttavia, è rimasta tale, nel corso di un'esistenza che ha costretto Raybon a ripiegare su altro per il mero sostentamento. Si è reinventato libraio, Lee Raybon, gestendo di giorno un negozio di libri rari. La notte, però, ha continuato a seguire il cuore, dando spazio alle sue indagini scalcagnate. Qualcuna è riuscito a trasformarla in articolo di giornale, venendola alle pagine di cronaca locale di Tulsa, città che ospita il racconto. E sono i pezzi ritagliati, insieme ai libri ormai giallognoli, ad affollare l'apportamento di Raybon, che la moglie ha mollato su due piedi, quando ben ha realizzato che non ci sarebbe stato spazio per altro nella vita di quell'uomo. Raybon, dunque, è rimasto solo. Non solo come il crime, per lo più, ha raccontato i suoi detective. Non è, cioè, una solitudine disperata, quella di Raybon. Non c'è tristezza né emarginazione. C'è passione, invece: quella per un mestiere cui anche la figlia dell'uomo sembra guardare con grande interesse.
Francis, benché quattordicenne, ha sviluppato per il secondo mestiere del padre una curiosità quasi morbosa, in nome della quale ha cominciato a seguirlo in ogni dove, partecipando lei pure alle indagini. Cosa, questa, che si ostina a fare anche quando la situazione diventa insolitamente complicata. Lee Raybon ha messo nel mirino i Washberg, una tra le famiglie più potenti di Tulsa. Ma uno di loro, Dale, si è tolto la vita, quando l'articolo di Raybon sulle faccende losche della dinastia è stato pubblicato su carta. Perché, però? Quali segreti nascondo i Washberg? Le domande muovono la nuova indagine di Raybon, la sostanziano. E, attorno alla ricerca di risposte, si dipana The Lowdon, riuscendo a bilanciare l'irrequietezza del suo protagonista, il suo cinismo, con il racconto di una dinamica familiare di solito estranea al genere crime.
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Secondo i calcoli di Facile.it, il 2025 si chiuderà con un calo di circa 50 euro per la rata mensile di un mutuo variabile standard, scesa da 666 euro di inizio anno a circa 617 euro. Un movimento coerente con il progressivo rientro delle componenti di costo indicizzate (Euribor) e con l’aspettativa di stabilizzazione di breve periodo.
Sul versante dei mutui a tasso fisso, il 2025 è stato invece caratterizzato da un lieve aumento dei costi per i nuovi mutuatari, in larga parte legato alla risalita dell’indice IRS (il riferimento tipico per i fissi). A gennaio 2025 l’IRS a 25 anni è stato in media pari a 2,4%; nell’ultimo mese è arrivato al 3,1%. L’effetto, almeno parziale, si è trasferito sulle nuove offerte: per un finanziamento standard la rata risulta oggi più alta di circa 40 euro rispetto a inizio anno.
«Il 2025 è stato un anno positivo sul fronte dei tassi dei mutui: i variabili sono scesi a seguito dei tagli della Bce, mentre i fissi, seppur in lieve aumento, offrono comunque buone condizioni per chi vuole tutelarsi da possibili futuri aumenti di rata. Oggi, quindi, l’aspirante mutuatario può godere di un’ampia offerta di soluzioni: scegliere il tasso variabile significa partire con una rata più contenuta, ma il vantaggio economico iniziale può essere ritenuto da molti ancora non sufficiente per giustificare il rischio connesso a questo tipo di finanziamento. Per chi non è disposto a rischiare, invece, i fissi garantiscono comunque condizioni favorevoli, oltre alla certezza che la rata resti uguale per tutte la durata del mutuo. Non esiste in assoluto una soluzione giusta o sbagliata, la scelta va presa da ciascun richiedente secondo le proprie caratteristiche; un consulente esperto può essere d’aiuto per valutare pregi e difetti di ciascuna proposta e identificare quella più adatta», spiegano gli esperti di Facile.it
Guardando in avanti, un’indicazione operativa sui variabili arriva dai Futures sugli Euribor (aggiornati al 10 dicembre 2025): per il 2026 non vengono prezzate grandi variazioni. L’Euribor a 3 mesi, oggi sotto il 2,1%, è atteso su livelli simili anche nel prossimo anno.
«In questo momento il mercato non prevede ulteriori tagli da parte della BCE nel 2026 e al netto di qualche piccola oscillazione al rialzo verso fine anno, nei prossimi 12 mesi le rate dovrebbero rimanere tendenzialmente stabili», continuano gli esperti di Facile.it
Lo snodo resta l’inflazione: se dovesse tornare ad accelerare, non si potrebbero escludere nuove mosse restrittive della Bce, con un impatto immediato sugli indici e quindi sulle rate dei variabili. Più difficile, invece, «leggere» i fissi: finché i rendimenti dei titoli europei resteranno in salita, è complicato immaginare una traiettoria diversa per gli Irs e, a cascata, per i mutui collegati.
Per chi deve scegliere adesso, lo scenario è nettamente diverso rispetto a inizio anno. Nel 2025, il tasso variabile è tornato mediamente più conveniente. Secondo l’analisi** di Facile.it sulle migliori offerte online, per un mutuo da 126.000 euro in 25 anni (LTV 70%) i variabili partono da un TAN del 2,54%, con rata di 554,5 euro. A parità di profilo, i fissi partono da un TAN del 3,10%, con rata di 604 euro: circa 50 euro in più al mese.
«Scegliere oggi un tasso variabile significa partire con una rata più contenuta, ma il vantaggio economico iniziale può essere ritenuto da molti ancora non sufficiente per giustificare il rischio connesso a questo tipo di finanziamento. Per chi non è disposto a rischiare, invece, i fissi garantiscono comunque condizioni favorevoli, oltre alla certezza che la rata resti uguale per tutte la durata del mutuo. Non esiste in assoluto una soluzione giusta o sbagliata, la scelta va presa da ciascun richiedente secondo le proprie caratteristiche; un consulente esperto può essere d’aiuto per valutare pregi e difetti di ciascuna proposta e identificare quella più adatta», concludono gli esperti di Facile.it.
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Brahim Diaz esulta dopo aver segnato un gol durante la partita inaugurale della 35ª Coppa d'Africa tra Marocco e Comore allo stadio Prince Moulay Abdellah di Rabat (Getty Images)
Serve a spostare l’immaginario: non più periferia, non più frontiera, ma piattaforma. Il governo marocchino non lo nasconde. «La Coppa d’Africa è una prova generale per il Mondiale 2030 e un simbolo della nostra capacità di organizzare eventi globali con standard elevati», ha dichiarato recentemente un portavoce del governo di Rabat, sottolineando l’utilizzo dello sport come leva di soft power e di consolidamento di immagine internazionale. Il re Mohammed VI ha insistito pubblicamente sul ruolo dello sport come strumento di dialogo e cooperazione regionale, definendo iniziative come Afcon e il Mondiale 2030 parte integrante della «strategia marocchina di apertura e modernizzazione». Questa visione è stata ripresa anche dai media di Stato come elemento di legittimazione politica e di promozione dell’identità nazionale. I numeri aiutano a capire la traiettoria. Il Marocco conta oggi circa 37 milioni di abitanti e una crescita demografica relativamente contenuta dell’1 per cento annuo circa, molto più bassa rispetto a molte economie subsahariane.
Questo rallentamento demografico consente una pianificazione a medio-lungo termine più sostenibile. Sul piano economico, il pil ha superato i 140 miliardi di dollari nel 2023, con un pil pro capite attorno ai 3.700 dollari, superiore a molti Paesi dell’Africa subsahariana e stabile negli ultimi anni. Il calcio entra qui. La Coppa d’Africa diventa una vetrina perché cade in un momento preciso. Il Paese è nel pieno di un ciclo di investimenti pubblici legati a grandi eventi. Strade, aeroporti, linee ferroviarie ad alta velocità, stadi. Secondo stime ufficiali, tra infrastrutture sportive e opere collegate il Marocco ha messo sul piatto investimenti nell’ordine di oltre 21 miliardi di dirham — quasi 2 miliardi di euro — per modernizzare stadi e città in vista di Afcon 2025 e del Mondiale 2030. Questa spinta è percepita anche a livello diplomatico.
Nel corso degli ultimi anni Rabat ha promosso nuove alleanze economiche in Africa occidentale, con piani di investimento in energia, telecomunicazioni e infrastrutture. La Coppa d’Africa è intesa come un elemento di “soft power” che attraversa i confini: non solo uno spettacolo sportivo, ma un’occasione per creare reti di relazioni, far visita a delegazioni internazionali e mostrare un’immagine di stabilità e apertura. Il messaggio è rivolto prima di tutto al continente africano. Il Marocco si propone come modello alternativo: africano per storia e geografia, ma sempre più occidentale per governance, modelli economici e partner strategici. “Lo sport è parte integrante della nostra politica estera e interna”, ha detto un consigliere politico marocchino parlando della Coppa d’Africa come di un evento che rafforza l’influenza regionale di Rabat. La Coppa d’Africa serve anche a rafforzare una narrativa interna. Il Paese viene da anni di riforme graduali, non sempre popolari, tra cui la promozione di miglioramenti nei servizi pubblici. Il consenso passa anche dalla capacità di offrire orgoglio nazionale e visibilità internazionale.
Dopo il quarto posto al Mondiale 2022, la nazionale è diventata un moltiplicatore emotivo, un simbolo di successo collettivo. Ma non mancano le critiche. In un anno segnato da proteste giovanili e richieste di maggiori investimenti in sanità ed educazione, alcuni osservatori ricordano che infrastrutture sportive e servizi sociali competono per risorse limitate. «Vogliamo ospedali, non stadi» è stato lo slogan di manifestazioni che hanno investito diverse città marocchine nei mesi scorsi, sottolineando il rischio di disallineamento tra spesa per eventi e bisogni sociali. Nel contesto internazionale il torneo assume un ulteriore significato. La Coppa d’Africa 2025 arriva pochi anni prima del Mondiale 2030, che il Marocco ospiterà insieme a Spagna e Portogallo. Non come semplice partecipante, ma come Paese co-organizzatore, una delle prime volte che un Paese africano riveste questo ruolo congiunto nel calcio globale. Il Marocco conta di vincere la Coppa D'Africa. Il risultato sportivo conterà. Ma conterà meno del messaggio lasciato. Rabat vuole usare il calcio per ribadire che il centro può spostarsi, che l’Africa non è solo luogo di risorse e problemi, ma anche piattaforma, regia e snodo geopolitico. E nel 2030, quando il mondo guarderà lo stesso pallone rimbalzare tra Europa e Africa, quella storia sarà già stata scritta.
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Chen Zhi
Dall’immobiliare al fintech, fino al cuore delle truffe online: a 37 anni il fondatore del Prince Group è accusato da Stati Uniti e Regno Unito di aver costruito dalla Cambogia un impero criminale basato su frodi digitali, riciclaggio e sfruttamento di manodopera. Tra cittadinanze comprate, rapporti con il potere politico e miliardi congelati in criptovalute, il ritratto di un magnate oggi scomparso dai radar.
A trentasette anni appena compiuti, Chen Zhi viene indicato dagli inquirenti come l’architetto occulto di una gigantesca macchina di frodi digitali, descritta come un sistema criminale costruito sullo sfruttamento sistematico delle vittime. L’aspetto giovanile, il volto quasi infantile e la barba curata contrastano con l’immagine dell’uomo che, in pochissimo tempo, avrebbe accumulato una ricchezza smisurata. Nell’ottobre scorso il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti lo ha formalmente incriminato, accusandolo di aver orchestrato dalla Cambogia un colossale schema di truffe in criptovalute, capace di sottrarre miliardi di dollari a persone sparse in tutto il mondo. Parallelamente, il Dipartimento del Tesoro americano ha annunciato il sequestro di circa 14 miliardi di dollari in bitcoin riconducibili, secondo le autorità, alla sua rete: il più imponente congelamento di asset digitali mai registrato. Sul sito ufficiale del suo conglomerato, la Cambodian Prince Group, Chen Zhi viene presentato come un imprenditore rispettato e un benefattore di primo piano, capace di trasformare l’azienda in uno dei gruppi più influenti del Paese, allineato – si legge – ai parametri internazionali. Interpellata per un commento, la società non ha rilasciato dichiarazioni. Resta dunque aperta la domanda centrale: chi è davvero Chen Zhi, l’uomo che secondo le accuse avrebbe costruito un impero fondato sulle truffe online?
Originario della provincia cinese del Fujian, nella parte sud-orientale del Paese, Chen Zhi avrebbe mosso i primi passi imprenditoriali nel settore dei giochi online, con risultati tutt’altro che eclatanti. Tra il 2010 e il 2011 si trasferì in Cambogia, inserendosi in un mercato immobiliare allora in piena ebollizione. Il suo arrivo coincise con l’esplosione di una bolla speculativa alimentata dall’afflusso di capitali cinesi e dalla disponibilità di ampie porzioni di territorio sottratte alle comunità locali e finite nelle mani di figure politicamente ben introdotte. Una parte consistente di quei fondi derivava dall’espansione internazionale dei progetti infrastrutturali cinesi legati alla Belt and Road Initiative, mentre altri capitali provenivano da investitori privati alla ricerca di sbocchi meno costosi rispetto al mercato immobiliare cinese, ormai surriscaldato. A questo si aggiunse l’aumento vertiginoso del turismo proveniente dalla Cina.
Phnom Penh cambiò volto in pochi anni: il profilo urbano, un tempo dominato da edifici coloniali bassi e color ocra, lasciò spazio a una distesa di torri in vetro e acciaio. Ancora più drastica fu la metamorfosi di Sihanoukville, ex località balneare tranquilla, trasformata in un polo di casinò, hotel di lusso e complessi residenziali. Qui confluirono non solo turisti e investitori, ma anche giocatori d’azzardo, spinti dal divieto di gioco vigente in Cina. In questo contesto, la rapida ascesa di Chen Zhi apparve fuori scala. Nel 2014 ottenne la cittadinanza cambogiana, rinunciando a quella cinese, un passaggio che gli consentì di intestarsi direttamente terreni e proprietà, a fronte di un contributo minimo di 250 mila dollari allo Stato. L’origine dei suoi capitali rimase però opaca. Nel 2019, aprendo un conto bancario sull’Isola di Man, dichiarò di aver ricevuto due milioni di dollari da uno zio non meglio identificato per avviare la sua prima operazione immobiliare. Nessuna prova documentale è mai emersa a sostegno di questa versione.
Il Prince Group nacque ufficialmente nel 2015, quando Chen Zhi aveva soltanto 27 anni, con un focus iniziale sul real estate. Tre anni dopo ottenne una licenza bancaria per creare la Prince Bank. Nello stesso periodo acquisì la cittadinanza cipriota, in cambio di un investimento di almeno 2,5 milioni di dollari, aprendo così le porte dell’Unione Europea. Successivamente ottenne anche il passaporto di Vanuatu. Nel giro di pochi anni il gruppo si espanse in settori sempre più diversi: compagnie aeree, centri commerciali di fascia alta, hotel a cinque stelle e progetti faraonici come la cosiddetta “Baia delle Luci”, una eco-città dal valore stimato di 16 miliardi di dollari. Nel 2020 Chen Zhi ha ricevuto dal sovrano cambogiano il titolo onorifico di “Neak Oknha”, il più elevato riconoscimento del Paese, riservato a chi effettua donazioni significative al governo.
In quella fase, ha consolidato relazioni politiche di altissimo livello: consigliere del ministro dell’Interno Sar Kheng, partner d’affari del figlio Sar Sokha, e collaboratore diretto di Hun Sen e, successivamente, di Hun Manet dopo la sua ascesa alla guida del governo nel 2023. I media locali lo hanno celebrato come mecenate, lodando il finanziamento di borse di studio e le donazioni durante l’emergenza Covid. Nonostante ciò, Chen Zhi è rimasto una figura schiva, poco incline alle apparizioni pubbliche. Secondo il giornalista Jack Adamovic Davies, autore di una lunga inchiesta su di lui, chi lo ha incontrato lo descrive come una persona pacata, educata e capace di esercitare un’autorità silenziosa. Una discrezione che, col senno di poi, potrebbe aver contribuito a schermarlo da attenzioni indesiderate. Il punto di svolta arriva nel 2019, con il crollo della bolla immobiliare a Sihanoukville. Il settore del gioco d’azzardo online attirò organizzazioni criminali cinesi, scatenando violenti conflitti tra bande e allontanando i turisti. Sotto la pressione di Pechino, il governo cambogiano vietò il gioco online nell’agosto di quell’anno. Centinaia di migliaia di cittadini cinesi lasciarono la città, e interi complessi residenziali rimasero vuoti. Eppure, nonostante il tracollo, Chen Zhi ha continuato ad comprare beni di lusso e a espandere il proprio raggio d’azione. Secondo le autorità occidentali, avrebbe investito decine di milioni in immobili a Londra, New York, jet privati, yacht e opere d’arte, tra cui un dipinto attribuito a Picasso.
Per Stati Uniti e Regno Unito, l’origine di questa ricchezza risiede nell’industria criminale più redditizia dell’Asia contemporanea: la frode online, alimentata da traffico di esseri umani e sofisticati sistemi di riciclaggio. Le sanzioni imposte colpiscono oltre cento società e numerosi individui legati al Prince Group, descrivendo una rete globale di società di comodo e portafogli digitali usati per occultare i flussi finanziari. Al centro delle accuse figurano complessi come il Golden Fortune Science and Technology Park, vicino al confine vietnamita, dove – secondo testimonianze raccolte – lavoratori provenienti da diversi Paesi sarebbero stati trattenuti con la forza e costretti a perpetrare truffe informatiche. Oggi, dopo l’annuncio delle sanzioni, banche e governi regionali prendono le distanze dal gruppo. Le autorità cambogiane cercano di rassicurare i risparmiatori, mentre Singapore e Thailandia avviano verifiche sulle attività locali. Resta però difficile immaginare un netto distacco dell’élite di Phnom Penh da un uomo con cui i legami sono stati così stretti per anni. Di Chen Zhi, intanto, si sono perse le tracce. L’uomo che fino a poco tempo fa figurava tra i più influenti del Paese sembra essersi dissolto, lasciando dietro di sé un intreccio di potere, denaro e accuse che ora scuote l’intera Cambogia.
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