2025-03-04
Serra si reinventa caudillo snob dell’europeismo Ztl
Michele Serra (Imagoeconomica)
L’editorialista organizza svogliatamente un raduno pro Ue che aggrega intellò e calendiani pronti a lavarsi la coscienza.Tra i tanti a disposizione avrebbero potuto scegliere Lucio Caracciolo, che sulle pagine di Repubblica non è certo un ospite di passaggio e di politica internazionale un poco ne mastica. Oppure Massimo Cacciari, che con Geofilosofia dell’Europa ha offerto una preziosa bussola per i nostri tempi confusi. Avrebbero potuto ascoltare questi consiglieri, e farsi spiegare dove li avrebbe trascinati l’anacronistica retorica atlantista sull’Ucraina (cioè alla terra desolata in cui ci troviamo ora). Invece hanno preferito aggrapparsi a Michele Serra, cioè alla narrazione ben scritta ma poco concreta e alla morale borghese con cui le grande potenze globali solitamente incartano il pesce. E dire che Serra non è mai stato un capopopolo, un aizzatore di folle. Se n’è stato per anni in disparte, accomodato sulla sua amaca pensosa a incarnare una sinistra più antropologica che politica, sospesa sul filo che unisce il surrealismo di Antonio Albanese alle ginocchiere felpate di Fabio Fazio (di cui il caro Michele è stato creatore e poi sodale). Una sinistra assolutamente convinta della propria superiorità morale ma gravata di qualche senso di colpa al momento di esibirla.No, nel ruolo di ideologo Serra non ce lo vediamo proprio, se non altro perché - sopra le pattine dell’apparente buon senso progressista - gli abbiamo sempre visto indossare le scarpe da tennis del battitore libero. Eppure eccolo lì, a farsi celebrare sulla prima pagina di Repubblica da Corrado Augias che lo ha scambiato per Giuseppe Garibaldi. Va detto che Michele, stavolta, ci ha messo del suo. Qualche giorno fa ha lanciato l’idea di organizzare «una grande manifestazione di cittadini per l’Europa, la sua unità e la sua libertà. Con zero bandiere di partito, solo bandiere europee. Qualcosa che dica, con la sintesi a volte implacabile degli slogan: “Qui o si fa l’Europa o si muore”. Nella sua configurazione ideale, lo stesso giorno alla stessa ora in tutte le capitali europee. Nella sua proiezione più domestica e abbordabile, a Roma e/o Milano, sperando in un contagio continentale».Certo, il tono era quello consueto: vagamente insicuro, dubitativo, foderato di modestia forse più affettata che reale. «Io non ho idea di come si organizzi una manifestazione. Non è il mio mestiere. Non ho neanche, a differenza delle Sardine, cultura e destrezza social quante ne servono per rendere veloce e pervasiva la convocazione di un evento», ha scritto. «Ma penso che una manifestazione di sole bandiere europee, che abbia come unico obiettivo (non importa quanto alla portata: conta la visione, conta il valore) la libertà e l’unità dei popoli europei, avrebbe un significato profondo e rasserenante per chi la fa, e si sentirebbe meno solo e meno impotente di fronte agli eventi. E sarebbe un segnale non trascurabile, forse addirittura un segnale importante, per chi poi maneggia le agende politiche; e non potrebbe ignorare che in campo c’è anche un’identità europea “dal basso”, un progetto politico innovativo e rivoluzionario che non si rivolge al passato, ma parla del domani. Parla dei figli e dei nipoti».Commovente: parole ben pesate, la giusta carica emotiva, una fettina di cuore ma senza eccedere, l’immancabile richiamo al popolo dei buoni e dei giusti che, pur riluttanti, scelgono di adempiere al ruolo che la Storia ha studiato per loro. Del resto che l’uomo sappia scrivere è piuttosto noto. Ed è anche il motivo per cui Michele sta dove sta, meritatamente. I settant’anni compiuti lo scorso luglio non glieli daresti, perché la sua penna ha mantenuto una freschezza sapida. La maturità gli ha tuttavia richiesto un sacrificio: per diventare l’anima di Repubblica ha dovuto rinunciare alla cattiveria esilarante che ne aveva segnato gli scoppiettanti esordi. All’Unità, negli anni Ottanta, si era imposto come un Fortebraccio della Milano da bere: perfido alla bisogna, ma non violento come l’illustre corsivista predecessore. Appuntito, ma con una lama tenera come dopo tutto si addiceva ai tempi del riflusso: meno ideologico, più privato. Era la firma di cui i progressisti avevano bisogno per avvicinarsi al nuovo millennio e giustificare a sé stessi la fine del comunismo e la lievitazione dei conti in banca.Serra è così, una sorta di emblema, un tipo umano più che un autore: la figura del passaggio da Pci a Pds, un raggio di luce nelle Botteghe Oscure. In qualche modo, il politico che più gli si avvicina è Walter Veltroni, che pure aveva blandamente contestato quando divenne direttore dell’Unità nei primissimi anni Novanta (tutto si ricompose quando a Michele fu affidata una robusta finestra in prima pagina). Una punta di comodità occidentale fatta germogliare nel terriccio umido del postcomunismo.Il meglio di sé, il nostro, lo ha offerto prima sulle pagine di Tango, inserto satirico del quotidiano comunista curato del memorabile Sergio Staino, e poi su Cuore, di cui fu ottimo direttore. In pochi anni sfoderò titoli che altri non saprebbero mettere insieme in secoli di carriera. Tuttavia già lì si poteva intuire il registro più zuccheroso, il sottofondo di peluche. Cuore non fu brutale come la satira francese, non fu spietato come il Male e nemmeno altrettanto inclassificabile. Era, con tutti i pregi che ha avuto, l’anticamera della satira di sinistra all’italiana: brillante sì, colta pure, intelligente ci mancherebbe, ma con il culo al caldo, il partito alle spalle, il segretario magari un po’ scocciato ma compiacente.Con questo pedigree, Michele non poteva non finire a Repubblica, dove dai primi anni Duemila srotola quotidianamente la sua «Amaca». Non in prima pagina, ma in mezzo al giornale, a darsi arie da marginale, da inquilino in prestito: uno che condivide la linea ma se ne sta in salotto a godersi l’autonomia residua. Nel frattempo, Serra ha frequentato la televisione, ha scritto libri di discreto e buon successo (tra gli ultimi Gli sdraiati, divenuto anche un film). È diventato uno Stefano Benni appena più patinato, il maglioncino di cachemire democratico lo ha protetto dai malanni e dalle tempeste della politica. Ha continuato a fare il borghese di sinistra, dal 2012 coltiva lavanda, elicriso e iris assieme alla moglie Giovanna Zucconi (anche lei baciata dalla luce delle telecamere in vari programmi molto intelligenti e molto progressisti) e l’aria da gentiluomo in fondo gli si addice. È un liberal come ormai se ne fanno pochi, è «la meglio gioventù» invecchiata in un lampo, sul grande schermo potrebbero interpretarlo Claudio Bisio o Luigi Lo Cascio, a seconda che si voglia privilegiarne il lato comico o quello più impegnato, ma sempre con un retrogusto di poesia (non troppo difficile a leggersi, però).Alla fine, la manifestazione pro Ue un po’ lo rispecchia: l’ha convocata senza convocarla, l’ha evocata senza spendersi troppo, e sulla base di una piattaforma che non esiste. Quali siano le libertà e i valori europei che dovrebbe sostenere non è ben chiaro, ma in fondo non c’è bisogno di esplicitarli, perché non è quello il punto. Il vero motivo per cui i lettori di Serra si fanno trascinare in corteo non è certo la difesa di questo o quel programma. Semmai è, ancora una volta, una istanza esistenziale: loro, i borghesi di sinistra, vogliono dimostrare al proprio specchio prima che al mondo di essere ancora vivi, ancora capaci di sognare. Il socialismo del loro passato è morto da anni, hanno costruito un presente in cui non si trovano a proprio agio, il futuro non riescono a vederlo perché l’immaginazione è occupata dai progetti per rinfrescare la casa di campagna. E allora, nel dubbio profondo, provano a ritrovarsi in piazza nella malinconica speranza di riconquistare il senso che hanno perduto tra un elogio di Chiara Ferragni e un buffetto a Gianfranco Fini.In realtà estranei al wokismo e al radicalismo, anzi radicalmente conservatori (dei loro privilegi in esaurimento), hanno digerito gli asterischi e le apocalissi climatiche, tanto il termostato in salotto favoriva sempre un tepore confortevole. Ora sono spaesati, e cercano l’identità che si sono distrutti da soli appellandosi a sentimenti evanescenti. Nulla di particolarmente drammatico: ne usciranno sereni come sempre, solo appena più tristi. Andranno in piazza a cercare sé stessi e vi troveranno Carlo Calenda: la pena sta nella colpa.
Nicola Pietrangeli (Getty Images)
Gianni Tessari, presidente del consorzio uva Durella
Lo scorso 25 novembre è stata presentata alla Fao la campagna promossa da Focsiv e Centro sportivo italiano: un percorso di 18 mesi con eventi e iniziative per sostenere 58 progetti attivi in 26 Paesi. Testimonianze dal Perù, dalla Tanzania e da Haiti e l’invito a trasformare gesti sportivi in aiuti concreti alle comunità più vulnerabili.
In un momento storico in cui la fame torna a crescere in diverse aree del pianeta e le crisi internazionali rendono sempre più fragile l’accesso al cibo, una parte del mondo dello sport prova a mettere in gioco le proprie energie per sostenere le comunità più vulnerabili. È l’obiettivo della campagna Sport contro la fame, che punta a trasformare gesti atletici, eventi e iniziative locali in un supporto concreto per chi vive in condizioni di insicurezza alimentare.
La nuova iniziativa è stata presentata martedì 25 novembre alla Fao, a Roma, nella cornice del Sheikh Zayed Centre. Qui Focsiv e Centro sportivo italiano hanno annunciato un percorso di 18 mesi che attraverserà l’Italia con eventi sportivi e ricreativi dedicati alla raccolta fondi per 58 progetti attivi in 26 Paesi.
L’apertura della giornata è stata affidata a mons. Fernando Chica Arellano, osservatore permanente della Santa Sede presso Fao, Ifad e Wfp, che ha richiamato il carattere universale dello sport, «linguaggio capace di superare barriere linguistiche, culturali e geopolitiche e di riunire popoli e tradizioni attorno a valori condivisi». Subito dopo è intervenuto Maurizio Martina, vicedirettore generale della Fao, che ha ricordato come il raggiungimento dell’obiettivo fame zero al 2030 sia sempre più lontano. «Se le istituzioni faticano, è la società a doversi organizzare», ha affermato, indicando iniziative come questa come uno dei modi per colmare un vuoto di cooperazione.
A seguire, la presidente Focsiv Ivana Borsotto ha spiegato lo spirito dell’iniziativa: «Vogliamo giocare questa partita contro la fame, non assistervi. Lo sport nutre la speranza e ciascuno può fare la differenza». Il presidente del Csi, Vittorio Bosio, ha invece insistito sulla responsabilità educativa del mondo sportivo: «Lo sport costruisce ponti. In questa campagna, l’altro è un fratello da sostenere. Non possiamo accettare che un bambino non abbia il diritto fondamentale al cibo».
La campagna punta a raggiungere circa 150.000 persone in Asia, Africa, America Latina e Medio Oriente. Durante la presentazione, tre soci Focsiv hanno portato testimonianze dirette dei progetti sul campo: Chiara Concetta Starita (Auci) ha descritto l’attività delle ollas comunes nella periferia di Lima, dove la Olla común 8 de octubre fornisce pasti quotidiani a bambini e anziani; Ornella Menculini (Ibo Italia) ha raccontato l’esperienza degli orti comunitari realizzati nelle scuole tanzaniane; mentre Maria Emilia Marra (La Salle Foundation) ha illustrato il ruolo dei centri educativi di Haiti, che per molti giovani rappresentano al tempo stesso luogo di apprendimento, rifugio e punto sicuro per ricevere un pasto.
Sul coinvolgimento degli atleti è intervenuto Michele Marchetti, responsabile della segreteria nazionale del Csi, che ha spiegato come gol, canestri e chilometri percorsi nelle gare potranno diventare contributi diretti ai progetti sostenuti. L’identità visiva della campagna accompagnerà questo messaggio attraverso simboli e attrezzi di diverse discipline, come illustrato da Ugo Esposito, Ceo dello studio di comunicazione Kapusons.
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Mark Zuckerberg (Getty Images)