2021-06-21
Dopo Saman, Desirée: chiameremo
finalmente le cose con il loro nome?
Uno degli imputati e, a destra, Desirée Mariottini (Ansa)
Gli omicidi delle due giovani, e quelli di tante altre, non sono tragiche fatalità. Chiamiamoli col loro nome: delitti migratori.Possiamo ribadire che si tratti di femminicidi, possiamo persino continuare a prendercela con la endemica violenza maschile. Ma la definizione sarà sempre riduttiva, incompleta, incapace di spiegare le ragioni profonde dell'orrore. E allora forse dovremmo rassegnarci all'esistenza di una (nemmeno troppo) nuova tipologia di crimine: il delitto migratorio. Perché di questo sono morte quelle ragazze giovanissime, uccise da un meccanismo mortifero di cui a fare le spese sono sempre i più fragili.Di Saman Abbas, 18 anni, ancora non si è trovato il corpo, ma il fratello minorenne ha confermato le accuse nei confronti dello zio: l'avrebbe uccisa lui. Sappiamo, tuttavia, che anche i genitori hanno avuto un ruolo nella scomparsa atroce di questa giovane donna che semplicemente voleva - come tante sue coetanee - passare del tempo con il fidanzatino da lei scelto. Ebbene è l'immigrazione, questo tipo di immigrazione, ad averglielo impedito. La famiglia di Saman (un clan) viveva isolata, come in una bolla: un frammento di Pakistan in territorio italiano. Padre, madre, zii e cugini erano braccia da far sudare nei campi, non altro. A questo servivano, per questo si trovavano qui. A questo, in fondo, serve la maggior parte dei migranti: a costituire un nutrito esercito industriale di riserva. Che poi tale esercito si porti dietro come uno zaino le usanze, talvolta barbare, di un altro mondo, poco ci importa. Secondo la visione che ci viene imposta, degli stranieri abbiamo bisogno, tutto il resto è incidente di percorso. Se l'immigrazione, in Italia, fosse stata gestita in modo diverso, oggi Saman sarebbe, con tutta probabilità, ancora viva. La sua famiglia si sarebbe dovuta adattare, costretta a venire a patti - anche ruvidamente - con il nostro mondo.Se il problema migratorio fosse stato affrontato con altra tempra e altro spirito, sarebbe probabilmente viva pure Desirée Mariottini. E invece l'hanno ammazzata ad appena sedici anni, in un edificio laido e diroccato in via dei Lucani, a Roma. Una tana di spacciatori in cui questa povera figlia, originaria di Cisterna di Latina, è stata aggredita, riempita di eroina, metadone e antipsicotici, poi violentata per ore e ore. Era il 2018, e ai suoi aguzzini è stata attribuita una frase che agghiaccia il sangue: «Meglio lei morta che noi in galera». In fondo, se ci pensate, non è molto diverso dal concetto espresso dallo zio di Saman: «Abbiamo fatto un lavoro fatto bene» (laddove il lavoro sarebbe l'omicidio con occultamento di cadavere di sua nipote).Della storia di Saman si parla tanto, come si parlò tantissimo di Desirée. Ma sempre superficialmente, e guardate com'è finita, come finisce sempre. Dopo un po', il clamore mediatico svanisce, di queste vite sgretolate ci si dimentica, e il sistema continua a funzionare come prima. Della sedicenne di Cisterna riparliamo ora perché a ricordarci il suo volto dolce ci ha pensato il lamento della madre nell'aula bunker di Rebibbia: «Non ho avuto giustizia». Ieri il Corriere della Sera ha riportato la notizia: i 4 assassini della ragazza sono stati giudicati, ma solo due hanno avuto una condanna a vita.Si tratta di quattro migranti, clandestini. Mamadou Gara, 29 anni, senegalese; Yusif Salia, 35 anni, ghanese; Brian Minteh, 46 anni, senegalese; Chima Alinno, 49 anni, nigeriano. Se i parenti di Saman erano parte dell'esercito di lavoratori che livella i salari, gli aguzzini di Desirée erano gli scarti di quell'esercito. Non lavoravano, vendevano droga. Infestavano un rudere del quartiere romano di San Lorenzo, e non avrebbero dovuto essere qui. Invece sono venuti, ci sono rimasti e hanno stordito, stuprato e ammazzato una minorenne. Salia e Gara si sono presi l'ergastolo, Alinno si è beccato 27 anni, Minteh 24 anni e sei mesi. Quest'ultimo - paradosso nello schifo - avrebbe potuto tornare subito libero per scadenza dei termini di custodia. Rimarrà in carcere solo perché gli è stata notificata una nuova ordinanza cautelare per omicidio. La madre di Desirée sperava nell'ergastolo per tutti, eppure è finita diversamente. Anche se i migranti hanno trattato la sedicenne come «un mero oggetto sessuale» (così i giudici), e hanno agito con «pervicacia, crudeltà e disinvoltura».La madre di Desirée ha tutte le ragioni di disperarsi, è a lei che hanno strappato una figlia. Ma per noi il punto non è (solo) l'entità della condanna degli assassini. Il punto è che questo massacro - come quello di Pamela Mastropietro, quello di Saman, quello di Hina Saleem e quelli di tante altre ragazze - avremmo dovuto evitarlo. Perché non si è trattato di tragica fatalità, ma di un delitto causato dall'immigrazione sregolata, che produce distruzione e morte a ogni livello.Solo che, da queste parti, continuiamo a far finta di non vedere. Da queste parti le vittime sono sempre e solo i migranti. Giusto ieri si celebrava la Giornata mondiale del rifugiato, e l'attenzione mediatica si è concentrata sul messaggio di Sergio Mattarella. Il presidente ha fatto presente che «storie individuali e di popoli, anche geograficamente vicini, fanno appello al nostro senso di solidarietà». Si è complimentato con chi ha mandato avanti l'accoglienza anche in tempi di pandemia. Ha ricordato che la protezione per i migranti deve diventare «effettiva». Insomma, ha comunicato che è nostro «alto dovere morale e giuridico» contribuire al «salvataggio dei profughi», al «sostegno ai sofferenti delle crisi umanitarie», all' «accoglienza dei più vulnerabili».Ma quando le più vulnerabili sono ragazzine di 16 e 18 anni, stuprate, drogate, malmenate, massacrate, lasciate morire fra i rifiuti o occultate in un campo, chi si occupa di loro? Chi ha «l'alto dovere morale» di proteggerle? Quel dovere toccherebbe alle nostre istituzioni. Le quali però, troppo spesso, preferiscono commuoversi per altri «sofferenti», veri e presunti.Dice Mattarella: chi è costretto a lasciare la propria casa va protetto. Saman e Desirée a casa non ci torneranno più.
Little Tony con la figlia in una foto d'archivio (Getty Images). Nel riquadro, Cristiana Ciacci in una immagine recente
«Las Muertas» (Netflix)
Disponibile dal 10 settembre, Las Muertas ricostruisce in sei episodi la vicenda delle Las Poquianchis, quattro donne che tra il 1945 e il 1964 gestirono un bordello di coercizione e morte, trasformato dalla serie in una narrazione romanzata.