2019-04-18
Sentenza: no ai manifesti che negano il diritto all’obiezione di coscienza
Il Consiglio di Stato accoglie l'appello del Comune di Genova, che non aveva concesso l'uso delle affissioni per la campagna dell'Unione atei. Secondo i giudici «ragione e fede sono valori che non vanno contrapposti».È proprio il caso di dire che stavolta i seguaci della Dea ragione… se ne dovranno fare una ragione, come gli adepti dell'Unione degli atei e agnostici razionalisti di Genova (Uaar) ai quali il Consiglio di Stato (Sez. V, n. 02327 del 9 aprile) ha spiegato, con parole semplici e con argomenti giuridicamente ineccepibili, che opporre «in termini negativi e reciprocamente escludenti la ragione (“testa") e la fede cristiana (“croce")» significa «implicitamente che la fede cristiana (“croce") oscura la ragione (“testa")». E che, se riferito alla obiezione di coscienza dei medici in tema di aborto, «nega la dignità della ragione (“testa") alla scelta medica di obiezione di coscienza motivata da ragioni di fede cristiana (“croce")» e l'«autonoma dignità all'obiezione mossa da ragioni non già cristiane ma semplicemente etiche ovvero di altra fede religiosa; collega la meritevolezza o adeguatezza professionale del medico alle sue libere convinzioni religiose o comunque etiche in tema di interruzione volontaria della gravidanza».La pronuncia è intervenuta in un giudizio di appello promosso dal Comune di Genova avverso la sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Liguria, sez. II, 4 marzo 2019, n. 174, che aveva accolto il ricorso dell'Uaar contro la decisione dell'amministrazione comunale di negare l'affissione di manifesti della campagna informativa nazionale «Non affidarti al caso», in tema di obiezione di coscienza in ambito sanitario. La bozza del manifesto, con diversa gradazione cromatica, bipartita e giustapposta, rappresentava il busto di un medico e di un ministro del culto cristiano (il primo con camice e stetoscopio, il secondo in abito talare e croce), con sovrapposta la scritta «Testa o croce?» e sotto «Non affidarti al caso», e più sotto ancora «Chiedi subito al tuo medico se pratica qualsiasi forma di obiezione di coscienza».Il Comune aveva individuato nei bozzetti «una possibile violazione di norme vigenti in riferimento alla protezione della coscienza individuale (articoli 2, 13, 19 e 21 della Costituzione… premessa e articolo 18 della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo; articoli 9 e 10 della Convenzione europea per i diritti dell'uomo) e al rispetto e tutela dovuti ad ogni confessione religiosa, a chi la professa e ai ministri di culto nonché agli oggetti di culto (articoli 403 e 404 c.p.)». L'associazione si era rifiutata, in nome del diritto di manifestazione del pensiero e di associazione, di apportare le modifiche sollecitate dal Comune con riferimento alle prescrizioni del Piano generale degli impianti del Comune di Genova e del Codice di autodisciplina della comunicazione commerciale dell'Istituto di autodisciplina pubblicitaria. E aveva impugnato il diniego dinanzi al Tar Liguria che, nel darle ragione, aveva tuttavia richiamato il piano generale degli impianti pubblicitari del Comune di Genova, secondo il quale «il messaggio pubblicitario di qualsiasi natura, istituzionale, culturale, sociale e commerciale, non deve ledere il comune buon gusto, deve garantire il rispetto della dignità umana e dell'integrità della persona, non deve comportare discriminazioni dirette o indirette, né contenere alcun incitamento all'odio basato su sesso, razza o origine etnica, religione o convinzioni personali, disabilità, età o orientamento sessuale, non deve contenere elementi che valutati nel loro contesto, approvino, esaltino o inducano alla violenza contro le donne, come da risoluzione 2008/2038 (Ini) del Parlamento europeo».I giudici d'appello hanno condiviso le ragioni del Comune considerato che il messaggio pubblicitario, «per quanto principalmente disciplinato nella prospettiva della rilevanza economica, può incidere anche su interessi individuali e collettivi di carattere non economico e comunque meritevoli di tutela giuridica, e che non rimangono perciò senza rilievo e difesa». Ed hanno giudicato «discriminatorio nelle descritte modalità di composizione delle contrapposte immagini in una al sovrapposto, dominante enunciato letterale “Testa o croce?" e con l'incitazione “Chiedi subito al tuo medico se pratica qualsiasi forma di obiezione di coscienza"». Ciò che «appare offendere indistintamente il sentimento religioso o etico, e in particolare dei medici che optano per la scelta professionale di obiezione di coscienza in tema di interruzione volontaria della gravidanza, pur garantita dalla legge 22 maggio 1978, n. 194, articolo 9».La sentenza ricorda che «per l'ordinamento varie disposizioni definiscono la nozione di discriminazione, diretta ed indiretta, talora anche in armonia con il diritto eurounitario e le direttive europee (es. articolo 2 d.lgs. n. 215 del 2003 in materia di razza ed origine etnica; articolo 2 del d.lgs. n. 216 del 2003 in materia di occupazione e di condizioni di lavoro; articolo 2 del d.lgs. n. 67 del 2006 in tema di disabilità): e che tali parametri, che si basano sul principio di eguaglianza, rilevano del pari in materia religiosa o etica laddove non si incontrino i limiti generali costituzionali, espressi (ad esempio l'articolo 17 della Costituzione: buon costume) o impliciti (sicurezza pubblica, ordine pubblico, salute, dignità della persona umana), o della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali».Il manifesto, dunque, è stato ritenuto discriminatorio con riferimento al credo religioso e alle convinzioni etiche individuali laddove, «la pur naturalmente legittima critica alle scelte dei professionisti obiettori supera i limiti generali della continenza espressiva giacché non si ferma a valutazioni misurate, ma senza necessità trasmoda in valutazioni lesive dell'altrui dignità morale e professionale». Infatti, «non trattandosi di una critica «dinamica» e immediatamente reattiva di giudizio altrui collegato a specifici fatti (come in ambito politico, dove è ammesso l'uso di toni aspri e di disapprovazione più incisivi rispetto a quelli degli usuali rapporti tra privati), ma di una campagna di informazione», non è consentito eccedere «rispetto a quanto necessario per il pubblico interesse all'informazione ampia e corretta, fermo il rispetto dell'interesse, individuale o collettivo, alla reputazione».Ricorda, inoltre, il Consiglio di Stato che anche per la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo resta salva la riserva dell'articolo 10, paragrafo 2, della Convenzione europea dei diritti dell'uomo («restrizioni […] che sono previste dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, […] per la protezione della reputazione o dei diritti altrui»), e il diritto alla libertà di espressione va valutato alla luce dei principi di proporzionalità e pertinenza (Cedu, 19 giugno 2012, n. 27306 28 ottobre 1999, n. 18396; 23 aprile 1992, n. 236; 8 luglio 1986, n. 103)». Parametri alla luce dei quali il provvedimento comunale non è stato ritenuto viziato da carenza di motivazione nel negare l'affissione in ragione di «una possibile violazione di norme poste a protezione della coscienza individuale ed a tutela di ogni confessione religiosa». Nell'accogliere l'appello, il Consiglio di Stato ha altresì ritenuto infondato il motivo riproposto dall'associazione appellata in ordine alla disparità di trattamento che il Comune di Genova avrebbe perpetrato rispetto alla consentita affissione dei manifesti del movimento Pro Vita, «stante la diversità, la non comparabilità e la non identità delle situazioni, circostanza che esclude l'eccesso di potere».Insomma, la sentenza rimette a posto regole e principi troppo spesso trascurati e negati.
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