Bruxelles vincola i fondi per il Paese sull’orlo del crac a riforme democratiche. E offre appena 1,7 miliardi, meno di quanto spende l’Italia ogni anno per l’accoglienza. Ma rimettere in piedi l’economia del Maghreb è il solo modo per ostacolare l’esodo dall’Africa.
Bruxelles vincola i fondi per il Paese sull’orlo del crac a riforme democratiche. E offre appena 1,7 miliardi, meno di quanto spende l’Italia ogni anno per l’accoglienza. Ma rimettere in piedi l’economia del Maghreb è il solo modo per ostacolare l’esodo dall’Africa.La leggenda vuole che, a un popolo in rivolta perché affamato, l’ultima regina di Francia prima che la Rivoluzione tagliasse la testa al re e alla sua corte, avesse risposto con un lapidario «se non hanno più pane, mangino brioche». La frase attribuita a Maria Antonietta somiglia molto a quella pronunciata nei giorni scorsi dal conte di Filottrano, Cingoli e Macerata, al secolo Paolo Gentiloni Silveri, ex presidente del Consiglio e attuale commissario Ue per gli affari economici e monetari. Il quale, in missione in un Paese sull’orlo della bancarotta come la Tunisia, invece di sganciare soldi si è messo a parlare di diritti, vincolando la concessione di finanziamenti da parte dell’Europa e del Fondo monetario a un programma di riforme. A giovani che scappano perché hanno fame di cibo e di futuro, rischiando la vita per salire a bordo di scialuppe che li traghettino verso l’Italia, Gentiloni ha offerto l’impegno di Bruxelles «nei confronti dei valori della democrazia, dell’inclusione e dello Stato di diritto». In pratica, chi ha fame dovrà aspettare che Tunisi firmi un piano per un pacchetto di riforme a cui è condizionato il prestito promesso dal Fmi.Vi chiedete di quanti soldi si stia parlando? Meno di due miliardi di dollari, al cambio in euro dunque poco più di un miliardo e 700 milioni. Tanto? Dipende dai punti di vista: se si osserva la cifra dalla sponda di Sfax o Monastir, stiamo parlando di una montagna di denaro, ma se si guarda la stessa somma da Lampedusa o da Pozzallo, i fondi in ballo sono meno di quelli che si spendono ogni anno per l’accoglienza dei migranti. In certi anni, per esempio quando il governo ha dato un giro di vite, mettendo rigidi vincoli sia alle Ong che al sistema delle cooperative che ospitano i profughi, la spesa è scesa anche sotto i due miliardi, ma in altri periodi, anche quando a Palazzo Chigi c’era il conte Gentiloni Silveri, si è arrivati fino al punto di mettere a carico dello Stato 4,5 miliardi. Attualmente, con quasi 30.000 sbarchi in soli tre mesi, vale a dire quattro volte più di quanti se ne registrarono nel 2021 e nel 2022, le previsioni di spesa, tra soccorsi in mare e accoglienza, si aggirano intorno ai 2 miliardi di euro, vale a dire più di quel che servirebbe per aiutare la Tunisia a evitare il fallimento.Certo, se riuscissimo a impedire che il Paese guidato da Kais Saied si trasformasse nella porta di accesso di gran parte dei migranti africani, anche quelli che arrivano dall’area subsahariana, non avremmo risolto del tutto il problema degli sbarchi, ma forse lo avremmo attenuato. Oggi, oltre ai profughi dell’Afghanistan, in Italia il maggior numero di richiedenti asilo è composto da bengalesi, tunisini ed egiziani. Dunque, fermare chi scappa dalla Tunisia è una priorità, soprattutto se sono vere le cifre fornite dai nostri servizi di intelligence, che parlano di decine se non centinaia di migliaia di giovani pronti a partire. Fermare l’esodo da Sfax e dagli altri porti del Paese non bloccherebbe del tutto le partenze? Certo, ma aiuterebbe e non poco. E uguale strategia si potrebbe applicare con la Libia e con tutti gli altri Paesi da cui partono in migranti. Non abbiamo soldi a sufficienza per pagare tutti? Beh, rifacendo i conti credo che negli ultimi dieci anni l’Italia abbia bruciato nel sistema dell’accoglienza più di 20 miliardi. L’osservatorio sui conti pubblici dell’Università Cattolica guidato da Carlo Cottarelli, fresco onorevole del Pd, tempo fa stimò che fra il 2011 e il 2017 l’impatto sui conti pubblici avesse sfiorato i 15 miliardi: dunque la mia stima probabilmente è in difetto. Non so se ci sia idea della grandezza dell’«investimento» compiuto in questi anni per avere meno sicurezza e più problemi. Basti dire che i risparmi fatti dal governo Meloni con il taglio del Reddito di cittadinanza, quest’anno dovrebbero aggirarsi intorno a 1,5 miliardi, meno cioè di quanto verrà impiegato per l’accoglienza, e all’incirca dieci o quindici volte di più del costo di Opzione donna.Ovviamente, finanziare Paesi che non hanno lo stesso atteggiamento nei confronti «dei valori della democrazia, dell’inclusione e dello Stato di diritto» può essere un problema, per lo meno per il conte Gentiloni (ma quand’era presidente del Consiglio e il suo ministro dell’Interno si chiamava Marco Minniti, il nobile signore di Filottrano, Cingoli e Macerata non sembrava farsi grandi scrupoli). Tuttavia, mi permetto di ricordare che la Ue a guida Merkel fece staccare un assegno da 6 miliardi di euro a favore di tal Erdogan, il quale non mi pare condividesse gli stessi valori di democrazia, inclusione e Stato di diritto dell’Europa, visto che ha messo in galera gli oppositori, e chiuso i giornali che si erano permessi di battere ciglio. Dunque, facciamola finita con un’élite che parla di brioche senza rendersi conto che appartiene all’ancien régime.
Elly Schlein (Ansa)
Corteo a Messina per dire no all’opera. Salvini: «Nessuna nuova gara. Si parte nel 2026».
I cantieri per il Ponte sullo Stretto «saranno aperti nel 2026». Il vicepremier e ministro dei Trasporti, Matteo Salvini, snocciola dati certi e sgombera il campo da illazioni e dubbi proprio nel giorno in cui migliaia di persone (gli organizzatori parlano di 15.000) sono scese in piazza a Messina per dire no al Ponte sullo Stretto. Il «no» vede schierati Pd e Cgil in corteo per opporsi a un’opera che offre «comunque oltre 37.000 posti di lavoro». Nonostante lo stop arrivato dalla Corte dei Conti al progetto, Salvini ha illustrato i prossimi step e ha rassicurato gli italiani: «Non è vero che bisognerà rifare una gara. La gara c’è stata. Ovviamente i costi del 2025 dei materiali, dell’acciaio, del cemento, dell’energia, non sono i costi di dieci anni fa. Questo non perché è cambiato il progetto, ma perché è cambiato il mondo».
Luigi Lovaglio (Ansa)
A Milano si indaga su concerto e ostacolo alla vigilanza nella scalata a Mediobanca. Gli interessati smentiscono. Lovaglio intercettato critica l’ad di Generali Donnet.
La scalata di Mps su Mediobanca continua a produrre scosse giudiziarie. La Procura di Milano indaga sull’Ops. I pm ipotizzano manipolazione del mercato e ostacolo alla vigilanza, ritenendo possibile un coordinamento occulto tra alcuni nuovi soci di Mps e il vertice allora guidato dall’ad Luigi Lovaglio. Gli indagati sono l’imprenditore Francesco Gaetano Caltagirone; Francesco Milleri, presidente della holding Delfin; Romolo Bardin, ad di Delfin; Enrico Cavatorta, dirigente della stessa holding; e lo stesso Lovaglio.
Leone XIV (Ansa)
- La missione di Prevost in Turchia aiuta ad abbattere il «muro» del Mediterraneo tra cristianità e Islam. Considerando anche l’estensione degli Accordi di Abramo, c’è fiducia per una florida regione multireligiosa.
- Leone XIV visita il tempio musulmano di Istanbul ma si limita a togliere le scarpe. Oggi la partenza per il Libano con il rebus Airbus: pure il suo velivolo va aggiornato.
Lo speciale contiene due articoli.
Pier Carlo Padoan (Ansa)
Schlein chiede al governo di riferire sull’inchiesta. Ma sono i democratici che hanno rovinato il Monte. E il loro Padoan al Tesoro ha messo miliardi pubblici per salvarlo per poi farsi eleggere proprio a Siena...
Quando Elly Schlein parla di «opacità del governo nella scalata Mps su Mediobanca», è difficile trattenere un sorriso. Amaro, s’intende. Perché è difficile ascoltare un appello alla trasparenza proprio dalla segretaria del partito che ha portato il Monte dei Paschi di Siena dall’essere la banca più antica del mondo a un cimitero di esperimenti politici e clientelari. Una rimozione selettiva che, se non fosse pronunciata con serietà, sembrerebbe il copione di una satira. Schlein tuona contro «il ruolo opaco del governo e del Mef», chiede a Giorgetti di presentarsi immediatamente in Parlamento, sventola richieste di trasparenza come fossero trofei morali. Ma evita accuratamente di ricordare che l’opacità vera, quella strutturale, quella che ha devastato la banca, porta un marchio indelebile: il Pci e i suoi eredi. Un marchio inciso nella pietra di Rocca Salimbeni, dove negli anni si è consumato uno dei più grandi scempi finanziari della storia repubblicana. Un conto finale da 8,2 miliardi pagato dallo Stato, cioè dai contribuenti, mentre i signori del «buon governo» locale si dilettavano con le loro clientele.






