2021-11-24
Se la vita è disponibile tutto diventa lecito. Dal suicidio assistito alla schiavitù legale
Siamo davanti a un «teatro dell’assurdo»: la legge impedisce di procurarsi lesioni al corpo. Farsi uccidere invece si puòSiamo di fronte al primo caso di richiesta di suicidio assistito, avallato da un comitato etico della regione Marche, che apre una vera e propria voragine nella diga della difesa della vita, quale bene fondamentale e indispensabile perché possano essere riconosciuti e fruiti tutti i diritti naturali propri della persona umana. Purtroppo, la sentenza della Consulta sul noto caso Cappato/Dj Fabo aveva aperto la strada alla legalizzazione dell’assistenza al suicidio, ed ora raccogliamo i frutti di quella cattiva semenza che considera la vita un bene disponibile alla volontà della persona. A chi dovesse obbiettare che il tutto avviene per libera e consapevole scelta del paziente, è opportuno ricordare che né l’etica civile, né la deontologia medica, né il semplice «buon senso» e - almeno fino ad oggi - neppure il nostro ordinamento, radicato nella Costituzione, hanno mai consentito di poter violare la vita di un essere umano, neppure «dietro sua richiesta», come recita il Giuramento di Ippocrate. Siamo di fronte al «teatro dell’assurdo»: a fronte di un articolo del codice civile (art.5) che vieta e sanziona atti di disponibilità del proprio corpo (nessuno può chiedere che gli venga tagliato un orecchio, perché così ha deciso e vuole), si legalizza un atto suicidario che annienta la propria vita. Non si può disporre di un dito, ma si può disporre della vita in toto: un paradosso che solo una cultura schizofrenica e insensata può tollerare. È libertà questa? È civiltà questa? Ma c’è di più: se questo principio della disponibilità della vita assurge al rango di valore civile da garantire e tutelare, domani ci troveremo ad avallare e sottoscrivere un contratto nel quale si rinuncia alla libertà personale in nome di una libera scelta a favore della schiavitù, perché soggettivamente ritenuta più vantaggiosa. E non si tratta per nulla né di un’enfatizzazione né di un’esagerazione illogica. Anzi, si tratta proprio del contrario, cioè di una fredda e razionale valutazione delle conseguenze di quanto sta accadendo. Se è lecito (cioè se è un diritto codificato) scegliere la morte piuttosto che la vita, chi vieta di chiedere la schiavitù piuttosto che la libertà? Se la vita è disponibile, perché non dovrebbe esserlo la libertà? Se è meglio morire che vivere, perché non lo dovrebbe essere diventare schiavi piuttosto che liberi? Due sentimenti sentiamo coesistere nel nostro animo, come nella nostra mente. Da una parte un’indicibile pietà, nel senso latino di «pietas» - partecipazione di profondo affetto e condivisione, fino alla compassione, cioè al soffrire insieme - per il dramma umano di ogni singola persona nel dolore. Dall’altro, lo sconcerto, la profonda amarezza con tinte di ruvida vergogna per una società civile che invece di affrontare con tutti i mezzi possibili queste situazioni, cede alla pilatesca decisione di lavarsene le mani, dietro l’ignobile alibi del «così ha voluto lui»! Guardiamo che cosa sta accadendo nei Paesi che hanno legalizzato suicidio assistito ed eutanasia: un inquietante aumento per cui oggi, in Olanda, il 5 per cento del totale delle morti si deve a queste pratiche. In una recente intervista, il medico gerontologo Bert Keizer, olandese, socio fondatore di Expertise centrum, agenzia eutanasica, ha dichiarato: «L’eutanasia è contagiosa. Una volta che è sul menù, la gente la ordina». È un bene o un male? Certamente è un fatto, un fatto tragicamente inquietante, segnale che è il senso profondo della vita che si sta perdendo. O meglio, si stanno costruendo vite prive di senso, devastate da un relativismo che cancella ogni verità e ogni valore, al punto che si chiede di accedere - e si accede - alla morte garantita dallo Stato anche per depressione o solitudine. Dobbiamo chiederci se è proprio questo che vogliamo, se è questa la società che scegliamo di passare ai nostri figli, senza alcuna segnaletica di pericolo, e con l’unico miraggio della libera autodeterminazione senza limiti, financo alla morte senza paletti. Si sta consegnando alle generazioni future una «vita d’inferno», proprio come preconizzava Friedrich Hoelderlin a fine Settecento: « Ciò che fa della nostra vita un inferno è la nostra pretesa di farne un paradiso». Almeno in Italia, la valanga è ancora all’inizio. Sta a noi cercare di fermarla.
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