2020-10-28
Se a perderci è la sinistra, insorgere si può
Ora gli intellettuali alzano la voce contro la chiusura di teatri e cinema, considerati cosa loro. Ma quando a protestare erano le altre categorie, i salotti progressisti applaudivano il governo e bollavano i lavoratori in crisi come negazionisti e fascisti. Sentili come ruggiscono, adesso. Guardali, a testa alta, in prima fila, a sventolare la bandiera della contestazione. Penna tra i denti, corrono a fare la resistenza. «Cinema e teatri sono luoghi (...) sicuri, lo dimostrano i dati. Una sciagura chiudere tutto per un mese», tuona il regista impegnatissimo Marco Bellocchio, rimbombando su Repubblica. E Dacia Maraini? Non si era appassionata tanto nemmeno quando ravvisò nelle Sardine il volto di Gesù Cristo. «Chiudendo i luoghi dove passa una cultura di pensiero e di conoscenza, si fa un danno enorme al Paese», scrive con parole di fiamma. Di nuovo su Repubblica, la voce rombante di Alessandro Baricco invita a «non spegnere i palcoscenici, nostri piccoli fuochi di resistenza». Il romanziere torinese è irritato, non di più, perché le basse passioni umane comunque non possono turbare la sua aristocratica quiete. Eppure si lascia sfuggire un fiato d'indignazione: «Conservo un certo rispetto», ammette, «per chi oggi si trova a decidere e lo fa dopo mesi di grande stress. Faccio fatica a dire che sono dei cialtroni ma mi permetto di pensare che chiudere cinema e teatri sia un errore». Dalle colonne del Manifesto tocca al cineasta Gianni Amelio rincarare la dose: «Da spettatore penso che il pubblico della sala cinematografica abbia rispettato in ogni modo le misure di sicurezza... E allora mi chiedo dove sia il problema, se non il fatto che siamo i più deboli», spiega. Contro il dpcm che imbavaglia i teatranti, che spegne il cinema e la musica, che cancella le presentazioni e tutte le manifestazioni culturali si muovono in tanti, tantissimi. A migliaia firmano la petizione «degli artisti» contro i provvedimenti governativi. I grossi nomi della settima arte sono scesi tutti in campo: Nanni Moretti, Giuliano Montaldo, Paolo Taviani... La gente di teatro trascinata giù dal palco scandisce il disappunto in perfetta dizione, come ha fatto Stefano Massini nello studio di Piazzapulita giovedì scorso, gridando che «esistere è resistere». Paolo Rossi si è messo a recitare all'aperto, non risparmiando colpi di lancia al potere. Emma Dante, creativa militante che tanto scalda i cuori progressisti, brama rivolte: «I teatri sono luoghi di necessità e posti sicuri: perché nessuno alza la voce?». Hanno ragione, gli intellettuali. Hanno tutti ragione. La chiusura di cinema e teatri è un colpo mortale. Non soltanto a musicisti, cantanti e attori, ma pure a tecnici, organizzatori, uffici stampa, ragazzi e ragazze a partita Iva che per sopravvivere dovranno ridursi a mangiare copioni e spartiti in insalata. Proprio perché hanno ragione, tuttavia, domandiamo: ma dov'erano, fino a ieri, gli intellettuali? Il danno da 64 milioni di euro che potrebbe subire il settore dello spettacolo è spaventoso, ma non è certo inferiore per gravità a quello che è stato e che di nuovo viene inferto a ristoratori, baristi, taxisti, negozianti, lavoratori autonomi, aziende di ogni tipo... Solo che, mentre andava inscena la macelleria sociale diffusa, la maggior parte dei nostri illustri pensatori e artisti era impegnata a sostenere il governo, a inveire contro i fascionegazionisti e a stigmatizzare le proteste sovraniste. I musicisti, assisi in salotti chilometrici, strimpellavano per invitarci a restare in casa, i teatranti negli studi tv monologavano contro i refrattari alla mascherina all'aperto. Tutti erano compatti a supportare l'esecutivo amico. Salvo scoprire, mesi dopo, che la mannaia giallorossa non risparmia nessuno, nemmeno gli intellettuali organici. Dario Franceschini, con cui ora le nostre menti affilate se la prendono, era lì anche prima, anche a luglio, e mica l'hanno contestato, ci mancherebbe. Finché a rischiare il lastrico sono quattro sfigati di autonomi, mica val la pena sbracciarsi, no? E dov'erano, gli impegnati delle arti, quando si serravano le chiese a doppia mandata? Stavano zitti, chiaro. Adesso hanno pure il fegato di recriminare. «È giusto autorizzare le messe, con tutti il rispetto per le messe, e non autorizzare cinema e teatri nei quali non c'è stato alcunché?», dice Walter Veltroni. Qualcuno di questi cervelloni ha fiatato, forse, quando a interrompere le celebrazioni religiose provvedevano i carabinieri? Oh, certo che no. Anzi, i più tifavano per l'intervento poliziesco, come Michele Serra, che accusò di fascismo chi insisteva a pretendere l'eucarestia, dolci vecchine comprese. Quando Giorgio Agamben, filosofo tra i più grandi, osò levare la voce contro il governo che approfittava dello stato d'eccezione, l'intero apparato mediatico di sinistra lo accusò di essersi bevuto il cervello. Ora invece ci troviamo Roberto Saviano a discettare di «disagio sociale». C'è pure chi, come Ascanio Celestini, ancora insiste con la superiorità morale, teorizzando l'esistenza di due Italie: una «civile, rispettosa», cioè quella dei teatri che devono stare aperti; l'altra «menefreghista e arrogante», cioè quella del popolino che merita la stangata. Diceva un tale: «Se tanta gente si lascia fare senza proteste l'operazione che si fa ai gatti maschi per trasformarli in pacifici gatti, è perché non vede bene a che cosa possa servire quel che le tolgono». Se ne accorge solo in seguito, quando il danno è fatto, è le proteste sono grida stridule di voci bianche.