
Come si fa a non averne terrore? L'ho imparato dai malati in ospedale e dalla scomparsa di mio padre. Regola numero uno: condividere.Come poter affrontare la morte era uno dei discorsi che non si facevano mai nelle aule dove la mia generazione ha imparato la medicina. Noi apparteniamo a un'epoca che, per la prima volta nella storia dell'umanità, ha combattuto battaglie vittoriose contro la sofferenza e tutte le situazioni dove i cadaveri si contano a cataste invece che a unità: abbiamo estinto il vaiolo, abbattuto la mortalità infantile e posto condizioni per eliminare le guerre mondiali. Noi apparteniamo a un'epoca che, per la prima volta nella storia dell'umanità, avendo combattuto battaglie vittoriose contro la sofferenza e la morte, ha creato la pericolosa illusione che vivere senza dolore sia augurabile e, anzi, possibile. Impediamo ai nostri figli di andare a visitare i nonni malati perché non si impressionino; impediamo loro di assistere ai loro funerali ritenendo, come il padre di Buddha, che il compito del buon genitore sia preservare i propri figli dal dolore, non fargli mai sapere che la sofferenza esiste. La sofferenza e la morte diventano tabù, vengono negati, come se ci fosse un muro di vetro che le isola e le separa. In questa maniera si sottrae l'unica strada che ha l'essere umano per risolvere la sofferenza: affrontarla, capirla, darle un senso e condividerlaEd è uno sbaglio, perché poi scopriamo da soli che il dolore, la paura, la disperazione e la rabbia fanno parte del destino umano come la forza, l'amore, la speranza, la tenerezza e la comprensione. E, quando lo scopriamo, siamo soli. È compito di una generazione lasciare in eredità alla successiva le istruzioni per non lasciarsi travolgere dal dolore. Noi non lo stiamo facendo.Perché scriverlo io? Perché avrei voluto che qualcuno mi avesse detto, trent'anni fa, quando mio padre è morto, quello che sto per scrivere. Perché tutti i pazienti a cui sono stata vicina mi hanno aiutata a pensarlo. Perché è la mia maniera di salutarli ancora.Mio padre è morto solo. Mia sorella e io eravamo fisicamente nella stanza dove lui ha smesso di vivere, mia madre in quella stanza era trincerata da sempre, ma ugualmente lui è morto solo. In sua presenza non è mai stata nominata né la parola morte, né la parola cancro. Noi sapevamo; a lui, «per il suo bene», non era stato detto niente. Gli avevamo sistematicamente mentito. Avevamo contraffatto i suoi esami, falsificato le sue cartelle, perché lui non sapesse. Lo avevamo così rinchiuso in una trappola di silenzio.Tutti i dubbi che aveva avuto, li aveva rimuginati da solo; quando si era reso conto dell'inarrestabilità del suo «stare peggio», non aveva avuto nessuno con cui piangere insieme. L'ottusa congiura del silenzio in cui tutti siamo rimasti intrappolati non ci ha permesso di salutarlo, non gli ha permesso di salutarci. Ci sentivamo in colpa. In primo luogo c'è la colpa del sopravvissuto: se qualcuno a cui siamo legati è morto, in qualche maniera abbiamo fallito il compito di tenerlo in vita. A questa si è aggiunto il senso di colpa del mentitore rispetto all'ingannato. E poi c'era il senso di colpa per il non detto: per l'affetto non manifestato. Lo avevamo lasciato morire senza dirgli quanto gli abbiamo voluto bene e quanto eravamo fiere di lui; lo avevamo lasciato morire senza permettergli di dirci quanto ci aveva voluto bene, che cosa voleva che ricordassimo di lui. Abbiamo sfogato il nostro sentirci in colpa con un faraonico funerale e profusioni di fiori che, devo dire, per mezza giornata hanno sortito l'effetto di farci stare un po' meno male. Poi la mezza giornata è passata e noi abbiamo ricominciato a stare malissimo.Io avevo 22 anni: ero ancora all'università. Poi sono diventata medico. Ho visto innumerevoli altre persone morire, in pronto soccorso o nei reparti di chirurgia, rinchiusi nello stesso destino di inutile solitudine. Non c'era, allora, nessun esame, nessuna competenza alla facoltà di medicina che preparasse a parlare della morte a coloro che vi erano condannati, a chi stava loro vicino, a chi era loro sopravvissuto.In moltissimi medici c'era, e c'è ancora, un imbarazzo totale davanti alla persona condannata, quella per cui «non c'è più niente da fare». Non siamo più abituati alla sconfitta. Molti di noi evitano con fastidio le loro stanze e i loro parenti: la frustrazione di non poterli guarire è insopportabile e, per evitarla, si evita il malato, che così resta sempre più solo.Mi era sembrata una buona idea fare chirurgia. È la parte più epica della medicina. La battaglia era stata persa per mio padre, ma avrebbe potuto essere vinta per qualcun altro: estirpare il male, strapparlo così che poi resti solo una ferita decente e pulita da ricucire. Un duello con la morte, come Brancaleone o il crociato di Il settimo sigillo, ma questa volta ad armi pari. Non avevo calcolato lo scarso entusiasmo che, all'inizio degli anni Settanta, accoglieva le femmine nei reparti di chirurgia. Visto che in sala operatoria mi facevano entrare il meno possibile, ho cominciato a passare il tempo parlando con i malati e con i loro familiari, tutti i malati, anche quelli delle stanze dove nessuno voleva entrare. Ho scoperto che ognuno è una persona, ognuno ha la sua storia. Ho imparato che le sofferenze della nostra anima possono essere infinitamente più devastanti di quelle dei nostri corpi. Mi sono ricordata che il compito del medico non è guarire tutti, ma dare consolazione a tutti e non nuocere a nessuno in nessuna maniera, meno che mai con l'abbandono. I miei pazienti mi hanno insegnato che uscire dalla stanza di una paziente lasciandosi alle spalle una scintilla di consolazione è una meravigliosa vittoria.Ho scritto e riscritto questo articolo innumerevoli volte, senza mai riuscire a trovare il tono giusto: qualcosa che non fosse né ampolloso né didattico ed evitasse l'insopportabile spocchia di colui che pretende di sapere e insegnare anche agli altri come si affronta l'inaffrontabile. Avrei voluto trovare un tono che riuscisse a esprimere un po' dell'infinita tenerezza che si può formare attorno a una persona che muore e a coloro che la circondano. Quando siamo di fronte alla morte e la accettiamo, allora succede il miracolo. Tutto acquista una profondità sconosciuta e irripetibile, acquisisce una forza che non ha mai avuto prima. Si crea la possibilità di annullare anni di rancore, riparare ferite, restaurare la fiducia, cancellare gli errori, lasciare un ricordo che darà la forza a coloro che restano di combattere le loro battaglie con orgoglio e con onore. Nella prossima puntata, in maniera schematica, ci sarà il riassunto di quello che ci siamo detti, io e i miei pazienti, di quello che abbiamo pensato. Il tono a volte è lo stesso delle nostre conversazioni: non troppo serio. Non poche delle idee riportate sono loro.
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Giusi Bartolozzi (Ana)
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