La prima avanzata a Est fu trainata dal bisogno tedesco di manodopera a basso costo. Ora Bruxelles punta su altri ingressi, da Kiev a Tbilisi. Però si assume un rischio geopolitico. E sottovaluta la concorrenza inglese.
La prima avanzata a Est fu trainata dal bisogno tedesco di manodopera a basso costo. Ora Bruxelles punta su altri ingressi, da Kiev a Tbilisi. Però si assume un rischio geopolitico. E sottovaluta la concorrenza inglese.L’Unione europea ha deciso di allargarsi ancora. Nelle patologie si chiama coazione a ripetere. In politica si chiama raddoppio della posta nella speranza che ripercorrendo gli stessi gradini le cose vadano bene. O almeno meglio di prima. Non è importante discutere oggi di quanto tempo ci vorrà perché l’Ucraina entri effettivamente a far parte dell’Ue, ma contano la scelta politica e il perimetro che la decisione del Consiglio di giovedì sera ha delineato. Conta, insomma, la sfera di competenza che Bruxelles si è data. È infatti interessante vedere che, oltre a Kiev, l’altro ieri è stato definito anche lo status di altre tre nazioni: la Moldavia, la Bosnia-Erzegovina e la Georgia. Il che porta a ben dieci i candidati e potenziali candidati. In attesa, in ordine di tempo, sono i seguenti.1 La Turchia, la cui primissima richiesta è datata 1987 e il cui secondo step di dialogo è stato firmato nel 1999. Agli accordi bilaterali di natura economica e migratoria nulla è seguito. Guarda caso, dopo l’ascesa di Recep Erdogan. 2 La Macedonia del Nord, che ha compiuto i primi due step nel 2004 e nel 2005. 3La Serbia, nel 2004 e nel 2012. 4Il Montenegro, nel 2008 e nel 2021. 5L’Albania, che è la nazione che ha superato più livelli di approvazione, ma che ha comunque avviato l’iter di richiesta nel lontano 2009. E solo recentemente, per via delle mosse trasversali del socialista Edi Rama, sta registrando una sorta di accelerazione. Che ha formato un’onda lunga, servita a spingere l’altro Paese balcanico.6La Bosnia-Erzegovina, infatti, ha mosso i primi passi nel 2016, nel 2019 ha ricevuto una lista di raccomandazione e l’altro ieri è stata riconosciuta come candidato ufficiale. Ovviamente nulla a che vedere rispetto all’accelerazione che ha avuto l’Europa dell’Est. Il riferimento è alla guerra scatenatasi dopo l’invasione da parte della Russia dei territori del Donbass e di quelli tra la Bielorussia e Kiev. 7Una guerra che ha portato il Consiglio dell’altro ieri a stabilire l’Ucraina quale candidato idoneo. Per rendere l’idea dei tempi e della decisione di stravolgere le prassi utilizzate fino ad oggi, vale la pena ricordare che Kiev non ha nemmeno chiesto di entrare. È stata Bruxelles, lo scorso anno, a invitarla. Più o meno quanto accaduto per l’altro ex Stato sovietico.8La Moldavia ha fatto domanda nel 2022 e in poco più di un anno ha ricevuto anch’essa lo status che i Paesi balcanici hanno atteso per anni. All’elenco restano infine da aggiungere il Kosovo e, fresca di questa tornata, la Georgia. 9Pristina ha una storia tutta a parte e da circa un decennio è un candidato potenziale. La nazione che si è formata dopo la guerra Nato in Serbia è letteralmente affiancata dall’Ue dall’inizio del Duemila, adotta l’euro ed è un esperimento di diplomazia che ha attraversato due decenni senza mai trovare una vera soluzione nel suo peculiare rapporto con i serbi e i russi. E le radici della religione cristiana ortodossa.:Dulcis in fundo c’è il Paese caucasico, la Georgia, la cui autorizzazione a divenire candidato potenziale è di difficile comprensione. Se non come un modo per fissare un piede in un’area che militarmente è pronta a ribollire e segna, con i russi e i turchi, una serie di relazioni complesse. Si tratta di una nazione che ancora oggi vede il 20% del proprio territorio occupato dalle truppe del Cremlino. Proprio per questo, la scelta rende bene l’idea della strategia in atto. Sia dal punto di vista economico che diplomatico. Peccato che le motivazioni portino su strade esattamente opposte e di difficile gestione. L’Unione europea, tra il 2004 e il 2007, ha accettato al suo interno i Paesi baltici, quanto la Croazia, la Bulgaria e la Romania. All’epoca l’Ue a traino tedesco voleva esportare produzione e merci e acquisire manodopera a basso costo. Il gioco ha funzionato per poco tempo. Ci si è accorti che i nuovi entrati avevano grandi necessità di fondi per svilupparsi e realtà sociali molto diverse rispetto ai fondatori. In termini pensionistici, di welfare e di tradizione industriale. Così ci si aspettava di ricevere forza e invece l’Ue si è diluita. Poi è arrivata la globalizzazione, che ha cambiato le prospettive. Scoppiati il Covid e poi la guerra in Ucraina, ecco che Bruxelles ci riprova. Per tentare di tenere in piedi la propria economia, rilancia il modello dell’allargamento. Cosa andrà storto? I rischi sono elevati. Non solo per il fatto che già non è andata bene in passato, ma anche perché l’Ucraina, la Moldavia, la Georgia e il nocciolo dei Paesi balcanici sono un rischio geopolitico enorme. Per gestirli serve poter emettere tanto debito pubblico e un esercito forte. L’Ue non ha nessuna delle due armi. Non solo. Bruxelles sembra omettere, come sempre, il ruolo della Gran Bretagna, presente in Ucraina e pure nei Balcani. Londra lavora alla Global Britain e per raggiungere l’obiettivo deve indebolire l’Ue. L’Inghilterra ha la sua valuta e può appoggiarsi agli Stati Uniti. Quasi dispone delle armi che mancano al resto del Vecchio continente. L’impressione è che Bruxelles rischi di essere vittima di coazione a ripetere, e non sia in grado di fermare le bocce, ragionando su quale strategia possa risollevare l’economia. Se continuiamo a voler risolvere i problemi europei con lo slogan «Più Europa», qualcuno si farà male.
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