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2018-03-31
Il Vaticano smentisce le fantasie di Scalfari: a «Repubblica» però se ne fregano
ANSA
Sparecchiava, forse, Eugenio Scalfari. Come nella insuperata scena di Amici miei, atto secondo. Sta di fatto che della smentita con cui il Vaticano (il Vaticano, non il bar all'angolo) ha completamente privato di senso l'intervista a Francesco pubblicata giovedì, su Repubblica di ieri non c'era traccia.
L'abitudine a travisare lievissimamente il pensiero papale pare invalsa nel fondatore: già nel 2013 ebbe a «dialogare» con padre Federico Lombardi, dopo aver scritto, il 29 dicembre, che Jorge Mario Bergoglio «è rivoluzionario per tanti aspetti del suo ancor breve pontificato, ma soprattutto su un punto fondamentale: di fatto ha abolito il peccato». Fu quella la prima eresia attribuita al pontefice argentino, e non era ancora arrivato il Sinodo. Il Vaticano, come due giorni fa, dovette per forza di cose correre al riparo e definire, con un certo understatement, «non pertinente» l'affermazione sul peccato. Del resto, oltre che con la misericordia, i toni bassi si giustificavano con il fatto che non puoi troppo squalificare un interlocutore che il tuo superiore (peraltro vicario di Cristo) ha così fortemente preso in simpatia da accordargli un'amicizia imprevedibile e sincera. Unica stoccata, allora, fu la frase: «Chi segue veramente il Papa giorno per giorno sa quante volte egli parli del peccato», seguita dalla considerazione che forse il giornalista «non si trova sempre a suo agio in campo biblico teologico», tanto da aver commesso una «inesattezza evidente» . Nello stesso articolo, in effetti, Scalfari ebbe a dire che il Papa era «gesuita al punto d'aver canonizzato pochi giorni fa Ignazio di Loyola», il quale salì all'onore degli altari nel 1622, una settantina d'anni dopo la sua scomparsa. Con piroetta da navigata ballerina, Scalfari tenne il punto evitando di ammettere lo sfondone: «Volevo segnalare che papa Francesco ha sottolineato l'importanza del fondatore della Compagnia di Gesù (...) Mi scuso per l'imprecisione lessicale».
Almeno, in tal caso, venne riconosciuta facoltà al Vaticano di parlare, e Repubblica diede conto della smentita. Stavolta, a fronte della dichiarazione vaticana secondo cui «nessun virgolettato» è da considerarsi come fedele trascrizione del pensiero di Bergoglio, nulla. Anche nel novembre 2013 e nel luglio 2014 due chiacchierate del Papa con Scalfari provocarono precisazioni di tenore simile, con il giornalista che si difese spiegando il suo metodo di lavoro (che non prevede di prendere appunti) e ammise che un po' di cose, insomma, non era certo di ricordarle esattamente, mentre altre «io glieLe faccio dire tra virgolette, Lei non le ha dette, ma io le ho incluse perché consideravo che, facendogli dire certe cose, il lettore poteva capire meglio chi è Lei». Anche in quel caso, comunque, Scalfari e il suo giornale in qualche modo reagivano alle smentite, ne prendevano quantomeno atto. Perlomeno la cosa faceva un minimo di casino.
Stavolta no: zero. Il precedente creato è che si può incontrare il Papa, mettergli in bocca delle eresie, e fottersene allegramente se il Vaticano dice - pure in modo cauto rispetto alla gravità dei fatti - che i virgolettati sono frutto di ricostruzioni, e dunque non riconducibili a Bergoglio.
Repubblica è peraltro in buona compagnia, se è vero che si contano sulle dita di un mutilato i giornali che hanno dato evidenza a un caso che, all'estero, ha registrato un'eco assai rilevante, dalle agenzie alle grandi testate (ieri era in prima sul Times, per dire), che hanno raccontato intervista, sbalordimento per la tesi sulla scomparsa dell'inferno, smentita e relativo, nuovo pastrocchio comunicativo in piena settimana santa.
I lettori italiani, salvo i nostri e quelli di Fatto, Foglio e pochi altri, di tutto ciò sono rimasti all'oscuro. Apprendevano dei crolli di calcinacci in San Pietro, dell'operazione alla cataratta che papa Francesco sosterrà nel 2019, ma non di un caso internazionale che vede coinvolti il pontefice, il diavolo e il decano dei giornalisti italiani. Probabilmente è una forma di tenera rimozione delle intemerate del venerabile cronista. Se è così, non la merita. Proprio perché Scalfari è un genio del mestiere, un fenomeno senza pari sia nell'editoria sia nel giornalismo in senso stretto: ha tempra e tigna da vendere a 93 anni, è reduce da un duello micidiale con il suo ex editore Carlo De Benedetti («Me ne fotto delle sue critiche», ha scandito in tv) e dà spettacolo anche, soprattutto con le sue roboanti puttanate. È cosa buona e giusta, pertanto, ricordare - restando confinati all'ambito ecclesiale - che Eugenio Scalfari nel 2007 ha scritto sull'Espresso che il libro del filosofo francese Jean Luc Marion aveva una «parte sostanziosa dedicata a una delle encicliche di papa Ratzinger», quando il testo risaliva al 2003, epoca in cui al soglio pontificio, a scrivere encicliche, c'era Giovanni Paolo II. Sempre di Benedetto XVI, Scalfari scrisse: «Non è un grande Papa, anche se l'ingegno e la dottrina non gli mancano: scrive bene, questo sì», bontà sua, ma è «lezioso». Il viziaccio si sarebbe manifestato nell'aver «riesumato in pieno la tomistica di Tommaso d'Aquino con tanti saluti a Origene, Anselmo d'Aosta e Bernardo». Ai sant'uomini, peraltro, Ratzinger dedicò, da papa regnante, fior di udienze generali, ma a questo livello evitare smentite è evidentemente parso un atto di minimale buonsenso.
Per il resto, ormai va preso atto che vale tutto. Ma al prossimo allarme sulle fake news montato da Repubblica è lecito scomodare di nuovo Amici miei, stavolta per parlare di purissima supercazzola.
Martino Cervo
Traballa pure la versione ufficiale sull’addio al fascismo di Barbapapà
Non è un buon momento per Eugenio Scalfari: bacchettato dal Vaticano per aver messo parole in libertà in bocca niente meno che al Papa, ora Barbapapà si trova a dover subire addirittura del fuoco amico su un vecchio nodo biografico mai sciolto: la sua giovanile adesione al fascismo.
Sul sito di Micromega, testata del gruppo Espresso, è infatti apparsa una ricostruzione del suo congedo dai ranghi mussoliniani sensibilmente diversa da quella raccontata dal fondatore di Repubblica stesso. L'autore della puntuale disamina storica è Dario Borso, studioso di Italo Calvino, che con Scalfari ha avuto una tumultuosa corrispondenza giovanile.
Già tempo fa, Borso aveva dimostrato come la pretesa scalfariana di aver esordito sulla carta stampata nella seconda metà del 1942, sulle colonne di Roma fascista, fosse in realtà contraddetta dalle lettere di Calvino, che all'amico rimproverava, senza lesinare irrisioni e insulti, di essere entrato nel «vivaio giovanile» del regime già nel febbraio del 1942, con articoli pubblicati su Gioventù italica e Conquiste d'Impero. Le nuove rivelazioni di Borso non hanno a che fare con l'inizio dell'attività giornalistica fascista di Scalfari, ma con la sua fine. Barbapapà ha raccontato di aver smesso la camicia nera dopo un incidente diplomatico accaduto a metà gennaio 1943. In un momento di assenza dei responsabili del giornale, Ugo Indrio e Regdo Scodro, il giovane Scalfari ne avrebbe approfittato per mettere in pagina, in un «neretto», un atto d'accusa contro i gerarchi che mangiavano sui cantieri dell'Eur.
Convocato dal vicesegretario del Pnf, Carlo Scorza, non potendo dimostrare chi avesse preso tangenti, fu cacciato come calunniatore. Questa fu la versione di Scalfari, che ovviamente, a posteriori, ne ha approfittato per dare a tutto il racconto un tono autoelogiativo a proposito del giovane puro cacciato dai burocrati corrotti, che così indirettamente gli mostrarono la realtà del regime. In una famosa intervista concessa a Pietrangelo Buttafuoco, Scalfari aveva descritto lo smarrimento provato dopo la sfuriata e il lento ritrovare sé stesso: «Avevo 18 anni e giorno dopo giorno prendo coscienza che forse avevano avuto ragione ad espellermi dal Guf. Forse non ero fascista». Troppo onesto, troppo amante della verità, troppo integerrimo per il fascismo, lui. Ma siamo sicuri che sia andata così?
Borso si è voluto documentare, ed ecco cosa ha scoperto: «L'unico numero di Roma fascista senza articoli di Indrio e Scodro è quello del 21 gennaio '43; né in prima pagina né nelle altre pagine di questo numero risultano neretti; in nessun numero di gennaio come dei mesi precedenti e seguenti c'è un minimo accenno ai lavori dell'Eur (tantomeno ai profittatori), per il motivo che essi erano fermi da un anno, e nessuno intendeva né poteva proseguirli, visti i rovesci militari. Che poi Scalfari, qualora espulso in gennaio, scrivesse sul mussolinissimo Nuovo Occidente fino al 19 giugno e su Roma fascista fino al 23 giugno '43, è fuori da ogni logica; e che infine lo tollerasse Scorza stesso, divenuto segretario nazionale del Pnf in aprile, è fuori da ogni grazia di Dio». Va da sé che mentire su quando si è diventati fascisti può essere una banale dimenticanza o un qualche vezzo in fondo innocuo. Falsificare le circostanze in cui si è cessato di esserlo è tutt'altro paio di maniche, soprattutto se poi, qualche anno dopo, si è diventati dei santoni dell'antifascismo. Quello scandalo, quindi, sembra che non ci fu. Quel dito nella piaga delle magagne del regime non venne mai messo. E, di conseguenza, non ci fu mai neanche quella lavata di testa, quelle mostrine stracciate dal bruto Sforza e quell'ostracismo contro il giovane cronista coraggioso. E allora come finì, il lungo viaggio di Eugenio Scalfari attraverso il fascismo? Forse in modo meno eroico, forse con un banale vivacchiare all'ombra del crollo del regime, chissà.
Di certo la sua militanza nei ranghi del giornalismo in camicia nera fu più lunga e articolata di quanto Barbapapà non abbia raccontato. Anche se, a giudicare dalle missive inviperite che gli mandava Calvino, non si trattò esattamente di un impegno disinteressato. Il 7 marzo 1942, così lo scrittore apostrofava il futuro fondatore di Repubblica: «Quando la finirai di pronunciare al mio cospetto frasi come queste: “tutti i mezzi son buoni pur di riuscire" “seguire la corrente" “adeguarsi ai tempi"? Sono queste le idee di un giovane che dovrebbe affacciarsi alla vita con purezza d'intenti e serenità d'ideali?». Evidentemente il tempo della schiena dritta e del giornalismo civile non era ancora venuto, per il giovane Scalfari. Di cui, tuttavia, ci restano gloriose prove giovanili, come l'indimenticato «Spiritualizzare la corporazione», uscito nel giugno 1942 su Conquiste d'Impero, diretto da Corrado Petrone, in cui leggiamo: «La battaglia spirituale è già stata iniziata, grazie all'opera e alle direttive precise del Duce, fin dai primi anni del fascismo. A noi spetta il condurla a compimento». A chi la coerenza, camerata Eugenio? A noi!
Adriano Scianca
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Riduci
La stampa internazionale racconta l'incidente sull'intervista al Papa che «cancella» l'inferno. In Italia, silenzio quasi totale.Micromega pubblica uno studio che svela dubbi e contraddizioni nel racconto del Fondatore. Già Italo Calvino lo aveva sgridato: «Smetti di dire che bisogna seguire la corrente».Lo speciale contiene due articoliSparecchiava, forse, Eugenio Scalfari. Come nella insuperata scena di Amici miei, atto secondo. Sta di fatto che della smentita con cui il Vaticano (il Vaticano, non il bar all'angolo) ha completamente privato di senso l'intervista a Francesco pubblicata giovedì, su Repubblica di ieri non c'era traccia. L'abitudine a travisare lievissimamente il pensiero papale pare invalsa nel fondatore: già nel 2013 ebbe a «dialogare» con padre Federico Lombardi, dopo aver scritto, il 29 dicembre, che Jorge Mario Bergoglio «è rivoluzionario per tanti aspetti del suo ancor breve pontificato, ma soprattutto su un punto fondamentale: di fatto ha abolito il peccato». Fu quella la prima eresia attribuita al pontefice argentino, e non era ancora arrivato il Sinodo. Il Vaticano, come due giorni fa, dovette per forza di cose correre al riparo e definire, con un certo understatement, «non pertinente» l'affermazione sul peccato. Del resto, oltre che con la misericordia, i toni bassi si giustificavano con il fatto che non puoi troppo squalificare un interlocutore che il tuo superiore (peraltro vicario di Cristo) ha così fortemente preso in simpatia da accordargli un'amicizia imprevedibile e sincera. Unica stoccata, allora, fu la frase: «Chi segue veramente il Papa giorno per giorno sa quante volte egli parli del peccato», seguita dalla considerazione che forse il giornalista «non si trova sempre a suo agio in campo biblico teologico», tanto da aver commesso una «inesattezza evidente» . Nello stesso articolo, in effetti, Scalfari ebbe a dire che il Papa era «gesuita al punto d'aver canonizzato pochi giorni fa Ignazio di Loyola», il quale salì all'onore degli altari nel 1622, una settantina d'anni dopo la sua scomparsa. Con piroetta da navigata ballerina, Scalfari tenne il punto evitando di ammettere lo sfondone: «Volevo segnalare che papa Francesco ha sottolineato l'importanza del fondatore della Compagnia di Gesù (...) Mi scuso per l'imprecisione lessicale».Almeno, in tal caso, venne riconosciuta facoltà al Vaticano di parlare, e Repubblica diede conto della smentita. Stavolta, a fronte della dichiarazione vaticana secondo cui «nessun virgolettato» è da considerarsi come fedele trascrizione del pensiero di Bergoglio, nulla. Anche nel novembre 2013 e nel luglio 2014 due chiacchierate del Papa con Scalfari provocarono precisazioni di tenore simile, con il giornalista che si difese spiegando il suo metodo di lavoro (che non prevede di prendere appunti) e ammise che un po' di cose, insomma, non era certo di ricordarle esattamente, mentre altre «io glieLe faccio dire tra virgolette, Lei non le ha dette, ma io le ho incluse perché consideravo che, facendogli dire certe cose, il lettore poteva capire meglio chi è Lei». Anche in quel caso, comunque, Scalfari e il suo giornale in qualche modo reagivano alle smentite, ne prendevano quantomeno atto. Perlomeno la cosa faceva un minimo di casino.Stavolta no: zero. Il precedente creato è che si può incontrare il Papa, mettergli in bocca delle eresie, e fottersene allegramente se il Vaticano dice - pure in modo cauto rispetto alla gravità dei fatti - che i virgolettati sono frutto di ricostruzioni, e dunque non riconducibili a Bergoglio.Repubblica è peraltro in buona compagnia, se è vero che si contano sulle dita di un mutilato i giornali che hanno dato evidenza a un caso che, all'estero, ha registrato un'eco assai rilevante, dalle agenzie alle grandi testate (ieri era in prima sul Times, per dire), che hanno raccontato intervista, sbalordimento per la tesi sulla scomparsa dell'inferno, smentita e relativo, nuovo pastrocchio comunicativo in piena settimana santa.I lettori italiani, salvo i nostri e quelli di Fatto, Foglio e pochi altri, di tutto ciò sono rimasti all'oscuro. Apprendevano dei crolli di calcinacci in San Pietro, dell'operazione alla cataratta che papa Francesco sosterrà nel 2019, ma non di un caso internazionale che vede coinvolti il pontefice, il diavolo e il decano dei giornalisti italiani. Probabilmente è una forma di tenera rimozione delle intemerate del venerabile cronista. Se è così, non la merita. Proprio perché Scalfari è un genio del mestiere, un fenomeno senza pari sia nell'editoria sia nel giornalismo in senso stretto: ha tempra e tigna da vendere a 93 anni, è reduce da un duello micidiale con il suo ex editore Carlo De Benedetti («Me ne fotto delle sue critiche», ha scandito in tv) e dà spettacolo anche, soprattutto con le sue roboanti puttanate. È cosa buona e giusta, pertanto, ricordare - restando confinati all'ambito ecclesiale - che Eugenio Scalfari nel 2007 ha scritto sull'Espresso che il libro del filosofo francese Jean Luc Marion aveva una «parte sostanziosa dedicata a una delle encicliche di papa Ratzinger», quando il testo risaliva al 2003, epoca in cui al soglio pontificio, a scrivere encicliche, c'era Giovanni Paolo II. Sempre di Benedetto XVI, Scalfari scrisse: «Non è un grande Papa, anche se l'ingegno e la dottrina non gli mancano: scrive bene, questo sì», bontà sua, ma è «lezioso». Il viziaccio si sarebbe manifestato nell'aver «riesumato in pieno la tomistica di Tommaso d'Aquino con tanti saluti a Origene, Anselmo d'Aosta e Bernardo». Ai sant'uomini, peraltro, Ratzinger dedicò, da papa regnante, fior di udienze generali, ma a questo livello evitare smentite è evidentemente parso un atto di minimale buonsenso.Per il resto, ormai va preso atto che vale tutto. Ma al prossimo allarme sulle fake news montato da Repubblica è lecito scomodare di nuovo Amici miei, stavolta per parlare di purissima supercazzola.Martino Cervo<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/scalfari-repubblica-fascismo-2554997614.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="traballa-pure-la-versione-ufficiale-sulladdio-al-fascismo-di-barbapapa" data-post-id="2554997614" data-published-at="1765658649" data-use-pagination="False"> Traballa pure la versione ufficiale sull’addio al fascismo di Barbapapà Non è un buon momento per Eugenio Scalfari: bacchettato dal Vaticano per aver messo parole in libertà in bocca niente meno che al Papa, ora Barbapapà si trova a dover subire addirittura del fuoco amico su un vecchio nodo biografico mai sciolto: la sua giovanile adesione al fascismo. Sul sito di Micromega, testata del gruppo Espresso, è infatti apparsa una ricostruzione del suo congedo dai ranghi mussoliniani sensibilmente diversa da quella raccontata dal fondatore di Repubblica stesso. L'autore della puntuale disamina storica è Dario Borso, studioso di Italo Calvino, che con Scalfari ha avuto una tumultuosa corrispondenza giovanile. Già tempo fa, Borso aveva dimostrato come la pretesa scalfariana di aver esordito sulla carta stampata nella seconda metà del 1942, sulle colonne di Roma fascista, fosse in realtà contraddetta dalle lettere di Calvino, che all'amico rimproverava, senza lesinare irrisioni e insulti, di essere entrato nel «vivaio giovanile» del regime già nel febbraio del 1942, con articoli pubblicati su Gioventù italica e Conquiste d'Impero. Le nuove rivelazioni di Borso non hanno a che fare con l'inizio dell'attività giornalistica fascista di Scalfari, ma con la sua fine. Barbapapà ha raccontato di aver smesso la camicia nera dopo un incidente diplomatico accaduto a metà gennaio 1943. In un momento di assenza dei responsabili del giornale, Ugo Indrio e Regdo Scodro, il giovane Scalfari ne avrebbe approfittato per mettere in pagina, in un «neretto», un atto d'accusa contro i gerarchi che mangiavano sui cantieri dell'Eur. Convocato dal vicesegretario del Pnf, Carlo Scorza, non potendo dimostrare chi avesse preso tangenti, fu cacciato come calunniatore. Questa fu la versione di Scalfari, che ovviamente, a posteriori, ne ha approfittato per dare a tutto il racconto un tono autoelogiativo a proposito del giovane puro cacciato dai burocrati corrotti, che così indirettamente gli mostrarono la realtà del regime. In una famosa intervista concessa a Pietrangelo Buttafuoco, Scalfari aveva descritto lo smarrimento provato dopo la sfuriata e il lento ritrovare sé stesso: «Avevo 18 anni e giorno dopo giorno prendo coscienza che forse avevano avuto ragione ad espellermi dal Guf. Forse non ero fascista». Troppo onesto, troppo amante della verità, troppo integerrimo per il fascismo, lui. Ma siamo sicuri che sia andata così? Borso si è voluto documentare, ed ecco cosa ha scoperto: «L'unico numero di Roma fascista senza articoli di Indrio e Scodro è quello del 21 gennaio '43; né in prima pagina né nelle altre pagine di questo numero risultano neretti; in nessun numero di gennaio come dei mesi precedenti e seguenti c'è un minimo accenno ai lavori dell'Eur (tantomeno ai profittatori), per il motivo che essi erano fermi da un anno, e nessuno intendeva né poteva proseguirli, visti i rovesci militari. Che poi Scalfari, qualora espulso in gennaio, scrivesse sul mussolinissimo Nuovo Occidente fino al 19 giugno e su Roma fascista fino al 23 giugno '43, è fuori da ogni logica; e che infine lo tollerasse Scorza stesso, divenuto segretario nazionale del Pnf in aprile, è fuori da ogni grazia di Dio». Va da sé che mentire su quando si è diventati fascisti può essere una banale dimenticanza o un qualche vezzo in fondo innocuo. Falsificare le circostanze in cui si è cessato di esserlo è tutt'altro paio di maniche, soprattutto se poi, qualche anno dopo, si è diventati dei santoni dell'antifascismo. Quello scandalo, quindi, sembra che non ci fu. Quel dito nella piaga delle magagne del regime non venne mai messo. E, di conseguenza, non ci fu mai neanche quella lavata di testa, quelle mostrine stracciate dal bruto Sforza e quell'ostracismo contro il giovane cronista coraggioso. E allora come finì, il lungo viaggio di Eugenio Scalfari attraverso il fascismo? Forse in modo meno eroico, forse con un banale vivacchiare all'ombra del crollo del regime, chissà. Di certo la sua militanza nei ranghi del giornalismo in camicia nera fu più lunga e articolata di quanto Barbapapà non abbia raccontato. Anche se, a giudicare dalle missive inviperite che gli mandava Calvino, non si trattò esattamente di un impegno disinteressato. Il 7 marzo 1942, così lo scrittore apostrofava il futuro fondatore di Repubblica: «Quando la finirai di pronunciare al mio cospetto frasi come queste: “tutti i mezzi son buoni pur di riuscire" “seguire la corrente" “adeguarsi ai tempi"? Sono queste le idee di un giovane che dovrebbe affacciarsi alla vita con purezza d'intenti e serenità d'ideali?». Evidentemente il tempo della schiena dritta e del giornalismo civile non era ancora venuto, per il giovane Scalfari. Di cui, tuttavia, ci restano gloriose prove giovanili, come l'indimenticato «Spiritualizzare la corporazione», uscito nel giugno 1942 su Conquiste d'Impero, diretto da Corrado Petrone, in cui leggiamo: «La battaglia spirituale è già stata iniziata, grazie all'opera e alle direttive precise del Duce, fin dai primi anni del fascismo. A noi spetta il condurla a compimento». A chi la coerenza, camerata Eugenio? A noi! Adriano Scianca
Gabriele D'Annunzio (Ansa)
Il patrimonio mondiale dell’umanità rappresentato dalla cucina italiana sarà pure «immateriale», come da definizione Unesco, ma è fatto di carne, ossa, talento e creatività. È il risultato delle centinaia di migliaia di persone che, nel corso dei secoli e dei millenni, hanno affinato tecniche, scoperto ingredienti, assemblato gusti, allevato animali con amore e coltivato la terra con altrettanta dedizione. Insomma, dietro la cucina italiana ci sono... gli italiani.
Ed è a tutti questi peones e protagonisti della nostra storia che il riconoscimento va intestato. Ma anche a chi assapora le pietanze in un ristorante, in un bistrot o in un agriturismo. Alla fine, se ci si pensa, la cucina italiana siamo tutti noi: sono i grandi chef come le mamme o le nonne che si danno da fare tra le padelle della cucina. Sono i clienti dei ristoranti, gli amanti dei formaggi come dei salumi. Sono i giornalisti che fanno divulgazione, sono i fotografi che immortalano i piatti, sono gli scrittori che dedicano pagine e pagine delle loro opere ai manicaretti preferiti dal protagonista di questo o quel romanzo. Insomma, la cucina è cultura, identità, passato e anche futuro.
Giancarlo Saran, gastropenna di questo giornale, ha dato alle stampe Peccatori di gola 2 (Bolis edizioni, 18 euro, seguito del fortunato libro uscito nel 2024 vincitore del Premio selezione Bancarella cucina), volume contenente 13 ritratti di personaggi di spicco del mondo dell’italica buona tavola («Un viaggio curioso e goloso tra tavola e dintorni, con illustri personaggi del Novecento compresi alcuni insospettabili», sentenzia l’autore sulla quarta di copertina). Ci sono il «fotografo» Bob Noto e l’attore Ugo Tognazzi, l’imprenditore Giancarlo Ligabue e gli scrittori Gabriele D’Annunzio, Leonardo Sciascia e Andrea Camilleri. E poi ancora Lella Fabrizi (la sora Lella), Luciano Pavarotti, Pietro Marzotto, Gianni Frasi, Alfredo Beltrame, Giuseppe Maffioli, Pellegrino Artusi.
Un giro d’Italia culinario, quello di Saran, che testimonia come il riconoscimento Unesco potrebbe dare ulteriore valore al nostro made in Italy, con risvolti di vario tipo: rispetto dell’ambiente e delle nostre tradizioni, volano per l’economia e per il turismo, salvaguardia delle radici dal pericolo di una appiattente omologazione sociale e culturale. Sfogliando Peccatori 2, si può possono scovare, praticamente a ogni pagina, delle chicche. Tipo, la passione di D’Annunzio per le uova e la frittata. Scrive Saran: «D’Annunzio aveva un’esperienza indelebile legata alle frittate, che ebbe occasione di esercitare in diretta nelle giornate di vacanza a Francavilla con i suoi giovani compagni di ventura in cui, a rotazione, erano chiamati “l’uno a sfamare tutti gli altri”. Lasciamogli la cronaca in diretta. Chi meglio di lui. “In un pomeriggio di luglio ci attardavamo nella delizia del bagno quando mi fu rammentato, con le voci della fame, toccare a me le cura della cucina”. La affronta come si deve. “Non mancai di avvolgermi in una veste di lino rapita a Ebe”, la dea della giovinezza, “e di correre verso la vasta dimora costruita di tufo e adornata di maioliche paesane”. Non c’è storia: “Ruppi trentatré uova e, dopo averle sbattute, le agguagliai (mischiai) nella padella dal manico di ferro lungo come quello di una chitarra”. La notte è illuminata dal chiaro di luna che si riflette sulle onde, silenziose in attesa, e fu così che “adunai la sapienza e il misurato vigore... e diedi il colpo attentissimo a ricevere la frittata riversa”. Ma nulla da fare, questa, volando nel cielo non ricadde a terra, ovvero sulla padella. E qui avviene il miracolo laico. “Nel volgere gli occhi al cielo scorsi nel bagliore del novilunio la tunica e l’ala di un angelo”. Il finale conseguente. “L’angelo, nel passaggio, aveva colta la frittata in aria, l’aveva rapita, la sosteneva con le dita” con la missione imperativa di recarla ai Beati, “offerta di perfezione terrestre...”, di cui lui era stato (seppur involontario) protagonista. “Io mi vanto maestro insuperabile nell’arte della frittata per riconoscimento celestiale”.
La buona e sana cucina, dunque, ha come traino produttori e ristoratori «ma ancor più valore aggiunto deriva da degni ambasciatori e, con questo, i Peccatori di gola credo meritino piena assoluzione», conclude l’autore.
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Dal primo luglio 2026, in tutta l’Unione europea entrerà in vigore un contributo fisso di tre euro per ciascun prodotto acquistato su internet e spedito da Paesi extra-Ue, quando il valore della spedizione è inferiore a 150 euro. L’orientamento politico era stato definito già il mese scorso; la riunione di ieri del Consiglio Ecofin (12 dicembre) ne ha reso operativa l’applicazione, stabilendone i criteri.
Il prelievo di 3 euro si applicherà alle merci in ingresso nell’Unione europea per le quali i venditori extra-Ue risultano registrati allo sportello unico per le importazioni (Ioss) ai fini Iva. Secondo fonti di Bruxelles, questo perimetro copre «il 93% di tutti i flussi di e-commerce verso l’Ue».
In realtà, la misura non viene presentata direttamente come un’iniziativa mirata contro la Cina, anche se è dalla Repubblica Popolare che proviene la quota maggiore di pacchi. Una delle preoccupazioni tra i ministri è che parte della merce venga immessa nel mercato unico a prezzi artificialmente bassi, anche attraverso pratiche di sottovalutazione, per aggirare le tariffe che si applicano invece alle spedizioni oltre i 150 euro. La Commissione europea stima che nel 2024 il 91% delle spedizioni e-commerce sotto i 150 euro sia arrivato dalla Cina; inoltre, valutazioni Ue indicano che fino al 65% dei piccoli pacchi in ingresso potrebbe essere dichiarato a un valore inferiore al reale per evitare i dazi doganali.
«La decisione sui dazi doganali per i piccoli pacchi in arrivo nell’Ue è importante per garantire una concorrenza leale ai nostri confini nell’era odierna dell’e-commerce», ha detto il commissario per il Commercio, Maroš Šefčovič. Secondo il politico slovacco, «con la rapida espansione dell’e-commerce, il mondo sta cambiando rapidamente e abbiamo bisogno degli strumenti giusti per stare al passo».
La decisione finale da parte di Bruxelles arriva dopo un iter normativo lungo cinque anni. La Commissione europea aveva messo sul tavolo, nel maggio 2023, la cancellazione dell’esenzione dai dazi doganali per i pacchi con valore inferiore a 150 euro, inserendola nel pacchetto di riforma doganale. Nella versione originaria, l’entrata in vigore era prevista non prima della metà del 2028. Successivamente, il Consiglio ha formalizzato l’abolizione dell’esenzione il 13 novembre 2025, chiedendo però di anticipare l’applicazione già al 2026.
C’è poi un secondo balzello messo a punto dall’esecutivo Meloni. Si tratta di un emendamento che prevede l’introduzione di un contributo fisso di due euro per ogni pacco spedito con valore dichiarato fino a 150 euro.
La misura, però, non sarebbe limitata ai soli invii provenienti da Paesi extra-Ue. Rispetto alle ipotesi circolate in precedenza, l’impostazione è stata ampliata: se approvata, la tassa finirebbe per applicarsi a tutte le spedizioni di piccoli pacchi, indipendentemente dall’origine, quindi anche a quelle spedite dall’Italia. In origine, l’idea sembrava mirata soprattutto a intercettare le micro-spedizioni generate da piattaforme come Shein o Temu. Il punto, però, è che colpire esclusivamente i pacchi extra-europei avrebbe reso la misura assimilabile a un dazio, materia che rientra nella competenza dell’Unione europea e non dei singoli Stati membri. Per evitare questo profilo di incompatibilità, l’emendamento alla manovra 2026 ha quindi «generalizzato» il prelievo, estendendolo all’intero perimetro delle spedizioni. L’effetto pratico è evidente: la tassa non impatterebbe solo sulle piattaforme asiatiche, ma anche sugli acquisti effettuati su Amazon, eBay e, in generale, su qualsiasi negozio online che spedisca pacchi entro quella soglia di valore dichiarato.
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Riduci
Ansa
Insomma: il vento è cambiato. E non spinge più la solita, ingombrante, vela francese che negli ultimi anni si era abituata a intendere l’Italia come un’estensione naturale della Rive Gauche.
E invece no. Il pendolo torna indietro. E con esso tornano anche ricordi e fantasie: Piersilvio Berlusconi sogna la Francia. Non quella dei consessi istituzionali, ma quella di quando suo padre, l’unico che sia riuscito a esportare il varietà italiano oltre le Alpi, provò l’avventura di La Cinq.
Una televisione talmente avanti che il presidente socialista François Mitterrand, per non farla andare troppo lontano, decise di spegnerla. Letteralmente.
Erano gli anni in cui gli italiani facevano shopping nella grandeur: Gianni Agnelli prese una quota di Danone e Raul Gardini mise le mani sul più grande zuccherificio francese, giusto per far capire che il gusto per il raffinato non ci era mai mancato. Oggi al massimo compriamo qualche croissant a prezzo pieno.
Dunque, Berlusconi – quello junior, stavolta – può dirlo senza arrossire: «La Francia sarebbe un sogno». Si guarda intorno, valuta, misura il terreno: Tf1 e M6.
La prima, dice, «ha una storia imprenditoriale solida»: niente da dire, anche le fortezze hanno i loro punti deboli. Con la seconda, «una finta opportunità». Tradotto: l’affare che non c’è, ma che ti fa perdere lo stesso due settimane di telefonate.
Il vero punto, però, è che mentre noi guardiamo a Parigi, Parigi si deve rassegnare. Lo dimostra il clamoroso stop di Crédit Agricole su Bpm, piantato lì come un cartello stradale: «Fine delle ambizioni». Con Bank of America che conferma la raccomandazione «Buy» su Mps e alza il target price a 11 euro. E non c’è solo questo. Natixis ha dovuto rinunciare alla cassaforte di Generali dov’è conservata buona parte del risparmio degli italiani. Vivendi si è ritirata. Tim è tornata italiana.
Il pendolo, dicevamo, ha cambiato asse. E spinge ben più a Ovest. Certo Parigi rimane il più importante investitore estero in Italia. Ma il vento della geopolitica e cambiato. Il nuovo asse si snoda tra Washington e Roma Gli americani non stanno bussando alla porta: sono già entrati.
E non con due spicci.
Ieri le due sigle più «Miami style» che potessero atterrare nel dossier Ilva – Bedrock Industries e Flacks Group – hanno presentato le loro offerte. Americani entrambi. Dall’odore ancora fresco di oceano, baseball e investimenti senza fronzoli.
E non è un caso isolato.
In Italia operano oltre 2.700 imprese a partecipazione statunitense, che generano 400.000 posti di lavoro. Non esattamente compratori di souvenir. Sono radicati nei capannoni, nella logistica, nelle tecnologie, nei servizi, nella manifattura. Un pezzo intero di economia reale. Poi c’è il capitolo dei giganti della finanza globale: BlackRock, Vanguard, i soliti nomi che quando entrano in una stanza fanno più rumore del tuono. Hanno fiutato l’aria e annusato l’Italia come fosse un tartufo bianco d’Alba: raro, caro e conveniente.
Gli incontri istituzionali degli ultimi anni parlano chiaro: data center, infrastrutture, digitalizzazione, energia.
Gli americani non si accontentano. Puntano al core del futuro: tecnologia, energia, scienza della vita, space economy, agritech.
Dopo l’investimento di Kkr nella rete fissa Telecom - uno dei deal più massicci degli ultimi quindici anni - la direzione è segnata: Washington ha scoperto che l’Italia rende.
A ottobre 2025 la grande conferma: missione economica a Washington, con una pioggia di annunci per oltre 4 miliardi di euro di nuovi investimenti. Non bonus, non promesse, ma progetti veri: space economy, sostenibilità, energia, life sciences, agri-tech, turism. Tutti settori dove l’Italia è più forte di quanto creda, e più sottovalutata di quanto dovrebbe.
A questo punto il pendolo ha parlato: gli americani investono, i francesi frenano.
E chissà che, alla fine, non si chiuda il cerchio: gli Usa tornano in Italia come investitori netti, e Berlusconi torna in Francia come ai tempi dell’avventura di La Cinq.
Magari senza che un nuovo Mitterrand tolga la spina.
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