2023-01-11
«Scafisti a bordo della nave protetti dall’equipaggio». Conferme sulla mafia libica
Agli atti del procedimento di Trapani i video che smontano la favola dei salvatori. Gli attivisti delle Ong davano istruzioni ai trafficanti: «Ora fate indossare i salvagente».Con gli scafisti trafficanti di esseri umani, alcuni dei quali con un certo pedigree maturato negli ambienti della mala libica, stando agli atti dell’inchiesta della Procura di Trapani sulle spericolate operazioni del taxi del mare Iuventa, era nata una sorta di cooperazione. Attivisti delle Ong coinvolte e scafisti, fianco a fianco, hanno trasbordato migranti da barconi e gommoni su quelle che gli inquirenti siciliani dipingono ormai come sedicenti navi umanitarie. Con tanto di consegna, con scambio a mano, di giubbotti salvagente. In un video analizzato dagli investigatori è ben visibile lo scafista che raccoglie da tale Miriam, attivista di Save the Children, l’attrezzatura tecnica. Poi è la stessa Miriam a rivolgersi al trafficante e a chiedergli «di far indossare i giubbotti salvagente ai migranti, uno alla volta». Accanto alla Iuventa della Ong tedesca Jugend Retter, (nave sequestrata a Trapani, dove è in corso un procedimento nel quale sono imputati alcuni membri dell’equipaggio insieme ad attivisti di Save the Children e di Medici senza frontiere e in cui la presidenza del Consiglio e il ministero dell’Interno hanno chiesto di costituirsi parte civile), nel Mediterraneo centrale c’era la più piccola Vos Hestia, proprio di Save the Children. E sulla Vos Hestia sarebbero saliti, stando all’inchiesta, due scafisti. È il 23 maggio 2017 quando gli investigatori annotano un evento che ritengono particolarmente grave. Dopo un appuntamento in mare, in un punto ben preciso a largo della costa libica (circa undici miglia), la Vos Hestia si ferma, gli scafisti portano i migranti in posizione favorevole per il trasbordo (e forse anche per non far sconfinare la nave della Ong in zona libica) e dopo la chiamata del Centro di coordinamento italiano per il soccorso gli attivisti procedono al trasbordo «con la legittimazione del sopravvenuto soccorso in mare». Stando ai protocolli appare tutto regolare. Ma sulla nave, insieme ai migranti, salgono anche due scafisti. E gli investigatori registrano «l’atteggiamento protettivo» del comandante della nave, Marco Amato, e della team leader di Save the Children Gillian Moyes «nei confronti dei due scafisti accolti a bordo». Con tanto di «omessa denuncia» e «nessuna segnalazione alle autorità». Le Ong coinvolte, che come svelato dalla Verità inizialmente avevano pensato di agganciare i trafficanti di esseri umani con dei volantini da far distribuire in Libia, ben presto sarebbero riuscire a rodare il meccanismo e devono anche aver pensato di poter agire indisturbate. La disinvoltura, infatti, stando alle ricostruzioni degli inquirenti, è cresciuta a ogni operazione in mare. Il 26 giugno di quello stesso anno, si presentano sotto il taxi del mare tre personaggi su un gommone con due motori fuoribordo da 150 cavalli che, «data la loro potenza», scrivono gli investigatori, «consentivano una elevatissima velocità di navigazione». Uno indossa una felpa azzurra, uno una maglia a righe orizzontali e uno un giubbotto tipo bomber. Parlano in lingua araba e dicono: «Sta arrivando tanta gente». Poco dopo l’annuncio giungono nel punto d’incontro diversi barconi con centinaia di persone a bordo. I tre scafisti vengono identificati. E si tratta di personaggi di peso negli ambienti della mala libica: quello col bomber è Abdulsalem Suleiman Dabbashi. Non uno scafista qualunque. Ma un personaggio indicato come «organico all’omonima famiglia, ritenuta tra le più influenti di Sabratah, implicato in attività di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina verso l’Italia». È proprietario di un peschereccio di piccole dimensioni ed è considerato uno dei principali trafficanti di quell’area. Insieme a lui, con la maglietta a righe, c’è Nasser Emhemed Al Fituri, anche lui «appartenente al clan Dabbashi», sottolineano gli inquirenti. E si porta dietro una sfilza di precedenti per «contrabbando di idrocarburi e traffico di clandestini». E pure il tizio con la felpa blu, che di nome fa Abdelrahman, sarebbe un affiliato della stessa famiglia. Mentre su un altro gommone appare Abdelrahman Alì Omar Althumi, «noto trafficante di stupefacenti, già condannato e detenuto in Libia sotto il regime di Gheddafi». Gli investigatori precisano che «tutte le unità con i migranti a bordo erano costantemente scortate da numerose imbarcazioni di ridotte dimensioni con trafficanti, che avevano contatti tra di loro, oltre con i migranti e con gli operatori della Vos Hestia». E quando gli scafisti addirittura si avvicinano alla Vos Hestia per restituire i giubbotti di salvataggio, il comandante della nave Marco Amato afferma: «Sono stati bravi e collaborativi». Tutti aspetti che non sarebbero stati comunicati, come invece prevedono i protocolli, al Centro di coordinamento. Al quale «il comandante e il suo equipaggio», valutano gli inquirenti, «cooperando con i trafficanti [...] dichiaravano falsamente che questi ultimi erano uomini della Guardia costiera libica». Una scena simile si ripete il 13 ottobre. Con sempre più nonchalance. Gli scafisti «a bordo di due imbarcazioni in vetroresina», annotano gli investigatori, «dopo aver consegnato i migranti, sono rimasti in attesa che gli stessi venissero imbarcati sulla nave di soccorso». Una volta a bordo, come dimostra uno dei video registrati da un agente dello Sco, il Servizio centrale operativo della polizia di Stato, che si era infiltrato tra gli attivisti delle Ong, si è scoperto che «molti dei migranti consegnati dai trafficanti al personale della Vos Hestia fossero in possesso di passaporti e di ingenti somme di denaro». Ma ovviamente al loro arrivo sono stati spacciati per rifugiati fuggiti dalla guerra.
Carlo III e Donald Trump a Londra (Ansa)
Tyler Robinson dal carcere dello Utah (Ansa)