2022-01-30
Il sapiente del Palatino che provò a convertire D’Annunzio al taoismo
Giacomo Boni e Gabriele D'Annunzio (Ansa)
Un volume recente ricostruisce l’incredibile esistenza di Giacomo Boni, l’archeologo che dimostrò la verità dei miti sulla fondazione di Roma.Esiste uno studioso italiano che fu definito da Ugo Ojetti «uno degli uomini più singolari e affascinanti di questo secolo» e fu stimato da Gabriele D’Annunzio e da Ezra Pound; uno a cui il celebre antropologo britannico James Frazer scriveva: «Non so se ci sia in Senato una persona più di voi degna d’essere senatore romano»; uno a cui facevano regolarmente visita i membri della casa reale, ma anche il futuro imperatore del Giappone, Hirohito, i sovrani d’Inghilterra o il Kaiser di Germania; uno a cui fu riservato l’onore di essere l’unico moderno seppellito sul colle sacro del Palatino. Quello studioso si chiamava Giacomo Boni. Eppure, nonostante queste e molte altre benemerenze, il nome dell’archeologo veneziano - ma romano d’adozione - è oggi pressoché ignoto agli italiani. O, meglio, lo era. Proprio di recente, due fatti hanno contribuito a togliere dall’oblio il «vate del Palatino». Il primo è l’importante mostra dedicata a Boni a cura della sovraintendenza speciale per il Parco archeologico del Colosseo, inaugurata il 15 dicembre scorso e che durerà fino al 30 aprile. Il secondo è la pubblicazione, per i tipi di Altaforte, di una ponderosa e accurata biografia a firma di Sandro Consolato, intitolata Giacomo Boni. Scavi, misteri e utopie della Terza Roma. Se si esclude la biografia del 1932 curata dalla discepola Eva Tea, si tratta del più completo studio sulla vita straordinaria di quello che a Benedetto Croce, che lo incontrò intorno al 1906, apparve con «l’aspetto tra di mago e di veggente». Nato a Venezia il giorno di San Marco, il 25 aprile 1859, dopo gli studi tecnici, Boni aveva partecipato ai restauri che si eseguivano sul Palazzo Ducale di Venezia e aveva studiato architettura all’Accademia delle belle arti. Nel 1888 venne nominato ispettore dei monumenti della direzione generale delle Antichità e belle arti: nel 1898 divenne direttore pro tempore dell’ufficio regionale dei monumenti di Roma e a partire dal 1898 diresse gli scavi del foro romano, a cui a partire dal 1907 si aggiunsero quelli del Palatino, il colle su cui Romolo tracciò il solco primigenio di Roma. Partecipò anche all’operazione di recupero dei materiali delle macerie del campanile di Venezia, crollato improvvisamente il 14 luglio 1902, acquisendo per questo una fama internazionale che gli permise di diventare socio corrispondente del Royal Institute of British Architects e di essere spesso invitato da enti e istituzioni straniere, come la Royal Dublin Society. Studiò da solo il latino, il greco, il tedesco e l’inglese. La conoscenza di quest’ultima lingua lo portò a stringere rapporti culturali con intellettuali come John Ruskin, William Morris, Philip Webb e William Douglas Caröe.I lavori di Boni sul Palatino ebbero un’importanza culturale che andò ben oltre il ristretto ambito dell’archeologia. In quell’epoca, infatti, vigeva la convinzione che tutto ciò che c’era da scoprire sulle origini dell’Urbe fosse già stato scoperto e che le leggende sulla fondazione tramandate dai testi antichi fossero solo favole. Boni, invece, rivoluzionò totalmente il modo di guardare alle origini della civiltà romana, trovando sistematiche conferme alle verità della tradizione, secondo una linea interpretativa che arriva oggi fino ai lavori di Andrea Carandini. Alle sue ricerche nel foro romano si devono, tra le altre, la scoperta del Lapis niger, della Regia, del Lacus Curtius, dei cunicoli cesariani. Non di rado, le scoperte furono anticipate da intuizioni, segni, sogni premonitori. Il libro di Consolato è tuttavia denso di «sottotrame» e di storie nella storia. Boni fu un genio enciclopedico ed eclettico, dai vasti interessi e dagli infiniti contatti. A un certo punto lo troviamo, per esempio, in Irlanda a visitare le scuole pubbliche e misurare i crani degli scolari alla ricerca dei puri parlatori del gaelico. La sua convinzione, infatti, scrive Consolato, era che l’isola verde «fosse uno specchio quanto altri mai fedele dell’Età del Bronzo, in grado di dire molte cose anche su Roma arcaica». Tra i primi in Italia a occuparsi - con gli strumenti e i paradigmi dell’epoca - alla questione delle origini indoeuropee, nel 1905 Boni propose anche al ministero dell’Istruzione «indagini che avrebbero dovuto estendersi dall’Irlanda fino alle sedi dell’unità protoariana ed agli avanzi inesplorati della civiltà vedica, al settentrione dell’India». Una sua altra passione era invece quella per il taoismo, a cui cercò di convertire niente di meno che Gabriele D’Annunzio. In una lettera al poeta del 6 marzo 1916, Boni lo esortava a scoprire la spiritualità estremo-orientale: «Vorrei esserti accanto e dirti dei pensieri di Chuang-Tzeu, il Platone cinese del IV secolo av. Cristo, in cui sopravvive tanta parte del pensiero di Lao-Tzeu; la mente più robusta dell’antico estremo Oriente, che s’innalza nell’atmosfera cristallina, dove appena giunge l’aria terrena delle più alte vette dell’Imalaia, ed al cui confronto i monasteri confuciani sono come i monticelli della talpa nei prati. Solo varcando la soglia del Taoismo, la Sacra Via, si può di là iniziare la purificazione della verità senza lega, senza di che noi non possiamo influenzare gli altri in modo permanente. Il vero dolore si manifesta in silenzio; la vera via afferisce senza parole, la vera amicizia riunisce senza bisogno di sorrisi».Divenuto ormai una celebrità internazionale, nonché un convinto sostenitore del fascismo, Boni dovette a Benito Mussolini la possibilità di rimanere a vivere sul suo amato Palatino anche dopo essere andato in pensione (quando, sulle prime, il permesso gli fu negato, aveva mandato a dire di voler «morire come il cane Argo»). Il capo del fascismo assicurerà poi all’archeologo un legame ancor più stretto con l’amato colle sacro: dopo la morte di Boni, avvenuta il 10 luglio 1925, D’Annunzio mandò un messaggio al capo del governo in cui chiedeva «per lui l’onore della sepoltura sul Palatino e per me l’onore di scegliere il luogo, di disegnare il sepolcro e di incidere la iscrizione». Mussolini rispose: «Giacomo Boni dorme sul Palatino all’ombra di una grande palma. Mandami disegno e iscrizione». È ancora lì.
Nel riquadro il professor Andrea Fiorillo, presidente dell’Ente Europeo di Psichiatria e testimonial scientifico della giornata palermitana (iStock)
Il 10 ottobre Palermo celebra la Giornata Mondiale della Salute Mentale con eventi artistici, scientifici e culturali per denunciare abbandono e stigma e promuovere inclusione e cura, su iniziativa della Fondazione Tommaso Dragotto.
Il 10 ottobre, Palermo non sfila: agisce. In occasione della Giornata Mondiale della Salute Mentale, la città lancerà per il secondo anno consecutivo un messaggio inequivocabile: basta con l’abbandono, basta con i tagli, basta con lo stigma. Agire, tutti insieme, con la forza dei fatti e non l’ipocrisia delle parole. Sul palco dell’evento – reale e simbolico – si alterneranno concerti di musica classica, teatro militante, spettacoli di attori provenienti dal mondo della salute mentale, insieme con tavoli scientifici di livello internazionale e momenti di riflessione pubblica.
Di nuovo «capitale della salute mentale» in un Paese che troppo spesso lascia soli i più fragili, a Palermo si costruirà un racconto, fatto di inclusione reale, solidarietà vera, e cultura della comunità come cura. Organizzato dalla Fondazione Tommaso Dragotto e realizzato da Big Mama Production, non sarà solo un evento, ma una denuncia trasformata in proposta concreta. E forse, anche una lezione per tutta l’Italia che alla voce sceglie il silenzio, tra parole come quelle del professor Andrea Fiorillo, presidente dell’Ente Europeo di Psichiatria e testimonial scientifico della giornata palermitana che ha detto: «I trattamenti farmacologici e psicoterapici che abbiamo oggi a disposizione sono tra i più efficaci tra quelli disponibili in tutta la medicina. È vero che in molti casi si parla di trattamenti sintomatici e non curativi, ma molto spesso l’eliminazione del sintomo è di per sé stesso curativo. È bene - continua Fiorillo - diffondere il messaggio che oggi si può guarire dai disturbi mentali, anche dai più gravi, ma solo con un approccio globale che miri alla persona e non alla malattia».
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