2019-04-29
Sanità corrotta: camici sporchi e mazzette in corsia. Così rubano sulla nostra pelle
Dopo lo scandalo in Umbria, siamo andati a verificare la situazione nel resto d'Italia. Da Firenze a Catania, da Potenza a Bologna ecco la mappa della vergogna: tutti quelli che si arricchiscono truffando chi sta soffrendo.Ricordate Duilio Poggiolini? E Lady Asl? Per capire davvero le indecenze nei nostri ospedali, bisogna guardare al passato.Lo speciale contiene due articoli.Dopo lo scandalo che ha travolto la giunta regionale in Umbria, siamo andati a verificare lo stato del pianeta sanità nelle altre regioni d'Italia: da Firenze a Catania, da Potenza a Bologna, abbiamo scoperto una lunga lista di camici sporchi, mazzette in corsia, concorsi truccati e appalti irregolari. Tutto, ovviamente, sulla pelle dei malati. Ecco, città per città, la mappa della vergogna.Ce n'è davvero per tutti i gusti. Concorsi truccati, favori agli amici, mazzette per saltare la fila e materiale sanitario acquistato a prezzi maggiorati. La sanitopoli umbra, che ha scoperchiato un sistema di favoritismi politici, in cambio di appoggi e voti, tanto da spingere il vicepremier, Luigi Di Maio, a invocare una legge che tolga alle Regioni (e quindi alla politica) la possibilità di scegliere i manager della sanità, non è che un piccolo scorcio aperto su una mangiatoia, quella del settore sanitario in Italia, utile a chiunque voglia mettersi a fare affari. A scapito, sempre e comunque, dei cittadini. Come in Toscana, per esempio, dove alla fine del 2018 scoppiò lo scandalo cattedropoli al Careggi, il noto ospedale universitario di Firenze. Al centro delle indagini di quella che sembrava una semplice indagine sui poteri baronali c'erano i concorsi per l'assegnazione di posti da docente alla facoltà di medicina. A far muovere gli investigatori erano state le segnalazioni di un professore associato, Oreste Gallo, che per anni aveva atteso, invano, che venisse bandita la cattedra da ordinario nel suo dipartimento, senza mai ottenerla. Otto docenti universitari di materie mediche, di cui sei in servizio al Careggi, sono stati indagati per falso in atto pubblico e abuso d'ufficio e sono stati interdetti dall'esercizio delle pubbliche funzioni. Secondo gli inquirenti i concorsi universitari venivano tagliati su misura per alcuni candidati, con tanto di accordi per influenzare la programmazione accademica e indirizzare i posti da professore ordinario, associato e ricercatore in base a esigenze personali. Ma mesi di intercettazioni, telefoniche e ambientali, avrebbero portato alla luce un'altra realtà, ben peggiore. «Un universo torbido, fatto di intrighi e astuzie, di relazioni sessuali clandestine in corsia, di desideri morbosi di potere, di rivalità tracimate oltre i livelli di guardia», riportava il quotidiano La Nazione lo scorso 3 marzo, «fatto di truffe, mazzette, fondi per la ricerca utilizzati indebitamente avanzamenti di carriera fermati», ma anche di ipotetici «insabbiamenti» su sospette morti in corsia. Con «50 casi di presunti omicidi preterintenzionali» su cui l'ospedale avrebbe svolto un'indagine interna durata otto mesi, senza esito, perché «viene insabbiato tutto», come sarebbe riportato in una intercettazione. A quanto risulta, al momento, la magistratura non avrebbe avviato su questi versanti ulteriori filoni di indagine, ma lo stesso ministro della Sanità, Giulia Grillo, ha definito, nei giorni scorsi, «un'emergenza etica» la situazione del Careggi, mentre, in Regione, le opposizioni hanno presentato una mozione di sfiducia contro il presidente della Regione, Enrico Rossi. «Con questo atto chiederemo la sfiducia del presidente alla luce del recente scandalo a Careggi, che richiama da vicino lo scandalo consumatosi pochi giorni fa in Umbria», ha dichiarato il capogruppo della Lega, Elisa Montemagni, sostenuta dal consigliere, Jacopo Alberti, portavoce dell'opposizione secondo cui «pensare che ci siano medici e operatori sanitari interessati sempre e solo al loro benessere e alla loro poltrona, mentre dovrebbero avere come priorità la cura di persone ammalate, è inaudito». Ma la sanità Toscana è tutt'altro che nuova a queste situazioni. Nel luglio del 2018, a Prato, quattro ginecologi finirono agli arresti domiciliari con l'accusa di truffa e peculato per aver organizzato un sistema di visite intramoenia (utilizzando cioè le strutture ospedaliere), specificamente dedicate ai cittadini cinesi per le quali pretendevano pagamenti completamente in nero. A novembre, sempre nella Asl di Prato la procura aveva indagato 44 persone, tra medici, infermieri e tecnici di laboratorio dell'ospedale cittadino Santo Stefano, che per anni avevano favorito amici e parenti nell'effettuare prelievi ed esami del sangue senza pagare il ticket sanitario. Ma già nel 2015 la Regione era balzata agli onori delle cronache giudiziarie con il crac della ex Asl di Massa Carrara: 420 milioni di euro spariti nel nulla, e nessun colpevole. «La verità sostanziale dei fatti, la verità politica e la verità giudiziaria non sempre coincidono», scriveva, nell'ottobre del 2016, Stefano Mugnai, vicepresidente della commissione Sanità del consiglio regionale della Toscana. «La sola certezza relativa a quella vicenda è che il buco di bilancio esiste e che il solo individuato come responsabile e condannato (un dirigente dell'azienda sanitaria, ndr) non ha assorbito più di qualche spicciolo dell'intero deficit», mentre Rossi, all'epoca assessore regionale alla Salute, era stato «tirato pesantemente in ballo dalle motivazioni delle altrui sentenze di assoluzione». Senza che questo gli impedisse, poco dopo, di diventare governatore.A Catania le cose non vanno meglio. Il nucleo di polizia economico-finanziaria, coordinato dalla Procura distrettuale, ha completato un'indagine soprannominata «calepino» (dal nome manoscritto sul quale erano annotate le spese personali del medico corrotto finanziate dalle aziende private coinvolte), che ha svelato l'esistenza di un «rodato circuito corruttivo», alimentato da «dirigenti medici e agenti commerciali di note società farmaceutiche». Oggetto dell'inchiesta è stata una gara d'appalto da 55 milioni di euro bandita nel 2018 dal Policlinico universitario Vittorio Emanuele di Catania, che riguardava «l'approvvigionamento triennale, con opzione di rinnovo semestrale, di dispositivi medici per urologia». Suddiviso in 209 lotti, l'appalto doveva assicurare l'acquisto di dispositivi per gli ospedali di Messina, Siracusa, Ragusa, Enna e Catania. Le gare però avevano stranamente tutte ottenuto risultati simili, tanto che nei mesi successivi cominciarono a fioccare gli esposti di aziende che si ritenevano ingiustamente escluse dalla procedura. Le intercettazioni telefoniche, ambientali e gli accertamenti bancari hanno portato alla luce «un meccanismo allarmante per la sistematicità e la diffusione delle condotte illecite tracciate» e «animate dal perseguimento esclusivo di utilità personali in totale dispregio degli essenziali e rilevanti interessi pubblici in gioco», hanno scritto gli inquirenti. Sei colletti bianchi della sanità, due dei quali finiti ai domiciliari, sono accusati di corruzione, riciclaggio, concussione e turbativa d'asta. Tra gli arrestati, anche il direttore di un'unità operativa complessa dell'azienda ospedaliera del capoluogo etneo, Giuseppe Morgia. Secondo il procuratore capo, Carmelo Zuccaro, il «sistema andava avanti da anni» e riguardava gare che «servivano a fornire prodotti fondamentali per le terapie chirurgiche e mediche urologiche per l'intero bacino della Sicilia Orientale». Morgia, secondo gli inquirenti, «faceva predisporre un bando sartoriale con dei requisiti che avrebbero favorito l'azienda che gli elargiva utilità in denaro» e «a prevalere non era la ditta che avrebbe fornito le maggiori utilità alla collettività», ma anzi «le aziende che non si prestavano a questo sistema venivano inevitabilmente sfavorite».Ma è nelle inchieste che hanno travolto la sanità della Basilicata che la politica ha un ruolo ancor più evidente. Lo scorso 12 aprile, al tribunale di Matera, ha preso il via l'udienza preliminare a carico di 34 persone e due società, coinvolte in una maxi inchiesta sulla sanità lucana, che il 6 luglio scorso aveva portato all'arresto di 22 persone, tra cui l'allora presidente della Regione, Marcello Pittella, e il commissario straordinario dell'Azienda sanitaria di Matera, Pietro Quinto. I professionisti coinvolti sono accusati, a vario titolo, di abuso d'ufficio, falso ideologico, truffa aggravata e turbata libertà degli incanti. E non si tratta di un singolo appalto o di un affare gestito in modo illecito, ma di un vero e proprio metodo operativo basato su condotte illegali che, a quanto pare, andava avanti da anni. Era stato messo in piedi «un sistema di corruzione e asservimento della funzione pubblica a interessi di singoli malversatori, di cui fa parte una moltitudine di questuanti espressione di pubblici poteri apicali, che si interfacciano tra loro in uno scambio reciproco di richieste illegittime e promesse o dazioni indebite». Un sistema da cui la politica era tutt'altro che esente. Per i pm, Quinto era il «collettore delle raccomandazioni che promanavano dal governatore lucano e da altre figure di spicco della politica e della Chiesa lucana», e per questo Pittella era finito prima agli arresti domiciliari, poi revocati, e sostituiti con il divieto di dimora a Potenza. In particolare, come racconta dettagliatamente il quotidiano online Basilicata 24, l'allora presidente della Regione venne accusato di falso e abuso d'ufficio e finì ai domiciliari poco dopo aver annunciato la sua intenzione di correre alle elezioni per un Pittella bis. A lungo il Pd tentennò sulla sua candidatura, optando solo in ultima istanza per un nome alternativo (Carlo Trerotola, candidato civico del centrosinistra, battuto dal candidato del centrodestra, Vito Bardi, attuale governatore) e, in ogni caso, le misure cautelari assunte nei suoi confronti non lo fecero comunque desistere dall'intento di candidarsi. Dimessosi dall'incarico di presidente, e dunque decaduto anche il divieto di dimora a Potenza, l'ex governatore decise di ripresentarsi, infatti, alle elezioni con Avanti Basilicata e lo scorso 24 marzo venne rieletto come consigliere più votato in assoluto. Nel frattempo, la Procura di Potenza ha aperto un altro filone di indagini ipotizzando un reato di truffa: oggetto dell'inchiesta, questa volta, un macchinario per la radioterapia per il trattamento dei tumori in fase avanzata, acquistato come nuovo per due milioni di euro e inaugurato insieme all'omonimo reparto dedicato all'oncologia appena un anno fa. Il macchinario sarebbe in realtà datato e risalente al 2008.Anche l'Emilia Romagna, recentemente, non si è fatta mancare la sua inchiesta per malaffare in ambito sanitario. Sono dieci i dirigenti che hanno ricevuto l'avviso di fine indagine per aver pilotato alcuni bandi pubblici per la gestione delle attività e dei servizi a supporto della disabilità, alterando, almeno in tre occasioni, il procedimento amministrativo per stabilire il bando e favorire in questo modo una nota Onlus che si occupa di handicap. Ai rappresentanti della Onlus che si aggiudicò la gara, si contesta di aver predisposto, di fatto, il contenuto del capitolato tecnico e della lettera di invito, inoltrando al dirigente Ausl, che le ha riversate nella bozza definitiva, varie bozze degli atti a cui poi le aziende in gara si sarebbero dovute attenere.Nel frattempo l'Umbria gate sui concorsi truccati che ha portato alle dimissioni della governatrice, Catiuscia Marini, sembra non fermarsi più. Venerdì le fiamme gialle, su disposizione del procuratore di Perugia, hanno perquisito casa e ufficio di due nuovi indagati, membri della commissione d'esame per il concorso da infermieri che era al centro delle raccomandazioni politiche. Le domande erano state fornite in anticipo ai candidati preferiti. Nell'indagine, oltre alla ex governatrice, sono coinvolti l'assessore regionale alla Sanità, Luca Barberini, il segretario del Pd, Gianpiero Bocci (ex sottosegretario con il governo di Paolo Gentiloni) e il direttore generale dell'Azienda ospedaliera di Perugia, Emilio Duca. Nel mirino ci sono undici concorsi pilotati e 35 persone coinvolte.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/sanita-corrotta-camici-sporchi-e-mazzette-in-corsia-cosi-rubano-sulla-nostra-pelle-2635771126.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="in-principio-fu-il-puff-quel-vizio-italiano-di-lucrare-sui-malati" data-post-id="2635771126" data-published-at="1758025926" data-use-pagination="False"> In principio fu il puff. Quel vizio italiano di lucrare sui malati Ai tempi di tangentopoli fu il re Mida della sanità, Duilio Poggiolini, quello dei soldi nel puff, a consacrare, mentre era detenuto nella sua cella a Poggioreale, una definizione che era tanto cara ad Antonio Di Pietro: «La corruzione è ambientale». Correva l'anno 1993 e in quella occasione gli italiani furono costretti a prendere atto che (anche) negli ospedali l'andazzo era quello. Da allora, da Nord a Sud, il camice bianco ha inguaiato più di un politico. È di poco più di un mese fa, ad esempio, la condanna definitiva a 5 anni e 10 mesi per corruzione nel processo sul crac delle fondazioni Maugeri e San Raffaele inflitta all'ex governatore della Lombardia, Roberto Formigoni. I mezzi della corruzione, secondo l'accusa, erano cene, viaggi e gite in barca. E anche l'acquisto agevolato di una villa in Sardegna. Tutto pagato con i soldi dell'istituto Maugeri di Pavia e dell'ospedale San Raffaele di Milano, strutture convenzionate. I fatti risalgono al 2011. Come quelli della Sanitopoli piemontese: solo pochi mesi prima della tegola su Formigoni era scoppiato il caso diventato famoso per la fornitura dei pannoloni. Finirono nei guai l'assessore alla Sanità della Regione Piemonte, Caterina Ferrero e il suo braccio destro, Piero Gambarino, soprannominato «mister 15 per cento». Un anno prima era toccato a Lady Asl: l'ex direttore generale della Asl di Bari Lea Cosentino. Ci fu un gran polverone su appalti e concorsi, tanto da portare Ignazio Marino, che in quel momento era presidente della commissione d'inchiesta di Palazzo Madama sul servizio sanitario nazionale, a sentenziare: «In Puglia c'era un sistema di corruzione e di controllo, da parte della politica, che interferiva con le nomine dei primari, dei direttori sanitari e delle forniture». Cambiano gli scenari e i protagonisti, ma i meccanismi degli scandali sanitari sono sempre gli stessi. E, infatti, anche nella storia di Lady Asl, proprio come nel recentissimo Umbriagate che ha portato alle dimissioni della governatrice Catiuscia Marini, c'è una spy story: Lea Cosentino e altri due imputati fecero bonificare gli uffici dell'Asl dalle microspie della Procura, pagando con soldi pubblici. La Cassazione un anno fa ha annullato con rinvio la sentenza d'appello e ha disposto un nuovo processo per rideterminare le pene. L'accusa, però, è identica a quella ipotizzata dalla Procura di Perugia per il manager della sanità Emilio Duca che, dimostrando di non aver imparato nulla da Lady Asl, si è beccato un capo d'imputazione provvisorio per peculato, proprio per aver fatto bonificare, a spese dell'Asl, gli uffici della Direzione generale. Anche a Napoli il grande scandalo della sanità venuto fuori nel 2008 conteneva gli stessi ingredienti: appalti truccati, aziende sanitarie indebitate e nomine interamente lottizzate dai partiti. Su 24 manager alla guida delle Asl campane, dei grandi ospedali, dei policlinici e dei centri di ricerca, 18 erano targati Partito democratico, quattro Udeur, uno Sdi (il partito guidato all'epoca da Enrico Boselli) e uno Rifondazione comunista. Era la fotografia della sanità pubblica in Campania, schiacciata dai conti in rosso, minacciata dalla corruzione e infine sciolta per camorra. La prova che le cose da allora non sono cambiate è arrivata qualche giorno fa, con la condanna a nove anni di reclusione per un primario del Cardarelli di Napoli, arrestato in un'inchiesta coordinata dal pm Henry John Woodcock, secondo il quale venivano dirottati verso la clinica privata Villa del Sole i pazienti del Cardarelli che attendevano di essere operati. Anche in questo caso il primario napoletano non ha imparato nulla da una storia simile. Nel 1997, a Milano, partì l'inchiesta denominata Lastre pulite. Il protagonista, Giuseppe Poggi Longostrevi, titolare di un Centro di medicina nucleare, secondo l'accusa aveva corrotto centinaia di medici di famiglia affinché inviassero i propri pazienti nel suo centro, in cambio di tangenti. Poggi Longostrevi collaborò alle indagini, ma alla vigilia del processo si suicidò. La gestione privata nella sanità portò, nel 2008, anche all'arresto di Ottaviano Del Turco, governatore dell'Abruzzo. A innescare la miccia furono le dichiarazioni di Vincenzo Angelini, patron della clinica Villa Pini di Chieti (poi assolto in appello). A novembre 2015 Del Turco è stato condannato in appello a 4 anni e 2 mesi di reclusione. Nel 2017 la Corte d'appello ha ridotto la pena a 3 anni e 11 mesi per induzione indebita, dopo che la Cassazione aveva annullato la condanna per associazione a delinquere. Ma è l'accusa di corruzione il leitmotiv delle indagini sulla sanità. È di qualche settimana fa la notizia di un'inchiesta sull'Asl di Frosinone e sull'ospedale San Raffaele di Cassino. Il deputato di Forza Italia Antonio Angelucci sarebbe indagato per istigazione alla corruzione, suo figlio Giampaolo, invece, per tentata estorsione. La Corte dei conti aveva già obbligato in passato il San Raffaele di Cassino a restituire 31 milioni di euro per aver fornito prestazioni inferiori rispetto a quelle previste dal ministero della Salute.
Lo ha dichiarato il presidente del Consiglio europeo in occasione del suo incontro con il premier greco Kyriakos Mitsotakis.