2019-08-24
Salvini non rinuncia al sogno di rifare la coalizione gialloblù con l’amico Di Maio
La Lega insiste per il ritorno di fiamma: il leader pentastellato può fare il premier. In cambio il rimpasto e Giuseppe Conte in castigo. Silvio Berlusconi riapre la caccia ai «responsabili». Il Cav è al lavoro per rimettere in piedi la maggioranza di centrodestra in Parlamento, senza passare dalle urne. Per far tornare i numeri però bisogna convincere i grillini che odiano il Pd a cambiare casacca. È dura, ma i dissidenti possono dare una mano. Lo speciale comprende due articoli. «Rivisto al Var non era rigore». Dentro il Carroccio oggi si utilizza una metafora calcistica per sintetizzare un pensiero stupendo per certi versi impressionista e folle: convincere il Movimento 5 stelle del governo politicamente sfiduciato a tornare con la Lega. «Abbiamo lavorato bene, non possono averlo dimenticato». Come dire a Luigi Di Maio che la moglie Matteo Salvini è pur sempre meglio - contratto prematrimoniale o no - dell'avventura di una notte al buio con Matteo Renzi e Nicola Zingaretti. Con il rischio di andare in bianco. Il ritorno di fiamma per ora è una suggestione che vorrebbe trasformarsi in un nuovo percorso. E il ministro dell'Interno per gli affari correnti lo concretizza con una frase che non ammette equivoci anche se potrebbe irritare qualche intellettuale gesuita: «Le porte e le vie della Lega sono infinite». In una diretta Facebook, il segretario leghista va giù piatto, mancano solo le rose rosse: «Faccio e farò di tutto per evitare che il Pd torni al governo. Mi auguro che nessuno pensi di lasciar l'Italia in mano a un partito come il Pd, che ha perso tutte le elezioni perché ne ha combinate di cotte e di crude. L'ipotesi governo Pd-M5s sta facendo rabbrividire i cittadini di mezza Italia e gli imprenditori. Noi siamo qui per un governo stabile, coerente, con una squadra nuova. Oppure per il voto, in democrazia la scelta più lineare. Che qualcuno stia pensando di riportare al governo, per interessi personali, i Renzi, le Boschi, i Lotti, le Boldrini che gli italiani hanno cacciato, proprio no». Salvini si è reso conto di avere sopravvalutato l'orgoglio grillino nel presumere che mai, neppure se messi alle strette, i 5 stelle sarebbero finiti fra le braccia degli odiati dem. Lui voleva semplicemente scuoterli, costringerli a limare qualche niet sovietico (su flat tax, autonomia, infrastrutture, subalternità da Bruxelles) e cambiare qualche ministro catalettico (Danilo Toninelli, Elisabetta Trenta) per rimettere in linea di volo la legislatura. Calcolo sbagliato, perché «uno vale uno, ma soprattutto uno vale l'altro». E poi sorpresa per lo spericolato blitz renziano benedetto dal capo dello Stato, che si sente più rassicurato dal valzer lento del Pd piuttosto che dall'heavy metal grillo-leghista. Così ora bisogna rimettere insieme i cocci, e Salvini lo fa parlando direttamente a Di Maio: «Fino a qualche giorno fa lo definivate il partito di Bibbiano, delle spartizioni del Csm e delle Procure. Io no, chiedetemi tutto, ma mai con Renzi». La politica ha altri percorsi e non si cura degli schizzi di verità o di fango. Servono proposte e la Lega le ha fatte, nomi compresi. Di Maio premier, Salvini ministro dell'Interno, Giancarlo Giorgetti ministro dell'Economia, Giuseppe Conte agli Esteri o commissario Ue, perché un Conte bis (dopo gli insulti in Aula) non è previsto nel pacchetto pacificatore. Nel caso in cui i 5 stelle si trovassero meglio con l'amante, richiesta di voto e opposizione dura, che rimane l'opzione principale della base. «Perché», è folgorante la battuta di un colonnello leghista, «se commetti l'errore di far sedere un grillino a trattare sui posti, non si alza più». Giorgetti spiega il finale di partita al Meeting di Rimini: «Se dopo 14 mesi in cui sono state fatte cose positive ci sono problemi o troviamo un altro metodo di confronto per raggiungere un risultato, oppure non si va avanti. Questo non è essere stupidi perché quando si dice la verità non si sbaglia mai». Sulle prove tecniche di ribaltone, il sottosegretario alla presidenza allarga le braccia: «Il minimo comune denominatore dei parlamentari oggi non è fare discussioni su futuro, lavoro e grandi visioni, ma mantenere il più possibile quel posto. Non uso i termini inciucio o poltrona, ma non è possibile che una persona che fino a oggi ha votato certe cose, da domani voti il contrario. Io, se devo farlo, torno all'opposizione con orgoglio». Nel ritorno di fiamma della Lega c'è anche molta tattica e far filtrare le notizie di contatti con i grillini aiuta a rendere meno credibile la trattativa con il Pd, incentrata peraltro su dieci punti che fanno parte del programma del primo governo del cambiamento. I destinatari della proposta di fumare il calumet della pace non sono soltanto Beppe Grillo, Davide Casaleggio e la truppa politica, ma anche l'inquilino del Quirinale. La logica democristiana dei due forni, che Sergio Mattarella conosce bene, è il motivo dell'irritazione cutanea del presidente dopo le consultazioni; neppure per lui oggi ha più senso tenere i piedi in due scarpe. E sapere che Di Maio parla ancora con gli ex alleati non depone a favore del tentativo di mettere su casa con il Pd. Via Toninelli, via la Trenta, via anche Giovanni Tria (altro omerico signornò), in castigo Conte e si riparte con il programma. E con la responsabilità di costruire la «finanziaria della ripresa». Il più impegnato nel tessere la tela è Gian Marco Centinaio, ex ministro per le Politiche agricole, che conferma: «C'è ancora possibilità di recuperare il rapporto con i 5 stelle perché, oltre a Di Maio, ci sono una serie di esponenti del Movimento che ricordano bene il lavoro positivo fatto insieme. La via è molto stretta, ma se c'è la volontà di sedersi insieme al tavolo, gli altri problemi non esistono». Rivisto al Var non era rigore, ma si sa che «rigore è quando arbitro fischia». E l'arbitro è pur sempre Mattarella. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/salvini-non-rinuncia-al-sogno-di-rifare-la-coalizione-gialloblu-con-lamico-di-maio-2639991485.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="berlusconi-riapre-la-caccia-ai-responsabili" data-post-id="2639991485" data-published-at="1758063487" data-use-pagination="False"> Berlusconi riapre la caccia ai «responsabili» Tra la Lega e il Pd non c'è paragone, parola di Paragone (Gianluigi), senatore del M5s sulle cui spalle passa - con altri grillini - una buona fetta del futuro della legislatura. In queste ore, infatti, è in atto anche una «operazione scoiattolo», portata avanti dai pasdaran del «giammai» all'intesa tra il M5s e il Pd. «Renzi», ha scritto ieri su Facebook Paragone, che in realtà è da sempre l'incarnazione stessa del grilloleghismo, ex del Carroccio ma eletto con il M5s, «parla di me e di Alessandro Di Battista come di quelli che vogliono far saltare la (sua) trattativa. Orgoglioso di stare sempre dalla parte opposta di Renzi». Il riferimento di Paragone è al file audio in cui si sente Matteo Renzi attaccare Paolo Gentiloni: «La parte del M5s contraria alla trattativa, guidata da Di Battista e Paragone…», dice tra l'altro l'ex Rottamatore che sta tentando di disperatamente di de-rottamarsi attraverso il suo protagonismo nel caldeggiare la nascita del governo giallorosso. «Spero che Di Maio ci pensi bene prima di cedere al Pd», ha insistito ieri Paragone, il cui verbo è molto ascoltato perché può dare consistenza numerica e dignità politica alla frangia anti Pd del M5s. Sostanzialmente, si potrebbe saldare questo moto politico al tentativo del centrodestra di evitare la nascita del governo giallorosso, dando vita a una formazione parlamentare di fuorusciti dal M5s (in gergo, scoiattoli) che possa anzitutto far mancare i numeri all'intesa Pd-grillini. E poi, chissà, magari tradurre in realtà le parole pronunciate l'altro ieri da Silvio Berlusconi al termine della consultazione con il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella: «Occorre costituire in Parlamento», ha detto il Cav, «una maggioranza di centrodestra che corrisponda al sentire degli italiani. Qualora non fosse possibile, la strada maestra è una sola: elezioni anticipate». Costruire in Parlamento una maggioranza di centrodestra: è la stessa richiesta che, invano, Berlusconi fece a Mattarella l'anno scorso, prima che iniziasse la baraonda che portò alla nascita del governo del cambiamento. Alla Camera ci sarebbe bisogno di almeno una cinquantina di «responsabili», disposti a lasciare i gruppi di appartenenza (M5s, magari perfino qualcuno del Pd) per andare a sostenere un governo di centrodestra; al Senato, ne servirebbero una trentina. Missione impossibile? Probabilmente sì, ma intanto il sasso lanciato da Berlusconi nello stagno di chi ha il terrore di non essere rieletto in caso di urne autunnali potrebbe aver causato qualche notte insonne. Il piano B, invece, è più facilmente concretizzabile. C'è bisogno di sfilare al M5s una quindicina di senatori, in modo tale da far mancare al governo giallorosso la maggioranza. Bisogna però fare in fretta: se l'operazione andrà in porto, dovrà essere ufficializzata prima di martedì prossimo, quando Mattarella tirerà le somme di questi giorni di trattative tra i partiti. Matteo Salvini, continuando a tenere aperta la porta al M5s, non fa altro che fornire a Paragone e ai suoi eventuali compagni di viaggio un argomento politico per giustificare l'operazione. «Avevamo la possibilità di tornare con la Lega», diranno i senatori dissidenti, «ma i vertici non l'hanno voluta cogliere. Noi col Pd non andremo mai, per coerenza. Meglio il voto anticipato». Naturalmente, oltre alla nobiltà politica del gesto, per convincere gli «scoiattoli» a fuoriuscire dal M5s spalancando le porte al voto anticipato, c'è bisogno di uno zuccherino, inteso come la promessa di una ricandidatura con la Lega o con i suoi alleati di centrodestra in un collegio sicuro. Sarebbero almeno una ventina, su un totale di 107, i senatori grillini che non vedono assolutamente di buon occhio la svolta a sinistra del M5s, e che dunque, al momento opportuno, potrebbero uscire allo scoperto comunicando la loro indisponibilità a votare la fiducia all'eventuale esecutivo giallorosso. Paragone è spalleggiato nella lotta al Pd da Alessandro Di Battista, con la grande differnza che quest'ultimo le elezioni le vorrebbe al più presto per il semplice motivo che attualmente non siede in Parlamento. Intanto comunque prosegue il frenetico «scouting»: l'operazione, va detto, è agevolata dall'immane caos sprigionato, immancabilmente, dal Pd, che rende la prospettiva del governo giallorosso comunque assai instabile. Quello che è certo è che il gioco di sponda tra grillini dissidenti e leghisti tatticamente «nostalgici» sta ulteriormente terremotando la già fragilissima trattativa tra Pd e M5s: se pure alla fine non dovesse riuscire a ingolosire un numero sufficiente di senatori, l'effetto politico resterebbe comunque pesantissimo. Sulla strada degli «scoiattoli», però, c'è un altro macigno, ovvero la controffensiva che i renziani hanno da giorni messo in campo nei confronti di un nutrito gruppo di parlamentari di Forza Italia, che potrebbero, in caso di necessità, uscire a loro volta dal centrodestra per correre in soccorso del governo Pd-M5s. Si punta in particolare a quei deputati e soprattutto senatori che sono praticamente certi di non essere rieletti in caso di un repentino ritorno alle urne. Lusinghe e lunghi ragionamenti, poi, vengono somministrati in dosi massicce ai parlamentari di Forza Italia ostili a Matteo Salvini, che non vedono l'ora di vedere il ministro dell'Interno all'opposizione. Dunque, in estrema sintesi, accanto alle alte e nobili motivazioni politiche, l'«operazione scoiattolo» avrà successo soltanto se chi la porta avanti sarà capace di offrire ai potenziali compagni di strada garanzie di ricandidatura limpide e credibili. Entro lunedì prossimo sapremo se avrà saputo usare gli strumenti a sua disposizione.