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2021-11-30
Salvini fa dietrofront sul premier e tenta di stanare Draghi per il Colle
Silvio Berlusconi e Matteo Salvini (Ansa)
«Condivido le parole di Berlusconi, Draghi sta lavorando bene da presidente del Consiglio e quindi mi auguro che vada avanti a lungo a lavorare bene da presidente del Consiglio»: l’improvviso dietrofront di Matteo Salvini arriva nel corso di un incontro con i giornalisti per illustrare gli emendamenti del Carroccio alla legge di Bilancio. Improvviso e clamoroso: Salvini fino a ieri era infatti annoverato tra i principali sponsor della ascesa al Colle più alto di Draghi, non fosse altro perché ciò comporterebbe, salvo clamorosi imprevisti, le elezioni anticipate nella primavera 2022. Ieri, invece, il leader della Lega ha dato ragione a Silvio Berlusconi, che in una intervista al Corriere della Sera ha auspicato che Draghi «continui a lavorare con serietà fino a quando sarà necessario, fino al 2023, quando saremo usciti dall’emergenza: saremo i primi a collaborare lealmente all’attività dell’esecutivo. L’autorevolezza e l’esperienza di Draghi», ha aggiunto Berlusconi, «sono un patrimonio del quale l’Italia deve profittare».
Occorre a questo punto interpretare la svolta di Salvini, e per farlo non si può non partire dall’ambizione di Berlusconi di diventare presidente della Repubblica. Ambizione, non sogno o delirio: il Cav ci sta lavorando sul serio, tentando di convincere quella cinquantina di grandi elettori che, aggiunti ai voti di un centrodestra compatto, gli consentirebbero di raggiungere la fatidica soglia dei 505 voti e coronare nella maniera più clamorosa la sua carriera politica. Ma se il centrodestra deve essere compatto su Berlusconi, lo deve essere a partire dalla Lega, che ha i gruppi parlamentari più numerosi: Salvini potrebbe aver semplicemente voluto concedere qualche speranza in più all’«amico Silvio», assecondandone l’ambizione per disciplina di coalizione, ma in realtà potrebbe avere in mente, ancora, l’elezione di Draghi per andare al voto subito dopo, tentare di vincere la sfida elettorale con Giorgia Meloni e diventare (se i sondaggi di oggi saranno confermati dalle urne) presidente del Consiglio.
Non è detto, però, che quella di Salvini sia solo tattica: la sua conversione alla permanenza a Palazzo Chigi di Mario Draghi potrebbe anche essere sincera, anche se magari non esattamente spontanea. Salvini, ricordiamolo sempre, nella Lega deve fare i conti con un fronte di pasdaran di Draghi premier abbastanza consistente, capitanato dal più draghiano dei leghisti, ovvero Giancarlo Giorgetti. La sortita di ieri, quindi, permetterebbe a Salvini di prendere due piccioni (del calibro di Berlusconi e Giorgetti) con una fava: del resto, fino a quando Draghi non avrà fatto capire che ha intenzione di fare, se restare premier o tentare la scalata al Quirinale, le dichiarazioni rilasciate ai giornalisti lasciano il tempo che trovano. Siamo, come ben si vede, nel campo dell’ermeneutica, poiché Draghi tiene ancora le carte coperte, e tutti i protagonisti politici sono così legati alle sue (in)decisioni. A meno che (terza ipotesi) Draghi non abbia manifestato a qualcuno la sua intenzione di restare premier: Salvini in questo caso non avrebbe fatto altro che giocare di sponda, intestandosi una decisione non sua, come da buona norma della comunicazione politica. Infine, ma non in ordine di importanza, una ulteriore chiave di lettura delle parole di Salvini potrebbe essere questa: considerato che Draghi continua a non rivelare le sue intenzioni, il leader della Lega potrebbe aver voluto stanare il premier, facendogli capire che non è detto che il Carroccio resterà immobile nell’attesa di un cenno del capo dell’uomo-sfinge. Ipotesi, questa, che sembrerebbe avvalorata dalla risposta in serata dello stesso Salvini a domanda sull’investitura di Draghi: «Chiedete a lui. Non parlo di Quirinale fino a gennaio». Come dire: io non parlo, parli lui.
La Verità ha chiesto a un esponente di primo piano del governo una interpretazione del dietrofront del leader della Lega: «Salvini», dice la nostra fonte, «sa benissimo che il silenzio di Draghi sta portando i partiti a ragionare su ipotesi alternative per la successione a Mattarella. Berlusconi a parte, che gioca una sua partita, i nomi che girano vorticosamente in queste ore sono quelli di Giuliano Amato e Anna Finocchiaro».
In sintesi, le parole di Salvini, il suo auspicio che Draghi resti a Palazzo Chigi, sono il segnale che qualunque sia la lettura da dare a queste dichiarazioni la corsa al Colle sta avendo una accelerazione. Del resto, mancano due mesi alla convocazione del parlamento in seduta comune, ed è naturale che le forze politiche stiano intensificando le discussioni. Non manca chi, nei palazzi romani, sospetta che la ritrosia di Draghi a ufficializzare la disponibilità alla successione di Mattarella sia legata al timore di non riuscire a essere eletto al primo scrutinio, quando è necessaria una maggioranza dei 2/3 dei grandi elettori, ovvero 672, così come nel secondo e nel terzo (dal quarto scrutinio in poi basta la maggioranza assoluta, ovvero 505). Draghi affossato da franchi tiratori che hanno paura di andare al voto? In realtà, sembra francamente fantascienza: uno scenario del genere non potrebbe che portare a una traumatica caduta del governo.
Conte abbatte un altro totem 5 stelle
Direbbero gli antipatizzanti: «supercazzola con pochette», oppure «più Conte Mascetti (nel senso di Amici miei) che Conte Giuseppe».
Infatti, considerando le martellanti litanie anticasta dei grillini, fa una certa impressione la lettura del post di ieri pomeriggio del neo leader Conte, la cui autorevolezza appare peraltro già minata dalle battute sarcastiche di Beppe Grillo (sui «penultimatum» contiani) e sull’ormai costante smarcamento di Luigi Di Maio. E se a questo si aggiunge il tentativo di giustificare la possibilità di accedere al 2 per mille, l’effetto involontariamente comico appare garantito.
Ecco dunque il Conte di ieri su Facebook. Come foglia di fico, l’ex premier parte dalla citazione di un’altra votazione che avverrà sulla piattaforma («dobbiamo decidere sulla restituzione di parte degli stipendi dei nostri parlamentari alla collettività»).
Poi, le dolenti note: «L’altra odierna votazione riguarda un tema che è emerso con insistenza nel corso degli Stati generali dello scorso anno e che mi è stato a più riprese e da più parti sollevato: la possibilità per il Movimento di accedere al 2x1000». E già qui Conte sembra mettere le mani avanti: non l’ha voluto lui, gliel’hanno chiesto.
E poi ancora sullo stesso tasto, per scaricare altrove la responsabilità della vicenda: «Questa votazione è l’approdo di un percorso iniziato dalla richiesta di molti attivisti che, faticosamente e quotidianamente, si adoperano sui territori per fare quella politica sana, ma anche spesso dispendiosa, che necessita però di un sostegno economico per poter essere continua ed efficace».
Poi un’altra excusatio: pure i parlamentari l’avrebbero sollecitato. «La settimana scorsa», scrive l’ex premier, «i gruppi parlamentari di Camera e Senato, nel corso di un’assemblea congiunta, hanno concordato, pressoché unanimemente, di aprire a questa forma di finanziamento. Per parte mia, ho preso atto di questa richiesta e ho dichiarato subito che la decisione, com’è nella tradizione del Movimento per le scelte più significative, deve essere rimessa alla volontà degli iscritti».
Conclusione: «Affrontiamo questo passaggio in maniera serena, valutando liberamente e scegliendo consapevolmente». Ultima chiosa ancora più democristiana: «Posso anticiparvi che se prevarrà un voto favorevole, mi impegnerò personalmente per garantire che queste somme siano destinate a favorire l’azione politica sui territori e l’elaborazione di nuovi progetti a beneficio delle comunità locali e nazionali (penso, ad esempio, a tutte le iniziative progettuali che saranno elaborate anche nell’ambito della Scuola di formazione). Nel caso in cui prevarrà un voto contrario, state certi che continueremo a fare quel che abbiamo sempre fatto e lo faremo con l’autofinanziamento e le microdonazioni».
A favore, è schierato il presidente della commissione Affari europei di Montecitorio, Sergio Battelli: «È un contributo volontario e trasparente che ci consentirebbe di finanziare più e meglio le nostre attività sui territori». Dice no l’ex ministro Danilo Toninelli, con una dichiarazione resa all’edizione online del Fatto quotidiano: «Sono soldi pubblici che invece di restare nelle casse dello Stato vanno a foraggiare i partiti. Il Movimento ha dimostrato che la politica si può fare senza soldi pubblici: è un aspetto identitario che ci distingue da tutti gli altri e non possiamo abbandonarlo».
Ma forse sarebbe più facile squarciare il velo dell’ipocrisia e ammettere ciò che è ormai evidente: dopo la caduta del dogma dei due soli mandati, viene meno un altro punto fermo, oggetto di anni di propaganda. I grillini sono ormai un partito come gli altri. Al massimo, usano le consultazioni online per giustificare l’archiviazione, una dopo l’altra, delle giaculatorie del passato.
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Il leader leghista si dice d’accordo con Silvio Berlusconi per blindare Super Mario a Palazzo Chigi. Atto di cortesia nei confronti del Cav e delle sue ambizioni. Ma che mira anche a scoprire le carte del presidente del Consiglio.Con la possibilità di accedere al 2 per mille e ai soldi pubblici viene meno l’ennesimo punto fermo della propaganda grillina. Giuseppe Conte si barcamena, i militanti si dividono.Lo speciale contiene due articoli.«Condivido le parole di Berlusconi, Draghi sta lavorando bene da presidente del Consiglio e quindi mi auguro che vada avanti a lungo a lavorare bene da presidente del Consiglio»: l’improvviso dietrofront di Matteo Salvini arriva nel corso di un incontro con i giornalisti per illustrare gli emendamenti del Carroccio alla legge di Bilancio. Improvviso e clamoroso: Salvini fino a ieri era infatti annoverato tra i principali sponsor della ascesa al Colle più alto di Draghi, non fosse altro perché ciò comporterebbe, salvo clamorosi imprevisti, le elezioni anticipate nella primavera 2022. Ieri, invece, il leader della Lega ha dato ragione a Silvio Berlusconi, che in una intervista al Corriere della Sera ha auspicato che Draghi «continui a lavorare con serietà fino a quando sarà necessario, fino al 2023, quando saremo usciti dall’emergenza: saremo i primi a collaborare lealmente all’attività dell’esecutivo. L’autorevolezza e l’esperienza di Draghi», ha aggiunto Berlusconi, «sono un patrimonio del quale l’Italia deve profittare».Occorre a questo punto interpretare la svolta di Salvini, e per farlo non si può non partire dall’ambizione di Berlusconi di diventare presidente della Repubblica. Ambizione, non sogno o delirio: il Cav ci sta lavorando sul serio, tentando di convincere quella cinquantina di grandi elettori che, aggiunti ai voti di un centrodestra compatto, gli consentirebbero di raggiungere la fatidica soglia dei 505 voti e coronare nella maniera più clamorosa la sua carriera politica. Ma se il centrodestra deve essere compatto su Berlusconi, lo deve essere a partire dalla Lega, che ha i gruppi parlamentari più numerosi: Salvini potrebbe aver semplicemente voluto concedere qualche speranza in più all’«amico Silvio», assecondandone l’ambizione per disciplina di coalizione, ma in realtà potrebbe avere in mente, ancora, l’elezione di Draghi per andare al voto subito dopo, tentare di vincere la sfida elettorale con Giorgia Meloni e diventare (se i sondaggi di oggi saranno confermati dalle urne) presidente del Consiglio. Non è detto, però, che quella di Salvini sia solo tattica: la sua conversione alla permanenza a Palazzo Chigi di Mario Draghi potrebbe anche essere sincera, anche se magari non esattamente spontanea. Salvini, ricordiamolo sempre, nella Lega deve fare i conti con un fronte di pasdaran di Draghi premier abbastanza consistente, capitanato dal più draghiano dei leghisti, ovvero Giancarlo Giorgetti. La sortita di ieri, quindi, permetterebbe a Salvini di prendere due piccioni (del calibro di Berlusconi e Giorgetti) con una fava: del resto, fino a quando Draghi non avrà fatto capire che ha intenzione di fare, se restare premier o tentare la scalata al Quirinale, le dichiarazioni rilasciate ai giornalisti lasciano il tempo che trovano. Siamo, come ben si vede, nel campo dell’ermeneutica, poiché Draghi tiene ancora le carte coperte, e tutti i protagonisti politici sono così legati alle sue (in)decisioni. A meno che (terza ipotesi) Draghi non abbia manifestato a qualcuno la sua intenzione di restare premier: Salvini in questo caso non avrebbe fatto altro che giocare di sponda, intestandosi una decisione non sua, come da buona norma della comunicazione politica. Infine, ma non in ordine di importanza, una ulteriore chiave di lettura delle parole di Salvini potrebbe essere questa: considerato che Draghi continua a non rivelare le sue intenzioni, il leader della Lega potrebbe aver voluto stanare il premier, facendogli capire che non è detto che il Carroccio resterà immobile nell’attesa di un cenno del capo dell’uomo-sfinge. Ipotesi, questa, che sembrerebbe avvalorata dalla risposta in serata dello stesso Salvini a domanda sull’investitura di Draghi: «Chiedete a lui. Non parlo di Quirinale fino a gennaio». Come dire: io non parlo, parli lui.La Verità ha chiesto a un esponente di primo piano del governo una interpretazione del dietrofront del leader della Lega: «Salvini», dice la nostra fonte, «sa benissimo che il silenzio di Draghi sta portando i partiti a ragionare su ipotesi alternative per la successione a Mattarella. Berlusconi a parte, che gioca una sua partita, i nomi che girano vorticosamente in queste ore sono quelli di Giuliano Amato e Anna Finocchiaro».In sintesi, le parole di Salvini, il suo auspicio che Draghi resti a Palazzo Chigi, sono il segnale che qualunque sia la lettura da dare a queste dichiarazioni la corsa al Colle sta avendo una accelerazione. Del resto, mancano due mesi alla convocazione del parlamento in seduta comune, ed è naturale che le forze politiche stiano intensificando le discussioni. Non manca chi, nei palazzi romani, sospetta che la ritrosia di Draghi a ufficializzare la disponibilità alla successione di Mattarella sia legata al timore di non riuscire a essere eletto al primo scrutinio, quando è necessaria una maggioranza dei 2/3 dei grandi elettori, ovvero 672, così come nel secondo e nel terzo (dal quarto scrutinio in poi basta la maggioranza assoluta, ovvero 505). Draghi affossato da franchi tiratori che hanno paura di andare al voto? 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E se a questo si aggiunge il tentativo di giustificare la possibilità di accedere al 2 per mille, l’effetto involontariamente comico appare garantito. Ecco dunque il Conte di ieri su Facebook. Come foglia di fico, l’ex premier parte dalla citazione di un’altra votazione che avverrà sulla piattaforma («dobbiamo decidere sulla restituzione di parte degli stipendi dei nostri parlamentari alla collettività»). Poi, le dolenti note: «L’altra odierna votazione riguarda un tema che è emerso con insistenza nel corso degli Stati generali dello scorso anno e che mi è stato a più riprese e da più parti sollevato: la possibilità per il Movimento di accedere al 2x1000». E già qui Conte sembra mettere le mani avanti: non l’ha voluto lui, gliel’hanno chiesto. E poi ancora sullo stesso tasto, per scaricare altrove la responsabilità della vicenda: «Questa votazione è l’approdo di un percorso iniziato dalla richiesta di molti attivisti che, faticosamente e quotidianamente, si adoperano sui territori per fare quella politica sana, ma anche spesso dispendiosa, che necessita però di un sostegno economico per poter essere continua ed efficace». Poi un’altra excusatio: pure i parlamentari l’avrebbero sollecitato. «La settimana scorsa», scrive l’ex premier, «i gruppi parlamentari di Camera e Senato, nel corso di un’assemblea congiunta, hanno concordato, pressoché unanimemente, di aprire a questa forma di finanziamento. Per parte mia, ho preso atto di questa richiesta e ho dichiarato subito che la decisione, com’è nella tradizione del Movimento per le scelte più significative, deve essere rimessa alla volontà degli iscritti». Conclusione: «Affrontiamo questo passaggio in maniera serena, valutando liberamente e scegliendo consapevolmente». Ultima chiosa ancora più democristiana: «Posso anticiparvi che se prevarrà un voto favorevole, mi impegnerò personalmente per garantire che queste somme siano destinate a favorire l’azione politica sui territori e l’elaborazione di nuovi progetti a beneficio delle comunità locali e nazionali (penso, ad esempio, a tutte le iniziative progettuali che saranno elaborate anche nell’ambito della Scuola di formazione). Nel caso in cui prevarrà un voto contrario, state certi che continueremo a fare quel che abbiamo sempre fatto e lo faremo con l’autofinanziamento e le microdonazioni». A favore, è schierato il presidente della commissione Affari europei di Montecitorio, Sergio Battelli: «È un contributo volontario e trasparente che ci consentirebbe di finanziare più e meglio le nostre attività sui territori». Dice no l’ex ministro Danilo Toninelli, con una dichiarazione resa all’edizione online del Fatto quotidiano: «Sono soldi pubblici che invece di restare nelle casse dello Stato vanno a foraggiare i partiti. Il Movimento ha dimostrato che la politica si può fare senza soldi pubblici: è un aspetto identitario che ci distingue da tutti gli altri e non possiamo abbandonarlo». Ma forse sarebbe più facile squarciare il velo dell’ipocrisia e ammettere ciò che è ormai evidente: dopo la caduta del dogma dei due soli mandati, viene meno un altro punto fermo, oggetto di anni di propaganda. I grillini sono ormai un partito come gli altri. Al massimo, usano le consultazioni online per giustificare l’archiviazione, una dopo l’altra, delle giaculatorie del passato.
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Era inoltre il 22 dicembre, quando il Times of Israel ha riferito che «Israele ha avvertito l'amministrazione Trump che il corpo delle Guardie della rivoluzione Islamica dell'Iran potrebbe utilizzare un'esercitazione militare in corso incentrata sui missili come copertura per lanciare un attacco contro Israele». «Le probabilità di un attacco iraniano sono inferiori al 50%, ma nessuno è disposto a correre il rischio e a dire che si tratta solo di un'esercitazione», ha in tal senso affermato ad Axios un funzionario di Gerusalemme.
Tutto questo, mentre il 17 dicembre il direttore del Mossad, David Barnea, aveva dichiarato che lo Stato ebraico deve «garantire» che Teheran non si doti dell’arma atomica. «L'idea di continuare a sviluppare una bomba nucleare batte ancora nei loro cuori. Abbiamo la responsabilità di garantire che il progetto nucleare, gravemente danneggiato, in stretta collaborazione con gli americani, non venga mai attivato», aveva detto.
Insomma, la tensione tra Gerusalemme e Teheran sta tornando a salire. Ricordiamo che, lo scorso giugno, le due capitali avevano combattuto la «guerra dei dodici giorni»: guerra, nel cui ambito gli Stati Uniti avevano colpito tre siti nucleari iraniani, per poi mediare un cessate il fuoco con l’aiuto del Qatar. Non dimentichiamo inoltre che Trump punta a negoziare un nuovo accordo sul nucleare di Teheran con l’obiettivo di scongiurare l’eventualità che gli ayatollah possano conseguire l’arma atomica. Uno scenario, quest’ultimo, assai temuto tanto dagli israeliani quanto dai sauditi.
Il punto è che le rinnovate tensioni tra Israele e Teheran si stanno verificando in una fase di fibrillazione tra lo Stato ebraico e la Casa Bianca. Trump è rimasto irritato a causa del recente attacco militare di Gerusalemme a Gaza, mentre Netanyahu non vede di buon occhio la possibile vendita di caccia F-35 al governo di Doha. Bisognerà quindi vedere se, nei prossimi giorni, il dossier iraniano riavvicinerà o meno il presidente americano e il premier israeliano.
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Il Comune fiorentino sposa l’appello del Maestro per riportare a casa le spoglie di Cherubini e cambiare nome al Teatro del Maggio, in onore di Vittorio Gui. Partecipano al dibattito il direttore del Conservatorio, Pucciarmati, e il violinista Rimonda.
Muwaffaq Tarif, lo sceicco leader religioso della comunità drusa israeliana
Il gruppo numericamente più importante è in Siria, dove si stima che vivano circa 700.000 drusi, soprattutto nel Governatorato di Suwayda e nei sobborghi meridionali della capitale Damasco. In Libano rappresentano il 5% del totale degli abitanti e per una consolidata consuetudine del Paese dei Cedri uno dei comandanti delle forze dell’ordine è di etnia drusa. In Giordania sono soltanto 20.000 su una popolazione di 11 milioni, ma l’attuale vice-primo ministro e ministro degli Esteri Ayman Safadi è un druso. In Israele sono membri attivi della società e combattono nelle Forze di difesa israeliane (Idf) in una brigata drusa. Sono circa 150.000 distribuiti nel nNord di Israele fra la Galilea e le Alture del Golan, ma abitano anche in alcuni quartieri di Tel Aviv.
Lo sceicco Muwaffaq Tarif è il leader religioso della comunità drusa israeliana e la sua famiglia guida la comunità dal 1753, sotto il dominio ottomano. Muwaffaq Tarif ha ereditato il ruolo di guida spirituale alla morte del nonno Amin Tarif, una figura fondamentale per i drusi tanto che la sua tomba è meta di pellegrinaggio.
Sceicco quali sono i rapporti con le comunità druse sparpagliate in tutto il Medio Oriente?
«Siamo fratelli nella fede e nell’ideale, ci unisce qualcosa di profondo e radicato che nessuno potrà mai scalfire. Viviamo in nazioni diverse ed anche con modalità di vita differenti, ma restiamo drusi e questo influisce su ogni nostra scelta. Nella storia recente non sempre siamo stati tutti d’accordo, ma resta il rispetto. Per noi è fondamentale che passi il concetto che non abbiamo nessuna rivendicazione territoriale o secessionista, nessuno vuole creare una “nazione drusa”, non siamo come i curdi, noi siamo cittadini delle nazioni in cui viviamo, siamo israeliani, siriani, libanesi e giordani».
I drusi israeliani combattono nell’esercito di Tel Aviv, mentre importanti leader libanesi come Walid Jumblatt si sono sempre schierati dalla parte dei palestinesi.
«Walid Jumblatt è un politico che vuole soltanto accumulare ricchezze e potere e non fare il bene della sua gente. Durante la guerra civile libanese è stato fra quelli che appoggiavano Assad e la Siria che voleva annettere il Libano e quindi ogni sua mossa mira soltanto ad accrescere la sua posizione. Fu mio nonno ha decidere che il nostro rapporto con Israele doveva essere totale e noi siamo fedeli e rispettosi. La fratellanza con le altre comunità non ci impone un pensiero unico e quindi c’è molta libertà, anche politica nelle nostre scelte».
In Siria c’è un nuovo governo, un gruppo di ex qaedisti che hanno rovesciato Assad in 11 giorni e che adesso si stanno presentando al mondo come moderati. Nei mesi scorsi però i drusi siriani sono stati pesantemente attaccati dalle tribù beduine e Israele ha reagito militarmente per difendere la sua comunità.
«Israele è l’unica nazione che si è mossa per aiutare i drusi siriani massacrati. Oltre 2000 morti, stupri ed incendi hanno insanguinato la provincia di Suwayda, tutto nell’indifferenza della comunità internazionale. Il governo di Damasco è un regime islamista e violento che vuole distruggere tutte le minoranze, prima gli Alawiti ed adesso i drusi. Utilizzano le milizie beduine, ma sono loro ad armarle e permettergli di uccidere senza pietà gente pacifica. Siamo felici che l’aviazione di Tel Aviv sia intervenuta per fermare il genocidio dei drusi, volevamo intervenire personalmente in sostegno ai fratelli siriani, ma il governo israeliano ha chiuso la frontiera. Al Shara è un assassino sanguinario che ci considera degli infedeli da eliminare, non bisogna credere a ciò che racconta all’estero. La Siria è una nazione importante ed in tanti vogliono destabilizzarla per colpire tutto il Medio Oriente. Siamo gente semplice e povera, ma voglio comunque fare un appello al presidente statunitense Donald Trump di non credere alle bugie dei tagliagole di Damasco e di proteggere i drusi della Siria».
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Con Luciano Pignataro commentiamo l'iscrizione della nostra grande tradizione gastronomica nel patrimonio immateriale dell'umanità