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2021-11-30
Salvini fa dietrofront sul premier e tenta di stanare Draghi per il Colle
Silvio Berlusconi e Matteo Salvini (Ansa)
«Condivido le parole di Berlusconi, Draghi sta lavorando bene da presidente del Consiglio e quindi mi auguro che vada avanti a lungo a lavorare bene da presidente del Consiglio»: l’improvviso dietrofront di Matteo Salvini arriva nel corso di un incontro con i giornalisti per illustrare gli emendamenti del Carroccio alla legge di Bilancio. Improvviso e clamoroso: Salvini fino a ieri era infatti annoverato tra i principali sponsor della ascesa al Colle più alto di Draghi, non fosse altro perché ciò comporterebbe, salvo clamorosi imprevisti, le elezioni anticipate nella primavera 2022. Ieri, invece, il leader della Lega ha dato ragione a Silvio Berlusconi, che in una intervista al Corriere della Sera ha auspicato che Draghi «continui a lavorare con serietà fino a quando sarà necessario, fino al 2023, quando saremo usciti dall’emergenza: saremo i primi a collaborare lealmente all’attività dell’esecutivo. L’autorevolezza e l’esperienza di Draghi», ha aggiunto Berlusconi, «sono un patrimonio del quale l’Italia deve profittare».
Occorre a questo punto interpretare la svolta di Salvini, e per farlo non si può non partire dall’ambizione di Berlusconi di diventare presidente della Repubblica. Ambizione, non sogno o delirio: il Cav ci sta lavorando sul serio, tentando di convincere quella cinquantina di grandi elettori che, aggiunti ai voti di un centrodestra compatto, gli consentirebbero di raggiungere la fatidica soglia dei 505 voti e coronare nella maniera più clamorosa la sua carriera politica. Ma se il centrodestra deve essere compatto su Berlusconi, lo deve essere a partire dalla Lega, che ha i gruppi parlamentari più numerosi: Salvini potrebbe aver semplicemente voluto concedere qualche speranza in più all’«amico Silvio», assecondandone l’ambizione per disciplina di coalizione, ma in realtà potrebbe avere in mente, ancora, l’elezione di Draghi per andare al voto subito dopo, tentare di vincere la sfida elettorale con Giorgia Meloni e diventare (se i sondaggi di oggi saranno confermati dalle urne) presidente del Consiglio.
Non è detto, però, che quella di Salvini sia solo tattica: la sua conversione alla permanenza a Palazzo Chigi di Mario Draghi potrebbe anche essere sincera, anche se magari non esattamente spontanea. Salvini, ricordiamolo sempre, nella Lega deve fare i conti con un fronte di pasdaran di Draghi premier abbastanza consistente, capitanato dal più draghiano dei leghisti, ovvero Giancarlo Giorgetti. La sortita di ieri, quindi, permetterebbe a Salvini di prendere due piccioni (del calibro di Berlusconi e Giorgetti) con una fava: del resto, fino a quando Draghi non avrà fatto capire che ha intenzione di fare, se restare premier o tentare la scalata al Quirinale, le dichiarazioni rilasciate ai giornalisti lasciano il tempo che trovano. Siamo, come ben si vede, nel campo dell’ermeneutica, poiché Draghi tiene ancora le carte coperte, e tutti i protagonisti politici sono così legati alle sue (in)decisioni. A meno che (terza ipotesi) Draghi non abbia manifestato a qualcuno la sua intenzione di restare premier: Salvini in questo caso non avrebbe fatto altro che giocare di sponda, intestandosi una decisione non sua, come da buona norma della comunicazione politica. Infine, ma non in ordine di importanza, una ulteriore chiave di lettura delle parole di Salvini potrebbe essere questa: considerato che Draghi continua a non rivelare le sue intenzioni, il leader della Lega potrebbe aver voluto stanare il premier, facendogli capire che non è detto che il Carroccio resterà immobile nell’attesa di un cenno del capo dell’uomo-sfinge. Ipotesi, questa, che sembrerebbe avvalorata dalla risposta in serata dello stesso Salvini a domanda sull’investitura di Draghi: «Chiedete a lui. Non parlo di Quirinale fino a gennaio». Come dire: io non parlo, parli lui.
La Verità ha chiesto a un esponente di primo piano del governo una interpretazione del dietrofront del leader della Lega: «Salvini», dice la nostra fonte, «sa benissimo che il silenzio di Draghi sta portando i partiti a ragionare su ipotesi alternative per la successione a Mattarella. Berlusconi a parte, che gioca una sua partita, i nomi che girano vorticosamente in queste ore sono quelli di Giuliano Amato e Anna Finocchiaro».
In sintesi, le parole di Salvini, il suo auspicio che Draghi resti a Palazzo Chigi, sono il segnale che qualunque sia la lettura da dare a queste dichiarazioni la corsa al Colle sta avendo una accelerazione. Del resto, mancano due mesi alla convocazione del parlamento in seduta comune, ed è naturale che le forze politiche stiano intensificando le discussioni. Non manca chi, nei palazzi romani, sospetta che la ritrosia di Draghi a ufficializzare la disponibilità alla successione di Mattarella sia legata al timore di non riuscire a essere eletto al primo scrutinio, quando è necessaria una maggioranza dei 2/3 dei grandi elettori, ovvero 672, così come nel secondo e nel terzo (dal quarto scrutinio in poi basta la maggioranza assoluta, ovvero 505). Draghi affossato da franchi tiratori che hanno paura di andare al voto? In realtà, sembra francamente fantascienza: uno scenario del genere non potrebbe che portare a una traumatica caduta del governo.
Conte abbatte un altro totem 5 stelle
Direbbero gli antipatizzanti: «supercazzola con pochette», oppure «più Conte Mascetti (nel senso di Amici miei) che Conte Giuseppe».
Infatti, considerando le martellanti litanie anticasta dei grillini, fa una certa impressione la lettura del post di ieri pomeriggio del neo leader Conte, la cui autorevolezza appare peraltro già minata dalle battute sarcastiche di Beppe Grillo (sui «penultimatum» contiani) e sull’ormai costante smarcamento di Luigi Di Maio. E se a questo si aggiunge il tentativo di giustificare la possibilità di accedere al 2 per mille, l’effetto involontariamente comico appare garantito.
Ecco dunque il Conte di ieri su Facebook. Come foglia di fico, l’ex premier parte dalla citazione di un’altra votazione che avverrà sulla piattaforma («dobbiamo decidere sulla restituzione di parte degli stipendi dei nostri parlamentari alla collettività»).
Poi, le dolenti note: «L’altra odierna votazione riguarda un tema che è emerso con insistenza nel corso degli Stati generali dello scorso anno e che mi è stato a più riprese e da più parti sollevato: la possibilità per il Movimento di accedere al 2x1000». E già qui Conte sembra mettere le mani avanti: non l’ha voluto lui, gliel’hanno chiesto.
E poi ancora sullo stesso tasto, per scaricare altrove la responsabilità della vicenda: «Questa votazione è l’approdo di un percorso iniziato dalla richiesta di molti attivisti che, faticosamente e quotidianamente, si adoperano sui territori per fare quella politica sana, ma anche spesso dispendiosa, che necessita però di un sostegno economico per poter essere continua ed efficace».
Poi un’altra excusatio: pure i parlamentari l’avrebbero sollecitato. «La settimana scorsa», scrive l’ex premier, «i gruppi parlamentari di Camera e Senato, nel corso di un’assemblea congiunta, hanno concordato, pressoché unanimemente, di aprire a questa forma di finanziamento. Per parte mia, ho preso atto di questa richiesta e ho dichiarato subito che la decisione, com’è nella tradizione del Movimento per le scelte più significative, deve essere rimessa alla volontà degli iscritti».
Conclusione: «Affrontiamo questo passaggio in maniera serena, valutando liberamente e scegliendo consapevolmente». Ultima chiosa ancora più democristiana: «Posso anticiparvi che se prevarrà un voto favorevole, mi impegnerò personalmente per garantire che queste somme siano destinate a favorire l’azione politica sui territori e l’elaborazione di nuovi progetti a beneficio delle comunità locali e nazionali (penso, ad esempio, a tutte le iniziative progettuali che saranno elaborate anche nell’ambito della Scuola di formazione). Nel caso in cui prevarrà un voto contrario, state certi che continueremo a fare quel che abbiamo sempre fatto e lo faremo con l’autofinanziamento e le microdonazioni».
A favore, è schierato il presidente della commissione Affari europei di Montecitorio, Sergio Battelli: «È un contributo volontario e trasparente che ci consentirebbe di finanziare più e meglio le nostre attività sui territori». Dice no l’ex ministro Danilo Toninelli, con una dichiarazione resa all’edizione online del Fatto quotidiano: «Sono soldi pubblici che invece di restare nelle casse dello Stato vanno a foraggiare i partiti. Il Movimento ha dimostrato che la politica si può fare senza soldi pubblici: è un aspetto identitario che ci distingue da tutti gli altri e non possiamo abbandonarlo».
Ma forse sarebbe più facile squarciare il velo dell’ipocrisia e ammettere ciò che è ormai evidente: dopo la caduta del dogma dei due soli mandati, viene meno un altro punto fermo, oggetto di anni di propaganda. I grillini sono ormai un partito come gli altri. Al massimo, usano le consultazioni online per giustificare l’archiviazione, una dopo l’altra, delle giaculatorie del passato.
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Il leader leghista si dice d’accordo con Silvio Berlusconi per blindare Super Mario a Palazzo Chigi. Atto di cortesia nei confronti del Cav e delle sue ambizioni. Ma che mira anche a scoprire le carte del presidente del Consiglio.Con la possibilità di accedere al 2 per mille e ai soldi pubblici viene meno l’ennesimo punto fermo della propaganda grillina. Giuseppe Conte si barcamena, i militanti si dividono.Lo speciale contiene due articoli.«Condivido le parole di Berlusconi, Draghi sta lavorando bene da presidente del Consiglio e quindi mi auguro che vada avanti a lungo a lavorare bene da presidente del Consiglio»: l’improvviso dietrofront di Matteo Salvini arriva nel corso di un incontro con i giornalisti per illustrare gli emendamenti del Carroccio alla legge di Bilancio. Improvviso e clamoroso: Salvini fino a ieri era infatti annoverato tra i principali sponsor della ascesa al Colle più alto di Draghi, non fosse altro perché ciò comporterebbe, salvo clamorosi imprevisti, le elezioni anticipate nella primavera 2022. Ieri, invece, il leader della Lega ha dato ragione a Silvio Berlusconi, che in una intervista al Corriere della Sera ha auspicato che Draghi «continui a lavorare con serietà fino a quando sarà necessario, fino al 2023, quando saremo usciti dall’emergenza: saremo i primi a collaborare lealmente all’attività dell’esecutivo. L’autorevolezza e l’esperienza di Draghi», ha aggiunto Berlusconi, «sono un patrimonio del quale l’Italia deve profittare».Occorre a questo punto interpretare la svolta di Salvini, e per farlo non si può non partire dall’ambizione di Berlusconi di diventare presidente della Repubblica. Ambizione, non sogno o delirio: il Cav ci sta lavorando sul serio, tentando di convincere quella cinquantina di grandi elettori che, aggiunti ai voti di un centrodestra compatto, gli consentirebbero di raggiungere la fatidica soglia dei 505 voti e coronare nella maniera più clamorosa la sua carriera politica. Ma se il centrodestra deve essere compatto su Berlusconi, lo deve essere a partire dalla Lega, che ha i gruppi parlamentari più numerosi: Salvini potrebbe aver semplicemente voluto concedere qualche speranza in più all’«amico Silvio», assecondandone l’ambizione per disciplina di coalizione, ma in realtà potrebbe avere in mente, ancora, l’elezione di Draghi per andare al voto subito dopo, tentare di vincere la sfida elettorale con Giorgia Meloni e diventare (se i sondaggi di oggi saranno confermati dalle urne) presidente del Consiglio. Non è detto, però, che quella di Salvini sia solo tattica: la sua conversione alla permanenza a Palazzo Chigi di Mario Draghi potrebbe anche essere sincera, anche se magari non esattamente spontanea. Salvini, ricordiamolo sempre, nella Lega deve fare i conti con un fronte di pasdaran di Draghi premier abbastanza consistente, capitanato dal più draghiano dei leghisti, ovvero Giancarlo Giorgetti. La sortita di ieri, quindi, permetterebbe a Salvini di prendere due piccioni (del calibro di Berlusconi e Giorgetti) con una fava: del resto, fino a quando Draghi non avrà fatto capire che ha intenzione di fare, se restare premier o tentare la scalata al Quirinale, le dichiarazioni rilasciate ai giornalisti lasciano il tempo che trovano. Siamo, come ben si vede, nel campo dell’ermeneutica, poiché Draghi tiene ancora le carte coperte, e tutti i protagonisti politici sono così legati alle sue (in)decisioni. A meno che (terza ipotesi) Draghi non abbia manifestato a qualcuno la sua intenzione di restare premier: Salvini in questo caso non avrebbe fatto altro che giocare di sponda, intestandosi una decisione non sua, come da buona norma della comunicazione politica. Infine, ma non in ordine di importanza, una ulteriore chiave di lettura delle parole di Salvini potrebbe essere questa: considerato che Draghi continua a non rivelare le sue intenzioni, il leader della Lega potrebbe aver voluto stanare il premier, facendogli capire che non è detto che il Carroccio resterà immobile nell’attesa di un cenno del capo dell’uomo-sfinge. Ipotesi, questa, che sembrerebbe avvalorata dalla risposta in serata dello stesso Salvini a domanda sull’investitura di Draghi: «Chiedete a lui. Non parlo di Quirinale fino a gennaio». Come dire: io non parlo, parli lui.La Verità ha chiesto a un esponente di primo piano del governo una interpretazione del dietrofront del leader della Lega: «Salvini», dice la nostra fonte, «sa benissimo che il silenzio di Draghi sta portando i partiti a ragionare su ipotesi alternative per la successione a Mattarella. Berlusconi a parte, che gioca una sua partita, i nomi che girano vorticosamente in queste ore sono quelli di Giuliano Amato e Anna Finocchiaro».In sintesi, le parole di Salvini, il suo auspicio che Draghi resti a Palazzo Chigi, sono il segnale che qualunque sia la lettura da dare a queste dichiarazioni la corsa al Colle sta avendo una accelerazione. Del resto, mancano due mesi alla convocazione del parlamento in seduta comune, ed è naturale che le forze politiche stiano intensificando le discussioni. Non manca chi, nei palazzi romani, sospetta che la ritrosia di Draghi a ufficializzare la disponibilità alla successione di Mattarella sia legata al timore di non riuscire a essere eletto al primo scrutinio, quando è necessaria una maggioranza dei 2/3 dei grandi elettori, ovvero 672, così come nel secondo e nel terzo (dal quarto scrutinio in poi basta la maggioranza assoluta, ovvero 505). Draghi affossato da franchi tiratori che hanno paura di andare al voto? In realtà, sembra francamente fantascienza: uno scenario del genere non potrebbe che portare a una traumatica caduta del governo. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/salvini-dietrofront-premier-draghi-colle-2655882397.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="conte-abbatte-un-altro-totem-5-stelle" data-post-id="2655882397" data-published-at="1638215838" data-use-pagination="False"> Conte abbatte un altro totem 5 stelle Direbbero gli antipatizzanti: «supercazzola con pochette», oppure «più Conte Mascetti (nel senso di Amici miei) che Conte Giuseppe». Infatti, considerando le martellanti litanie anticasta dei grillini, fa una certa impressione la lettura del post di ieri pomeriggio del neo leader Conte, la cui autorevolezza appare peraltro già minata dalle battute sarcastiche di Beppe Grillo (sui «penultimatum» contiani) e sull’ormai costante smarcamento di Luigi Di Maio. E se a questo si aggiunge il tentativo di giustificare la possibilità di accedere al 2 per mille, l’effetto involontariamente comico appare garantito. Ecco dunque il Conte di ieri su Facebook. Come foglia di fico, l’ex premier parte dalla citazione di un’altra votazione che avverrà sulla piattaforma («dobbiamo decidere sulla restituzione di parte degli stipendi dei nostri parlamentari alla collettività»). Poi, le dolenti note: «L’altra odierna votazione riguarda un tema che è emerso con insistenza nel corso degli Stati generali dello scorso anno e che mi è stato a più riprese e da più parti sollevato: la possibilità per il Movimento di accedere al 2x1000». E già qui Conte sembra mettere le mani avanti: non l’ha voluto lui, gliel’hanno chiesto. E poi ancora sullo stesso tasto, per scaricare altrove la responsabilità della vicenda: «Questa votazione è l’approdo di un percorso iniziato dalla richiesta di molti attivisti che, faticosamente e quotidianamente, si adoperano sui territori per fare quella politica sana, ma anche spesso dispendiosa, che necessita però di un sostegno economico per poter essere continua ed efficace». Poi un’altra excusatio: pure i parlamentari l’avrebbero sollecitato. «La settimana scorsa», scrive l’ex premier, «i gruppi parlamentari di Camera e Senato, nel corso di un’assemblea congiunta, hanno concordato, pressoché unanimemente, di aprire a questa forma di finanziamento. Per parte mia, ho preso atto di questa richiesta e ho dichiarato subito che la decisione, com’è nella tradizione del Movimento per le scelte più significative, deve essere rimessa alla volontà degli iscritti». Conclusione: «Affrontiamo questo passaggio in maniera serena, valutando liberamente e scegliendo consapevolmente». Ultima chiosa ancora più democristiana: «Posso anticiparvi che se prevarrà un voto favorevole, mi impegnerò personalmente per garantire che queste somme siano destinate a favorire l’azione politica sui territori e l’elaborazione di nuovi progetti a beneficio delle comunità locali e nazionali (penso, ad esempio, a tutte le iniziative progettuali che saranno elaborate anche nell’ambito della Scuola di formazione). Nel caso in cui prevarrà un voto contrario, state certi che continueremo a fare quel che abbiamo sempre fatto e lo faremo con l’autofinanziamento e le microdonazioni». A favore, è schierato il presidente della commissione Affari europei di Montecitorio, Sergio Battelli: «È un contributo volontario e trasparente che ci consentirebbe di finanziare più e meglio le nostre attività sui territori». Dice no l’ex ministro Danilo Toninelli, con una dichiarazione resa all’edizione online del Fatto quotidiano: «Sono soldi pubblici che invece di restare nelle casse dello Stato vanno a foraggiare i partiti. Il Movimento ha dimostrato che la politica si può fare senza soldi pubblici: è un aspetto identitario che ci distingue da tutti gli altri e non possiamo abbandonarlo». Ma forse sarebbe più facile squarciare il velo dell’ipocrisia e ammettere ciò che è ormai evidente: dopo la caduta del dogma dei due soli mandati, viene meno un altro punto fermo, oggetto di anni di propaganda. I grillini sono ormai un partito come gli altri. Al massimo, usano le consultazioni online per giustificare l’archiviazione, una dopo l’altra, delle giaculatorie del passato.
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Prima di essere lapidati da musicofili inflessibili o da fanatici ammiratori di Beethoven (lo siamo anche noi) lasciamo allo stesso Ludwig Vchean l’ultima parola sull’argomento: «Solo i puri di cuore», affermò il genio tedesco, «possono cucinare una buona zuppa». Capito? Il sommo compositore a tavola amava i piatti semplici e disprezzava quelli troppo complicati. Adorava la zuppa, soprattutto quella di pane e uova: era il suo piatto preferito insieme ai maccheroni con il formaggio. Era sordo, ma le papille gustative gli funzionavano alla grande.
Una vera e propria zuppa di verdure musicale la serve al pubblico un gruppo austriaco formato da musicisti, designer, scenografi, autori. Si chiama The Vegetable Orchestra, che usa le verdure come strumenti musicali: una carota intagliata in una certa maniera diventa un flauto, la zucca uno strumento di percussione, le melanzane diventano dopo un sapiente lavoro di intaglio delle nacchere, le zucchine strumenti a fiato e così via. Con questi strumenti suonano pezzi di jazz o di dub, un genere musicale che deriva dal reggae giamaicano, e altra musica. Finito il concerto, dopo gli applausi del pubblico stupito da tanta musica «verde», i musicisti si trasformano in cuochi, gettano gli strumenti in pentoloni e preparano una bella zuppa per il pubblico dopo aver lavato gli strumenti, soprattutto quelli a fiato.
La zuppa vanta una storia vecchia come l’homo sapiens. Fu uno dei primi piatti elaborati dai nostri cavernicoli progenitori centinaia di migliaia di anni fa. Gli studiosi del periodo paleolitico ci documentano che la scoperta dell’acqua calda e il suo impiego per cuocere verdure e altri cibi avvenne nell’età della pietra antica, in incavi di roccia pieni d’acqua nella quale gli uomini primitivi tuffavano pietre roventi per farla bollire. Fu così che nacquero i primi minestroni. La parola «zuppa» arriverà molti millenni dopo, ma sempre in tempi molto antichi rispetto a noi, mutuata dal termine germanico suppa che definiva la fetta di pane inzuppata. Il pane era nell’antichità il cucchiaio dei poveri, le dita della mano la forchetta. La «posateria» delle classi più umili era tutta lì. Una sorta di brodaglia nera molto spartana chiamata melas zomos, nera zuppa, fatta con sangue di porco, budella e vino era la zuppa dei duri soldati di Sparta. A loro, che non cercavano mollezze, piaceva così, brutta da vedere ma semplice e nutriente, adatta a sostenere il fisico durante le campagne militari. Spostandoci in altre parti dell’antica penisola ellenica troviamo una cucina meno rigorosa, ma sempre con un menu nel quale zuppe e piatti brodosi a base di verdure, cereali, erbe spontanee e legumi vari, abbondavano.
Cotture e metodi a parte, quelle preparazioni sono le bis-bis-bisnonne delle zuppe che mangiamo noi oggi fatte, come allora, con cereali tipo orzo e farro, o con legumi, ceci, lenticchie, fave. Borlotti e cannellini erano al di là dell’Atlantico che aspettavano di essere scoperti. Il Phaseolus vulgaris arriverà dopo i viaggi di Colombo e degli altri viaggiatori su caravelle dirette verso il Nuovo mondo. Dalla Grecia a Roma le zuppe sostanzialmente non cambiano: erano piatti che facevano parte della dieta quotidiana dei Romani. Fonti di proteine e nutrienti, erano il comfort food delle classi plebee e dei contadini. Tra le altre zuppe, i legionari amavano quella fatta con pane, aglio, olio e aceto. Furono loro a introdurla in Spagna dove si evolverà fino a diventare il moderno gazpacho, zuppa fredda che si arricchì dal Cinquecento in poi con il pomodoro e i peperoni venuti dall’America.
Una zuppa leggendaria è la soupe à la pavoise, la zuppa pavese, che ha trovato posto nei libri di storia gastronomica dove si racconta di Francesco I di Valois, re di Francia sconfitto e fatto prigioniero dagli spagnoli di Carlo V nella battaglia di Pavia del 24 febbraio 1525. L’accasciato François du grand nez, come lo chiamavano i suoi sudditi per via del nasone che gli troneggiava sopra la bocca, fu portato dai nemici vincitori in un cascinale di campagna dove trovò ristoro e consolazione nella povera zuppa preparatogli dalla contadina del casolare che mise in una rozza scodella due croste di pane raffermo sopra le quali scocciò un uovo versando poi sul tutto il brodo bollente di erbe spontanee che gorgogliava quotidianamente nella marmitta sul camino. Francesco I, con il morale a terra per la sconfitta («Tutto è perduto fuorché l’onore»), apprezzò talmente quella zuppa villana che quando ritornò sul trono convocò i cuochi di corte insegnando loro la ricetta della zuppa pavese che fu perfezionata dagli chef i quali aggiunsero altri ingredienti ricchi elevandola da contadina che era ad aristocratica.
C’è da dire che la zuppa in Francia troverà il successo che merita grazie a una figura più leggendaria che reale, tale Monsieur Boulanger marchand de bouillon, mercante di brodo. Siamo a Parigi 25 anni prima della presa della Bastiglia e dello scoppio della rivoluzione. Il mitico Boulanger vende zuppe restaurateurs, restauratrici, che sistemano lo stomaco dei clienti cagionevoli rimettendoli in salute in un ambiente tutto sommato comodo con i tavoli accoglienti. Nasce da queste zuppe il restaurant, il ristorante che prende il nome dal ristoro, il conforto, che regalano le zuppe. Dando ragione in questo all’antico e saggio proverbio italiano regalatoci dalla civiltà contadina fin dal Medioevo: «Sette cose fa la zuppa: cava la fame e la sete tutta, empie il ventre, netta il dente, fa dormire, fa smaltire e la guancia fa arrossire».
Il più alto riconoscimento a questo piatto umile ma tanto utile alla sopravvivenza della povera umanità, lo firmano, tra gli altri, alcuni grandi artisti moderni: Paul Cézanne con la sua Natura morta con zuppiera (1884), Pablo Picasso che affronta il tema della povertà ne La zuppa, opera del periodo blu che mostra una vecchia paurosamente magra che porge una scodella di zuppa a una bambina, ma soprattutto Andy Warhol. Il re della Pop art che confessò di aver mangiato a pranzo per vent’anni i barattoloni di zuppa Campbell’s rivoluzionò i concetti di natura morta e di bellezza immortalando le stesse lattine zuppesche in una serie di opere seriali la più importante delle quali è la Campbell’s Soup Cans che presenta tutta la produzione di zuppe della Cambell’s: al pomodoro, agli asparagi, alla carne, al pollo, ai fagioli neri, e così via per 200 volte. Paradossalmente a dare importanza alla zuppa nell’arte sono stati anche le attiviste per il clima che il 28 gennaio dello scorso anno lanciarono la zuppa contro la Gioconda di Leonardo, ben protetta dal vetro antiguai, invocando un’agricoltura mondiale sana.
È profondamente ingiusto nei confronti della zuppa il detto «Se non è zuppa è pan bagnato». Come sopra detto la zuppa è salvifica, ristoratrice, ristoro e medicina attraverso i secoli dell’umanità misera. E poi la famiglia zuppesca è molto varia. Oltre alla zuppa-madre ci sono la minestra, il minestrone, la crema, la vellutata, il passato. Non sono sinonimi, ogni piatto ha la sua caratteristica che riguarda gli ingredienti e le tecniche di preparazione per le quali rimandiamo ai libri di cucina.
Concludiamo con la mistica zen. Un allievo chiede al maestro: «Cosa devo fare per raggiungere l’Illuminazione?». Gli risponde il maestro: «Hai mangiato la zuppa?» «Sì». «Allora lava la scodella».
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Gabriele D'Annunzio (Ansa)
Il patrimonio mondiale dell’umanità rappresentato dalla cucina italiana sarà pure «immateriale», come da definizione Unesco, ma è fatto di carne, ossa, talento e creatività. È il risultato delle centinaia di migliaia di persone che, nel corso dei secoli e dei millenni, hanno affinato tecniche, scoperto ingredienti, assemblato gusti, allevato animali con amore e coltivato la terra con altrettanta dedizione. Insomma, dietro la cucina italiana ci sono... gli italiani.
Ed è a tutti questi peones e protagonisti della nostra storia che il riconoscimento va intestato. Ma anche a chi assapora le pietanze in un ristorante, in un bistrot o in un agriturismo. Alla fine, se ci si pensa, la cucina italiana siamo tutti noi: sono i grandi chef come le mamme o le nonne che si danno da fare tra le padelle della cucina. Sono i clienti dei ristoranti, gli amanti dei formaggi come dei salumi. Sono i giornalisti che fanno divulgazione, sono i fotografi che immortalano i piatti, sono gli scrittori che dedicano pagine e pagine delle loro opere ai manicaretti preferiti dal protagonista di questo o quel romanzo. Insomma, la cucina è cultura, identità, passato e anche futuro.
Giancarlo Saran, gastropenna di questo giornale, ha dato alle stampe Peccatori di gola 2 (Bolis edizioni, 18 euro, seguito del fortunato libro uscito nel 2024 vincitore del Premio selezione Bancarella cucina), volume contenente 13 ritratti di personaggi di spicco del mondo dell’italica buona tavola («Un viaggio curioso e goloso tra tavola e dintorni, con illustri personaggi del Novecento compresi alcuni insospettabili», sentenzia l’autore sulla quarta di copertina). Ci sono il «fotografo» Bob Noto e l’attore Ugo Tognazzi, l’imprenditore Giancarlo Ligabue e gli scrittori Gabriele D’Annunzio, Leonardo Sciascia e Andrea Camilleri. E poi ancora Lella Fabrizi (la sora Lella), Luciano Pavarotti, Pietro Marzotto, Gianni Frasi, Alfredo Beltrame, Giuseppe Maffioli, Pellegrino Artusi.
Un giro d’Italia culinario, quello di Saran, che testimonia come il riconoscimento Unesco potrebbe dare ulteriore valore al nostro made in Italy, con risvolti di vario tipo: rispetto dell’ambiente e delle nostre tradizioni, volano per l’economia e per il turismo, salvaguardia delle radici dal pericolo di una appiattente omologazione sociale e culturale. Sfogliando Peccatori 2, si può possono scovare, praticamente a ogni pagina, delle chicche. Tipo, la passione di D’Annunzio per le uova e la frittata. Scrive Saran: «D’Annunzio aveva un’esperienza indelebile legata alle frittate, che ebbe occasione di esercitare in diretta nelle giornate di vacanza a Francavilla con i suoi giovani compagni di ventura in cui, a rotazione, erano chiamati “l’uno a sfamare tutti gli altri”. Lasciamogli la cronaca in diretta. Chi meglio di lui. “In un pomeriggio di luglio ci attardavamo nella delizia del bagno quando mi fu rammentato, con le voci della fame, toccare a me le cura della cucina”. La affronta come si deve. “Non mancai di avvolgermi in una veste di lino rapita a Ebe”, la dea della giovinezza, “e di correre verso la vasta dimora costruita di tufo e adornata di maioliche paesane”. Non c’è storia: “Ruppi trentatré uova e, dopo averle sbattute, le agguagliai (mischiai) nella padella dal manico di ferro lungo come quello di una chitarra”. La notte è illuminata dal chiaro di luna che si riflette sulle onde, silenziose in attesa, e fu così che “adunai la sapienza e il misurato vigore... e diedi il colpo attentissimo a ricevere la frittata riversa”. Ma nulla da fare, questa, volando nel cielo non ricadde a terra, ovvero sulla padella. E qui avviene il miracolo laico. “Nel volgere gli occhi al cielo scorsi nel bagliore del novilunio la tunica e l’ala di un angelo”. Il finale conseguente. “L’angelo, nel passaggio, aveva colta la frittata in aria, l’aveva rapita, la sosteneva con le dita” con la missione imperativa di recarla ai Beati, “offerta di perfezione terrestre...”, di cui lui era stato (seppur involontario) protagonista. “Io mi vanto maestro insuperabile nell’arte della frittata per riconoscimento celestiale”.
La buona e sana cucina, dunque, ha come traino produttori e ristoratori «ma ancor più valore aggiunto deriva da degni ambasciatori e, con questo, i Peccatori di gola credo meritino piena assoluzione», conclude l’autore.
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Dal primo luglio 2026, in tutta l’Unione europea entrerà in vigore un contributo fisso di tre euro per ciascun prodotto acquistato su internet e spedito da Paesi extra-Ue, quando il valore della spedizione è inferiore a 150 euro. L’orientamento politico era stato definito già il mese scorso; la riunione di ieri del Consiglio Ecofin (12 dicembre) ne ha reso operativa l’applicazione, stabilendone i criteri.
Il prelievo di 3 euro si applicherà alle merci in ingresso nell’Unione europea per le quali i venditori extra-Ue risultano registrati allo sportello unico per le importazioni (Ioss) ai fini Iva. Secondo fonti di Bruxelles, questo perimetro copre «il 93% di tutti i flussi di e-commerce verso l’Ue».
In realtà, la misura non viene presentata direttamente come un’iniziativa mirata contro la Cina, anche se è dalla Repubblica Popolare che proviene la quota maggiore di pacchi. Una delle preoccupazioni tra i ministri è che parte della merce venga immessa nel mercato unico a prezzi artificialmente bassi, anche attraverso pratiche di sottovalutazione, per aggirare le tariffe che si applicano invece alle spedizioni oltre i 150 euro. La Commissione europea stima che nel 2024 il 91% delle spedizioni e-commerce sotto i 150 euro sia arrivato dalla Cina; inoltre, valutazioni Ue indicano che fino al 65% dei piccoli pacchi in ingresso potrebbe essere dichiarato a un valore inferiore al reale per evitare i dazi doganali.
«La decisione sui dazi doganali per i piccoli pacchi in arrivo nell’Ue è importante per garantire una concorrenza leale ai nostri confini nell’era odierna dell’e-commerce», ha detto il commissario per il Commercio, Maroš Šefčovič. Secondo il politico slovacco, «con la rapida espansione dell’e-commerce, il mondo sta cambiando rapidamente e abbiamo bisogno degli strumenti giusti per stare al passo».
La decisione finale da parte di Bruxelles arriva dopo un iter normativo lungo cinque anni. La Commissione europea aveva messo sul tavolo, nel maggio 2023, la cancellazione dell’esenzione dai dazi doganali per i pacchi con valore inferiore a 150 euro, inserendola nel pacchetto di riforma doganale. Nella versione originaria, l’entrata in vigore era prevista non prima della metà del 2028. Successivamente, il Consiglio ha formalizzato l’abolizione dell’esenzione il 13 novembre 2025, chiedendo però di anticipare l’applicazione già al 2026.
C’è poi un secondo balzello messo a punto dall’esecutivo Meloni. Si tratta di un emendamento che prevede l’introduzione di un contributo fisso di due euro per ogni pacco spedito con valore dichiarato fino a 150 euro.
La misura, però, non sarebbe limitata ai soli invii provenienti da Paesi extra-Ue. Rispetto alle ipotesi circolate in precedenza, l’impostazione è stata ampliata: se approvata, la tassa finirebbe per applicarsi a tutte le spedizioni di piccoli pacchi, indipendentemente dall’origine, quindi anche a quelle spedite dall’Italia. In origine, l’idea sembrava mirata soprattutto a intercettare le micro-spedizioni generate da piattaforme come Shein o Temu. Il punto, però, è che colpire esclusivamente i pacchi extra-europei avrebbe reso la misura assimilabile a un dazio, materia che rientra nella competenza dell’Unione europea e non dei singoli Stati membri. Per evitare questo profilo di incompatibilità, l’emendamento alla manovra 2026 ha quindi «generalizzato» il prelievo, estendendolo all’intero perimetro delle spedizioni. L’effetto pratico è evidente: la tassa non impatterebbe solo sulle piattaforme asiatiche, ma anche sugli acquisti effettuati su Amazon, eBay e, in generale, su qualsiasi negozio online che spedisca pacchi entro quella soglia di valore dichiarato.
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Ansa
Insomma: il vento è cambiato. E non spinge più la solita, ingombrante, vela francese che negli ultimi anni si era abituata a intendere l’Italia come un’estensione naturale della Rive Gauche.
E invece no. Il pendolo torna indietro. E con esso tornano anche ricordi e fantasie: Piersilvio Berlusconi sogna la Francia. Non quella dei consessi istituzionali, ma quella di quando suo padre, l’unico che sia riuscito a esportare il varietà italiano oltre le Alpi, provò l’avventura di La Cinq.
Una televisione talmente avanti che il presidente socialista François Mitterrand, per non farla andare troppo lontano, decise di spegnerla. Letteralmente.
Erano gli anni in cui gli italiani facevano shopping nella grandeur: Gianni Agnelli prese una quota di Danone e Raul Gardini mise le mani sul più grande zuccherificio francese, giusto per far capire che il gusto per il raffinato non ci era mai mancato. Oggi al massimo compriamo qualche croissant a prezzo pieno.
Dunque, Berlusconi – quello junior, stavolta – può dirlo senza arrossire: «La Francia sarebbe un sogno». Si guarda intorno, valuta, misura il terreno: Tf1 e M6.
La prima, dice, «ha una storia imprenditoriale solida»: niente da dire, anche le fortezze hanno i loro punti deboli. Con la seconda, «una finta opportunità». Tradotto: l’affare che non c’è, ma che ti fa perdere lo stesso due settimane di telefonate.
Il vero punto, però, è che mentre noi guardiamo a Parigi, Parigi si deve rassegnare. Lo dimostra il clamoroso stop di Crédit Agricole su Bpm, piantato lì come un cartello stradale: «Fine delle ambizioni». Con Bank of America che conferma la raccomandazione «Buy» su Mps e alza il target price a 11 euro. E non c’è solo questo. Natixis ha dovuto rinunciare alla cassaforte di Generali dov’è conservata buona parte del risparmio degli italiani. Vivendi si è ritirata. Tim è tornata italiana.
Il pendolo, dicevamo, ha cambiato asse. E spinge ben più a Ovest. Certo Parigi rimane il più importante investitore estero in Italia. Ma il vento della geopolitica e cambiato. Il nuovo asse si snoda tra Washington e Roma Gli americani non stanno bussando alla porta: sono già entrati.
E non con due spicci.
Ieri le due sigle più «Miami style» che potessero atterrare nel dossier Ilva – Bedrock Industries e Flacks Group – hanno presentato le loro offerte. Americani entrambi. Dall’odore ancora fresco di oceano, baseball e investimenti senza fronzoli.
E non è un caso isolato.
In Italia operano oltre 2.700 imprese a partecipazione statunitense, che generano 400.000 posti di lavoro. Non esattamente compratori di souvenir. Sono radicati nei capannoni, nella logistica, nelle tecnologie, nei servizi, nella manifattura. Un pezzo intero di economia reale. Poi c’è il capitolo dei giganti della finanza globale: BlackRock, Vanguard, i soliti nomi che quando entrano in una stanza fanno più rumore del tuono. Hanno fiutato l’aria e annusato l’Italia come fosse un tartufo bianco d’Alba: raro, caro e conveniente.
Gli incontri istituzionali degli ultimi anni parlano chiaro: data center, infrastrutture, digitalizzazione, energia.
Gli americani non si accontentano. Puntano al core del futuro: tecnologia, energia, scienza della vita, space economy, agritech.
Dopo l’investimento di Kkr nella rete fissa Telecom - uno dei deal più massicci degli ultimi quindici anni - la direzione è segnata: Washington ha scoperto che l’Italia rende.
A ottobre 2025 la grande conferma: missione economica a Washington, con una pioggia di annunci per oltre 4 miliardi di euro di nuovi investimenti. Non bonus, non promesse, ma progetti veri: space economy, sostenibilità, energia, life sciences, agri-tech, turism. Tutti settori dove l’Italia è più forte di quanto creda, e più sottovalutata di quanto dovrebbe.
A questo punto il pendolo ha parlato: gli americani investono, i francesi frenano.
E chissà che, alla fine, non si chiuda il cerchio: gli Usa tornano in Italia come investitori netti, e Berlusconi torna in Francia come ai tempi dell’avventura di La Cinq.
Magari senza che un nuovo Mitterrand tolga la spina.
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