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2021-09-05
Salvini lancia cinque idee per mediare. Il Pd vuole usare la fiducia come clava
Matteo Salvini (Ansa)
Sul green pass il premier, Mario Draghi, tira dritto, incurante delle critiche dell'opinione pubblica e dalla componente leghista della maggioranza. E si prepara ad allargare in modo massiccio la platea delle categorie per cui il lasciapassare sarà obbligatorio. Un'anticamera, forse, dell'obbligo vaccinale. Sta di fatto che settimana prossima, forse giovedì, si riunirà la cabina di regina che metterà a punto le nuove categorie, che confluiranno poi in un nuovo decreto, che dovrebbe entrare in vigore il 4 ottobre.
Le indiscrezioni parlano di un primo elenco imponente, che andrà a sanare, ma in termini ulteriormente restrittivi, la contraddizione tra l'obbligo per alcune categorie di utenti di servizi, con il personale che li eroga esentato. Il certificato sarà richiesto ai dipendenti della Pubblica amministrazione, ma anche a tutti i lavoratori impiegati in settori in cui è già necessaria la carta verde per gli utenti. A doversi munire di green pass saranno infatti: ristoratori e camerieri, i baristi, il personale di bordo di treni, aerei, navi e bus interregionali, quello di stadi, musei, musei, fiere, teatri, cinema, palestre e piscine. Più complesso il dibattito sull'imposizione dell'obbligo del certificato Covid per i passeggeri del trasporto pubblico locale: metropolitane, bus e tram, che incontra le perplessità del ministro delle Infrastrutture, Enrico Giovannini. Esattamente come un anno fa all'epoca della riapertura delle scuole (all'epoca il dibattito era sulla capienza consentita), il trasporto si dimostra ancora una volta l'ostacolo insormontabile nella prevenzione al virus: a differenza di quanto avviene sui treni ad Alta velocità, controllare con l'apposita app il Qr code di ogni passeggero che si avvicina ai tornelli della metropolitana di Milano o Roma all'ora di punta paralizzerebbe gli spostamenti dell'intera città. E lo stesso accadrebbe con autobus e tram. Il risultato però è che tutte quelle categorie a cui è stato e verrà imposto il certificato dovranno effettuare i loro spostamenti cittadini stipate in vagoni con altre centinaia di persone sconosciute, dopo aver atteso, altrettanto ammassate, il treno della metropolitana sulla banchina. O il tram alla fermata. Con tanti saluti non solo alle finalità del sempre più invasivo green pass, ma anche a qualsiasi ipotesi di tracciamento dei contatti dei positivi. Il premier però non sembra disponibile a nessun cambio di rotta, forte anche di una maggioranza che, almeno in pubblico, recepisce quasi incondizionatamente le sue proposte.
Con l'eccezione della Lega, il cui leader Matteo Salvini ieri, dopo aver ricordato che l'obbligo vaccinale non rientra tra gli accordi che hanno portato alla nascita del governo, ha presentato le proposte del Carroccio sul Covid, articolate in cinque punti, per provare a limitarlo: «Promozione della campagna vaccinale, riconoscendo l'efficacia dell'impegno dei sindaci, delle Regioni, della struttura commissariale e del governo […] e salvaguardando la libertà ed evitando obblighi o costrizioni […]; utilizzo del pass per favorire aperture in sicurezza a partire dai grandi eventi (per esempio, concerti o eventi sportivi), ma senza complicare la vita agli italiani; tamponi gratuiti per alcune categorie, così da permettere agevolmente l'ottenimento del green pass (ad esempio per i minori che fanno sport o le persone che non possono vaccinarsi); possibilità di usare tamponi salivari molecolari per ottenere il green pass; estensione dell'utilizzo degli anticorpi monoclonali prescrivibili anche dal medico di medicina generale». E proprio sui tamponi si potrebbe svolgere il dialogo all'interno della maggioranza. Non solo sul costo, ma anche sull'uso massivo di quelli salivari, la cui validità per ottenere il green pass è in già in corso di approvazione alla Camera, grazie a due emendamenti gemelli, presentati in commissione Affari sociali dalla Lega e dal M5s. L'utilizzo dei test salivari (non invasivi a differenza di quelli nasali), a prezzo calmierato o gratuiti, renderebbe infatti percorribile a chi non vuole sottoporsi al vaccino di mantenere la stessa autonomia di movimento di chi ha ricevuto le dosi del farmaco, paradossalmente con una maggiore chiarezza sullo stato di salute.
La proposta leghista scoprirà definitamente le carte sulle intenzioni del governo, che finora nel puntare tutto sulla campagna vaccinale, poteva contare, oltre che sulla formale mancanza di cure efficaci, anche sulla mancanza di alternative per la prevenzione. E che soprattutto chiarirà la linea di Draghi rispetto alle posizioni di critica costruttiva della Lega. E proprio dall'eventuale uso del voto di fiducia sulla conversione del decreto sul green pass si capirà se esiste una disponibilità all'ascolto delle posizioni della Lega e di Salvini. Di certo per Pd e M5s l'occasione di andare alla conta con un voto blindato per spaccare il Carroccio, o magari spingerlo fuori dalla maggioranza, è forte. Dietro l'angolo, poi, c'è l'idea di tirare dritto anche sulla imposizione dell'obbligo vaccinale se a ottobre non si sarà raggiunto il 90% di vaccinati sopra i 12 anni.
Nuovo round tra imprese e sindacati
Il green pass continua a dare non pochi grattacapi agli imprenditori che operano in Italia. Per cercare di sbloccare una situazione che vede da un lato la sicurezza dei lavoratori, ma dall'altra la necessità degli imprenditori di far lavorare senza ostacoli e a pieno regime le proprie aziende, domani Confindustria incontrerà i sindacati.
L'incontro fa seguito a una serie di botta e risposta tra le unioni dei lavoratori e l'associazione degli industriali in cui sostanzialmente le sigle sindacali si erano dette favorevoli all'obbligo del green pass sui luoghi di lavoro solo a seguito di una legge ad hoc.
Il segretario della Cgil, Maurizio Landini, ha ricordato più volte le condizioni per accettare il passaporto vaccinale nelle aziende: senza una legge, in pratica, non si va avanti. «Se il governo non fa la legge sull'obbligo vaccinale, non posso farla io», aveva detto. «Se non fai la legge e fai il green pass perché al tuo interno hai dei casini, il tampone deve essere gratuito. Non può essere il lavoratore a pagare, è una sciocchezza. Credo che governo e Parlamento si debbano assumere la responsabilità di una legge che renda obbligatorio il vaccino: spetta a loro».
Il numero uno di Confindustria, Carlo Bonomi, giorni fa aveva per questo criticato i sindacati affermando che «all'uso estensivo del green pass sui luoghi di lavoro il sindacato, o almeno una parte, ha detto no, preferisce gettare la palla nel campo del governo, e dire “se volete e ve la sentite imponete con una legge l'obbligo vaccinale". È una fuga dalla responsabilità».
Domani l'obiettivo sarà trovare una mediazione che, soprattutto, non spinga i capi azienda a sobbarcarsi anche l'onere dei controlli per i lavoratori. La soluzione, in effetti, potrebbe arrivare dal governo. L'esecutivo potrebbe mettere la fiducia sul decreto green pass già da domani nell'Aula della Camera, aggirando i mal di pancia in primis interni ai parlamentari della Lega, ma anche di alcuni del Movimento 5 stelle.
D'altronde, sul tema, le opinioni dei politici sono molto diverse anche se, va detto, ormai si sta già andando nella direzione di un obbligo vaccinale più o meno «mascherato».
Renato Brunetta, ministro per la Pubblica amministrazione, ieri, a margine del forum Ambrosetti di Cernobbio, ha fatto sapere che «l'obbligo vaccinale andrebbe esteso a tutto il mondo del lavoro pubblico». Bisogna estenderlo, ha detto, «in maniera tale che ci sia una sorta di passaporto vaccinale che deve mettere in sicurezza tutto il mondo del lavoro e delle relazioni sociali», ha sottolineato.
Sempre in tema di lavoratori della Pubblica amministrazione, c'è poi il nodo delle mense scolastiche (mentre quello delle mense aziendali è ancora sul tavolo), luoghi in cui spesso si trovano a operare professionisti di aziende esterne. Su questo le organizzazioni sindacali e le cooperative hanno chiesto un confronto «urgente» al governo perché, si legge in una nota sindacale diffusa ieri, «in queste ore alcune amministrazioni locali» hanno chiesto l'obbligo del green pass creando ancora più confusione. «Chiediamo pertanto che il governo e il ministero operino un chiarimento della suddetta normativa», fanno sapere le unioni di lavoratori. Il problema è che, infatti, dall'obbligo previsto per scuole e università dovrebbero essere esclusi i dipendenti delle imprese in appalto a partire da quelle che gestiscono il servizio di ristorazione e mensa nelle scuole.
Ora non resta che attendere cosa succederà domani tra sindacati e Confindustria. La realtà è che la soluzione può arrivare solo dal governo con una norma ad hoc che regoli l'uso della certificazione verde e chi si deve far carico dei controlli.
La speranza è che l'esecutivo capisca che per i datori di lavoro questa non può essere l'ennesima spina nel fianco in arrivo dopo un periodo certo non facile per molti.
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Il premier punta a estendere il lasciapassare: dai camerieri ai baristi, fino al personale dei trasporti. Pressing della Lega per limitare l'obbligo vaccinale. E ottenere tamponi gratuiti, test salivari e anticorpi monoclonali.Domani Confindustria e le sigle dei lavoratori si incontreranno ancora. Restano da sciogliere il nodo dei controlli all'interno delle aziende e quello delle mense.Lo speciale contiene due articoli.Sul green pass il premier, Mario Draghi, tira dritto, incurante delle critiche dell'opinione pubblica e dalla componente leghista della maggioranza. E si prepara ad allargare in modo massiccio la platea delle categorie per cui il lasciapassare sarà obbligatorio. Un'anticamera, forse, dell'obbligo vaccinale. Sta di fatto che settimana prossima, forse giovedì, si riunirà la cabina di regina che metterà a punto le nuove categorie, che confluiranno poi in un nuovo decreto, che dovrebbe entrare in vigore il 4 ottobre. Le indiscrezioni parlano di un primo elenco imponente, che andrà a sanare, ma in termini ulteriormente restrittivi, la contraddizione tra l'obbligo per alcune categorie di utenti di servizi, con il personale che li eroga esentato. Il certificato sarà richiesto ai dipendenti della Pubblica amministrazione, ma anche a tutti i lavoratori impiegati in settori in cui è già necessaria la carta verde per gli utenti. A doversi munire di green pass saranno infatti: ristoratori e camerieri, i baristi, il personale di bordo di treni, aerei, navi e bus interregionali, quello di stadi, musei, musei, fiere, teatri, cinema, palestre e piscine. Più complesso il dibattito sull'imposizione dell'obbligo del certificato Covid per i passeggeri del trasporto pubblico locale: metropolitane, bus e tram, che incontra le perplessità del ministro delle Infrastrutture, Enrico Giovannini. Esattamente come un anno fa all'epoca della riapertura delle scuole (all'epoca il dibattito era sulla capienza consentita), il trasporto si dimostra ancora una volta l'ostacolo insormontabile nella prevenzione al virus: a differenza di quanto avviene sui treni ad Alta velocità, controllare con l'apposita app il Qr code di ogni passeggero che si avvicina ai tornelli della metropolitana di Milano o Roma all'ora di punta paralizzerebbe gli spostamenti dell'intera città. E lo stesso accadrebbe con autobus e tram. Il risultato però è che tutte quelle categorie a cui è stato e verrà imposto il certificato dovranno effettuare i loro spostamenti cittadini stipate in vagoni con altre centinaia di persone sconosciute, dopo aver atteso, altrettanto ammassate, il treno della metropolitana sulla banchina. O il tram alla fermata. Con tanti saluti non solo alle finalità del sempre più invasivo green pass, ma anche a qualsiasi ipotesi di tracciamento dei contatti dei positivi. Il premier però non sembra disponibile a nessun cambio di rotta, forte anche di una maggioranza che, almeno in pubblico, recepisce quasi incondizionatamente le sue proposte.Con l'eccezione della Lega, il cui leader Matteo Salvini ieri, dopo aver ricordato che l'obbligo vaccinale non rientra tra gli accordi che hanno portato alla nascita del governo, ha presentato le proposte del Carroccio sul Covid, articolate in cinque punti, per provare a limitarlo: «Promozione della campagna vaccinale, riconoscendo l'efficacia dell'impegno dei sindaci, delle Regioni, della struttura commissariale e del governo […] e salvaguardando la libertà ed evitando obblighi o costrizioni […]; utilizzo del pass per favorire aperture in sicurezza a partire dai grandi eventi (per esempio, concerti o eventi sportivi), ma senza complicare la vita agli italiani; tamponi gratuiti per alcune categorie, così da permettere agevolmente l'ottenimento del green pass (ad esempio per i minori che fanno sport o le persone che non possono vaccinarsi); possibilità di usare tamponi salivari molecolari per ottenere il green pass; estensione dell'utilizzo degli anticorpi monoclonali prescrivibili anche dal medico di medicina generale». E proprio sui tamponi si potrebbe svolgere il dialogo all'interno della maggioranza. Non solo sul costo, ma anche sull'uso massivo di quelli salivari, la cui validità per ottenere il green pass è in già in corso di approvazione alla Camera, grazie a due emendamenti gemelli, presentati in commissione Affari sociali dalla Lega e dal M5s. L'utilizzo dei test salivari (non invasivi a differenza di quelli nasali), a prezzo calmierato o gratuiti, renderebbe infatti percorribile a chi non vuole sottoporsi al vaccino di mantenere la stessa autonomia di movimento di chi ha ricevuto le dosi del farmaco, paradossalmente con una maggiore chiarezza sullo stato di salute.La proposta leghista scoprirà definitamente le carte sulle intenzioni del governo, che finora nel puntare tutto sulla campagna vaccinale, poteva contare, oltre che sulla formale mancanza di cure efficaci, anche sulla mancanza di alternative per la prevenzione. E che soprattutto chiarirà la linea di Draghi rispetto alle posizioni di critica costruttiva della Lega. E proprio dall'eventuale uso del voto di fiducia sulla conversione del decreto sul green pass si capirà se esiste una disponibilità all'ascolto delle posizioni della Lega e di Salvini. Di certo per Pd e M5s l'occasione di andare alla conta con un voto blindato per spaccare il Carroccio, o magari spingerlo fuori dalla maggioranza, è forte. Dietro l'angolo, poi, c'è l'idea di tirare dritto anche sulla imposizione dell'obbligo vaccinale se a ottobre non si sarà raggiunto il 90% di vaccinati sopra i 12 anni. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/salvini-cinque-idee-mediare-2654907120.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="nuovo-round-tra-imprese-e-sindacati" data-post-id="2654907120" data-published-at="1630821712" data-use-pagination="False"> Nuovo round tra imprese e sindacati Il green pass continua a dare non pochi grattacapi agli imprenditori che operano in Italia. Per cercare di sbloccare una situazione che vede da un lato la sicurezza dei lavoratori, ma dall'altra la necessità degli imprenditori di far lavorare senza ostacoli e a pieno regime le proprie aziende, domani Confindustria incontrerà i sindacati. L'incontro fa seguito a una serie di botta e risposta tra le unioni dei lavoratori e l'associazione degli industriali in cui sostanzialmente le sigle sindacali si erano dette favorevoli all'obbligo del green pass sui luoghi di lavoro solo a seguito di una legge ad hoc. Il segretario della Cgil, Maurizio Landini, ha ricordato più volte le condizioni per accettare il passaporto vaccinale nelle aziende: senza una legge, in pratica, non si va avanti. «Se il governo non fa la legge sull'obbligo vaccinale, non posso farla io», aveva detto. «Se non fai la legge e fai il green pass perché al tuo interno hai dei casini, il tampone deve essere gratuito. Non può essere il lavoratore a pagare, è una sciocchezza. Credo che governo e Parlamento si debbano assumere la responsabilità di una legge che renda obbligatorio il vaccino: spetta a loro». Il numero uno di Confindustria, Carlo Bonomi, giorni fa aveva per questo criticato i sindacati affermando che «all'uso estensivo del green pass sui luoghi di lavoro il sindacato, o almeno una parte, ha detto no, preferisce gettare la palla nel campo del governo, e dire “se volete e ve la sentite imponete con una legge l'obbligo vaccinale". È una fuga dalla responsabilità». Domani l'obiettivo sarà trovare una mediazione che, soprattutto, non spinga i capi azienda a sobbarcarsi anche l'onere dei controlli per i lavoratori. La soluzione, in effetti, potrebbe arrivare dal governo. L'esecutivo potrebbe mettere la fiducia sul decreto green pass già da domani nell'Aula della Camera, aggirando i mal di pancia in primis interni ai parlamentari della Lega, ma anche di alcuni del Movimento 5 stelle. D'altronde, sul tema, le opinioni dei politici sono molto diverse anche se, va detto, ormai si sta già andando nella direzione di un obbligo vaccinale più o meno «mascherato». Renato Brunetta, ministro per la Pubblica amministrazione, ieri, a margine del forum Ambrosetti di Cernobbio, ha fatto sapere che «l'obbligo vaccinale andrebbe esteso a tutto il mondo del lavoro pubblico». Bisogna estenderlo, ha detto, «in maniera tale che ci sia una sorta di passaporto vaccinale che deve mettere in sicurezza tutto il mondo del lavoro e delle relazioni sociali», ha sottolineato. Sempre in tema di lavoratori della Pubblica amministrazione, c'è poi il nodo delle mense scolastiche (mentre quello delle mense aziendali è ancora sul tavolo), luoghi in cui spesso si trovano a operare professionisti di aziende esterne. Su questo le organizzazioni sindacali e le cooperative hanno chiesto un confronto «urgente» al governo perché, si legge in una nota sindacale diffusa ieri, «in queste ore alcune amministrazioni locali» hanno chiesto l'obbligo del green pass creando ancora più confusione. «Chiediamo pertanto che il governo e il ministero operino un chiarimento della suddetta normativa», fanno sapere le unioni di lavoratori. Il problema è che, infatti, dall'obbligo previsto per scuole e università dovrebbero essere esclusi i dipendenti delle imprese in appalto a partire da quelle che gestiscono il servizio di ristorazione e mensa nelle scuole. Ora non resta che attendere cosa succederà domani tra sindacati e Confindustria. La realtà è che la soluzione può arrivare solo dal governo con una norma ad hoc che regoli l'uso della certificazione verde e chi si deve far carico dei controlli. La speranza è che l'esecutivo capisca che per i datori di lavoro questa non può essere l'ennesima spina nel fianco in arrivo dopo un periodo certo non facile per molti.
Francesca Albanese (Ansa)
Rispetto a due mesi fa, la percentuale degli sfiduciati è cresciuta di 16 punti mentre quella di coloro che si fidano è scesa di 9. Il 42% degli intervistati, maggiorenni e residenti in Italia, dichiara di non conoscere la relatrice pasionaria o di non avere giudizi da esprimere, il che forse è quasi peggio: avvolta dalla sfiducia e dall’indifferenza.
Il 53% degli elettori di centrodestra non si fida dell’Albanese, e questo era un dato diciamo scontato, ma fa riflettere che la giurista irpina abbia perso credibilità per il 47% di coloro che votano Pd. Appena il 34% degli elettori dem oggi si fida della relatrice Onu, sotto sanzioni da parte di Washington e accusata da Israele di ostilità strutturale. La sinistra, dunque, non si limita ad essere in disaccordo al suo interno se rilasciare o meno la cittadinanza onoraria alla pro Pal. Sta dicendo che non la sostiene più.
«I cattivi maestri di sinistra non piacciono agli italiani», ha subito postato su X il partito della premier Giorgia Meloni, che sempre secondo il sondaggio Youtrend sarebbe la più convincente per il 48% degli italiani in un ipotetico dibattito assieme a Giuseppe Conte ed Elly Schlein.
Tramonta dunque l’astro effimero di Albanese, spacciata per l’eroina progressista che condanna la violenza sui palestinesi mentre la giustifica a casa nostra. L’assalto alla redazione della Stampa doveva e deve servire «da monito alla stampa», ha dichiarato la relatrice Onu, confermando la pericolosità del suo attivismo politico.
Eppure ha continuato a essere invitata per esporre le sue idee anti Israele, e non solo. In alcune scuole della Toscana avrebbe «ripetuto i suoi soliti mantra, sostenendo che il governo Meloni sia composto da fascisti e complice di un genocidio, accusando Leonardo di essere una azienda criminale e arrivando persino a incitare gli studenti ad occupare le scuole, di fatto, incitando dei minorenni a commettere reati sanzionati dal codice penale», hanno scritto Matteo Bagnoli capogruppo di Fratelli d’Italia al Comune di Pontedera e Christian Nannipieri responsabile di Gioventù nazionale Pontedera.
La mossa successiva è stata un’interrogazione presentata da Alessandro Amorese, capogruppo di Fdi alla commissione Istruzione della Camera alla quale ha prontamente risposto il ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara, chiedendo agli organi competenti di avviare una immediata ispezione per verificare quanto accaduto in alcune scuole in Toscana.
Secondo l’interrogazione, anche una classe della seconda media dell’Istituto Comprensivo Massa 6 avrebbe partecipato ad un incontro proposto dalla rete di insegnanti Docenti per Gaza, con Francesca Albanese che esponeva le tematiche del suo libro Quando il mondo dorme. Storie, parole e ferite dalla Palestina.
Non solo, con una nuova circolare inviata alle scuole sul tema manifestazioni ed eventi pubblici all’interno delle istituzioni scolastiche, il ministro ribadisce l’esigenza che la scelta di ospiti e relatori sia «volta a garantire il confronto tra posizioni diverse e pluraliste al fine di consentire agli studenti di acquisire una conoscenza approfondita dei temi trattati e sviluppare il pensiero critico».
Una raccomandazione necessaria, alla luce anche di quanto stanno sostenendo i docenti del liceo Montale di Pontedera che in una nota hanno definito «attività formativa» la presentazione online del libro di Albanese ad alcune classi. «Un’iniziativa organizzata su scala nazionale nell’ambito delle attività di educazione alla cittadinanza globale, come previsto dal curriculum di Educazione civica d’istituto […] nel quadro delle iniziative promosse dalla scuola per favorire la partecipazione democratica, la conoscenza delle istituzioni internazionali e il dialogo tra studenti e professionisti impegnati in contesti globali», scrivono. Senza contraddittorio, le posizioni pro Pal e anti governo Meloni della relatrice Onu non sono «partecipazione democratica».
Incredibilmente, però, due giorni fa la relatrice è comparsa accanto a Tucker Carlson, il giornalista e scrittore tra i creatori dell’universo Maga, che gestisce la Tucker Carlson Network dopo aver lasciato Fox News. Intervistata, ha detto che gli Stati Uniti l’hanno sanzionata a causa del suo dettagliato resoconto sulle politiche genocide di Israele contro i palestinesi. «Una penna, questa è la mia sola arma», si è difesa Albanese raccontando che il suo rapporto con Washington sarebbe cambiato bruscamente dopo che ha iniziato a documentare come le aziende statunitensi non solo stavano consentendo le azioni di Israele a Gaza, ma traendo profitto da esse.
«Tucker sta promuovendo le opinioni di una donna sottoposta a sanzioni da parte degli Stati Uniti per aver preso di mira gli americani», ha protestato su X l’American Israel public affairs committee (Aipac), il più importante gruppo di pressione filo israeliano degli Stati Uniti. Ma c’è anche chi non si sorprende perché Carlson avrebbe cambiato opinione su Israele negli ultimi mesi, criticando l’amministrazione Trump per il supporto incondizionato dato allo Stato ebraico così come fa la sinistra antisionista.
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Kaja Kallas (Ansa)
Kallas è il falco della Commissione, quando si tratta di Russia, e tiene a rimarcarlo. A proposito dei fondi russi depositati presso Euroclear, l’estone dice nell’intervista che il Belgio non deve temere una eventuale azione di responsabilità da parte della Russia, perché «se davvero la Russia ricorresse in tribunale per ottenere il rilascio di questi asset o per affermare che la decisione non è conforme al diritto internazionale, allora dovrebbe rivolgersi all’Ue, quindi tutti condivideremmo l’onere».
In pratica, cioè, l’interpretazione piuttosto avventurosa di Kallas è che tutti gli Stati membri sarebbero responsabili in solido con il Belgio se Mosca dovesse ottenere ragione da qualche tribunale sul sequestro e l’utilizzo dei suoi fondi.
Tribunale sui cui l’intervistata è scettica: «A quale tribunale si rivolgerebbe (Putin, ndr)? E quale tribunale deciderebbe, dopo le distruzioni causate in Ucraina, che i soldi debbano essere restituiti alla Russia senza che abbia pagato le riparazioni?». Qui l’alto rappresentante prefigura uno scenario, quello del pagamento delle riparazioni di guerra, che non ha molte chance di vedere realizzato.
All’intervistatore che chiede perché per finanziare la guerra non si usino gli eurobond, cioè un debito comune europeo, Kallas risponde: «Io ho sostenuto gli eurobond, ma c’è stato un chiaro blocco da parte dei Paesi Frugali, che hanno detto che non possono farlo approvare dai loro Parlamenti». È ovvio. La Germania e i suoi satelliti del Nord Europa non vogliano cedere su una questione sulla quale non hanno mai ceduto e per la quale, peraltro, occorre una modifica dei trattati su cui serve l’unanimità e la ratifica poi di tutti i parlamenti. Con il vento politico di destra che soffia in tutta Europa, con Afd oltre il 25% in Germania, è una opzione politicamente impraticabile. Dire eurobond significa gettare la palla in tribuna.
In merito all’adesione dell’Ucraina all’Unione europea già nel 2027, come vorrebbe il piano di pace americano, Kallas se la cava con lunghe perifrasi evitando di prendere posizione. Secondo l’estone, l’adesione all’Ue è una questione di merito e devono decidere gli Stati membri. Ma nel piano questo punto è importante e sembra difficile che venga accantonato.
Kallas poi reclama a gran voce un posto per l’Unione al tavolo della pace: «Il piano deve essere tra Russia e Ucraina. E quando si tratta dell’architettura di sicurezza europea, noi dobbiamo avere voce in capitolo. I confini non possono essere cambiati con la forza. Non ci dovrebbero essere concessioni territoriali né riconoscimento dell’occupazione». Ma lo stesso Zelensky sembra ormai convinto che almeno un referendum sulla questione del Donbass sia possibile. Insomma, Kallas resta oltranzista ma i fatti l’hanno già superata.
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Carlo Messina all'inaugurazione dell'Anno Accademico della Luiss (Ansa)
La domanda è retorica, provocatoria e risuona in aula magna come un monito ad alzare lo sguardo, a non limitarsi a contare i droni e limare i mirini, perché la risposta è un’altra. «In Europa abbiamo più poveri e disuguaglianza di quelli che sono i rischi potenziali che derivano da una minaccia reale, e non percepita o teorica, di una guerra». Un discorso ecumenico, realistico, che evoca l’immagine dell’esercito più dolente e sfinito, quello di chi lotta per uscire dalla povertà. «Perché è vero che riguardo a welfare e democrazia non c’è al mondo luogo comparabile all’Europa, ma siamo deboli se investiamo sulla difesa e non contro la povertà e le disuguaglianze».
Le parole non scivolano via ma si fermano a suggerire riflessioni. Perché è importante che un finanziere - anzi colui che per il 2024 è stato premiato come banchiere europeo dell’anno - abbia un approccio sociale più solido e lungimirante delle istituzioni sovranazionali deputate. E lo dimostri proprio nelle settimane in cui sentiamo avvicinarsi i tamburi di Bruxelles con uscite guerrafondaie come «resisteremo più di Putin», «per la guerra non abbiamo fatto abbastanza» (Kaja Kallas, Alto rappresentante per la politica estera) o «se vogliamo evitare la guerra dobbiamo preparaci alla guerra», «dobbiamo produrre più armi, come abbiamo fatto con i vaccini» (Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea).
Una divergenza formidabile. La conferma plastica che l’Europa dei diritti, nella quale ogni minoranza possibile viene tutelata, si sta dimenticando di salvaguardare quelli dei cittadini comuni che alzandosi al mattino non hanno come priorità la misura dell’elmetto rispetto alla circonferenza cranica, ma il lavoro, la famiglia, il destino dei figli e la difesa dei valori primari. Il ceo di Banca Intesa ricorda che il suo gruppo ha destinato 1,5 miliardi per combattere la povertà, sottolinea che la grande forza del nostro Paese sta «nel formidabile mondo delle imprese e nel risparmio delle famiglie, senza eguali in Europa». E sprona le altre grandi aziende: «In Italia non possiamo aspettarci che faccia tutto il governo, se ci sono aziende che fanno utili potrebbero destinarne una parte per intervenire sulle disuguaglianze. Ogni azienda dovrebbe anche lavorare perché i salari vengano aumentati. Sono uno dei punti di debolezza del nostro Paese e aumentarli è una priorità strategica».
Con l’Europa Carlo Messina non ha finito. Parlando di imprenditoria e di catene di comando, coglie l’occasione per toccare in altro nervo scoperto, perfino più strutturale dell’innamoramento bellicista. «Se un’azienda fosse condotta con meccanismi di governance come quelli dell’Unione Europea fallirebbe». Un autentico missile Tomahawk diretto alla burocrazia continentale, a quei «nani di Zurigo» (copyright Woodrow Wilson) trasferitisi a Bruxelles. La spiegazione è evidente. «Per competere in un contesto globale serve un cambio di passo. Quella europea è una governance che non si vede in nessun Paese del mondo e in nessuna azienda. Perché è incapace di prendere decisioni rapide e quando le prende c’è lentezza nella realizzazione. Oppure non incidono realmente sulle cose che servono all’Europa».
Il banchiere è favorevole a un ministero dell’Economia unico e ritiene che il vincolo dell’unanimità debba essere tolto. «Abbiamo creato una banca centrale che gestisce la moneta di Paesi che devono decidere all’unanimità. Questo è uno degli aspetti drammatici». Ma per uno Stato sovrano che aderisce al club dei 27 è anche l’unica garanzia di non dover sottostare all’arroganza (già ampiamente sperimentata) di Francia e Germania, che trarrebbero vantaggi ancora più consistenti senza quel freno procedurale.
Il richiamo a efficienza e rapidità riguarda anche l’inadeguatezza del burosauro e riecheggia la famosa battuta di Franz Joseph Strauss: «I 10 comandamenti contengono 279 parole, la dichiarazione americana d’indipendenza 300, la disposizione Ue sull’importazione di caramelle esattamente 25.911». Un esempio di questa settimana. A causa della superfetazione di tavoli e di passaggi, l’accordo del Consiglio Affari interni Ue sui rimpatri dei migranti irregolari e sulla liceità degli hub in Paesi terzi (recepito anche dal Consiglio d’Europa) entrerà in vigore non fra 60 giorni o 6 mesi, ma se va bene fra un anno e mezzo. Campa cavallo.
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Luca Casarini. Nel riquadro, il manifesto abusivo comparso a Milano (Ansa)
Quando non è tra le onde, Casarini è nel mare di Internet, dove twitta. E pure parecchio. Dice la sua su qualsiasi cosa. Condivide i post dell’Osservatore romano e quelli di Ilaria Salis (del resto, tra i due, è difficile trovare delle differenze, a volte). Ma, soprattutto, attacca le norme del governo e dell’Unione europea in materia di immigrazione. Si sente Davide contro Golia. E lotta, invitando anche ad andare contro la legge. Quando, qualche giorno fa, è stata fermata la nave Humanity 1 (poi rimessa subito in mare dal tribunale di Agrigento) Casarini ha scritto: «Abbatteremo i vostri muri, taglieremo i fili spinati dei vostri campi di concentramento. Faremo fuggire gli innocenti che tenete prigionieri. È già successo nella Storia, succederà ancora. In mare come in terra. La disumanità non vincerà. Fatevene una ragione». Questa volta si sentiva Oskar Schindler, anche se poi va nei cortei pro Pal che inneggiano alla distruzione dello Stato di Israele.
Chi volesse approfondire il suo pensiero, poi, potrebbe andare a leggersi L’Unità del 10 dicembre scorso, il cui titolo è già un programma: Per salvare i migranti dobbiamo forzare le leggi. Nel testo, che risparmiamo al lettore, spiega come l’Ue si sia piegata a Giorgia Meloni e a Donald Trump in materia di immigrazione. I sovranisti (da quanto tempo non sentivamo più questo termine) stanno vincendo. Bisogna fare qualcosa. Bisogna reagire. Ribellarsi. Anche alle leggi. Il nostro, sempre attento ad essere politicamente corretto, se la prende pure con gli albanesi che vivono in un Paese «a metà tra un narcostato e un hub di riciclaggio delle mafie di mezzo mondo, retto da un “dandy” come Rama, più simile al Dandy della banda della Magliana che a quel G.B. Brummel che diede origine al termine». Casarini parla poi di «squadracce» che fanno sparire i migranti e di presunte «soluzioni finali» per questi ultimi. E auspica un modello alternativo, che crei «reti di protezione di migranti e rifugiati, per sottrarli alle future retate che peraltro avverranno in primis nei luoghi di “non accoglienza”, così scientificamente creati nelle nostre città da un programma di smantellamento dei servizi sociali, educativi e sanitari, che mostra oggi i suoi risultati nelle sacche di marginalità in aumento».
Detto, fatto. Qualcuno, in piazzale Cuoco a Milano, ha infatti pensato bene di affiggere dei manifesti anonimi con le indicazioni, per i migranti irregolari, su cosa fare per evitare di finire nei centri di permanenza per i rimpatri, i cosiddetti di Cpr. Nessuna sigla. Nessun contatto. Solo diverse lingue per diffondere il vademecum: l’italiano, certo, ma anche l’arabo e il bengalese in modo che chiunque passi di lì posa capire il messaggio e sfuggire alla legge. Ti bloccano per strada? Non far vedere il passaporto. Devi andare in questura? Presentati con un avvocato. Ti danno un documento di espulsione? Ci sono avvocati gratis (che in realtà pagano gli italiani con le loro tasse). E poi informazioni nel caso in cui qualcuno dovesse finire in un cpr: avrai un telefono, a volte senza videocamera. E ancora: «Se non hai il passaporto del tuo Paese prima di deportarti l’ambasciata ti deve riconoscere. Quindi se non capisci la lingua in cui ti parla non ti deportano. Se ti deportano la polizia italiana ti deve lasciare un foglio che spiega perché ti hanno deportato e quanto tempo deve passare prima di poter ritornare in Europa. È importante informarci e organizzarci insieme per resistere!».
Per Sara Kelany (Fdi), «dire che i Cpr sono “campi di deportazione” e “prigioni per persone senza documenti” è una mistificazione che non serve a tutelare i diritti ma a sostenere e incentivare l’immigrazione irregolare con tutti i rischi che ne conseguono. Nei Cpr vengono trattenuti migranti irregolari socialmente pericolosi, che hanno all’attivo condanne per reati anche molto gravi. Potrà dispiacere a qualche esponente della sinistra o a qualche attivista delle Ong - ogni riferimento a Casarini non è casuale - ma in Italia si rispettano le nostre leggi e non consentiamo a nessuno di aggirarle». Per Francesco Rocca (Fdi), si tratta di «un’affissione abusiva dallo sgradevole odore eversivo».
Casarini, da convertito, diffonde il verbo. Che non è quello che si è incarnato, ma quello che tutela l’immigrato.
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