2025-01-09
Salma positiva al Covid sottratta ai familiari
Il pronto soccorso dell'ospedale Mauriziano Umberto I di Torino (Getty Images)
All’ospedale di Torino, le figlie hanno vegliato il padre (molto malato e, incidentalmente, col coronavirus) senza alcuna restrizione. Ma dopo la morte il corpo è finito nel sacco nero, come previsto dalle norme del 2020. Il nosocomio, diffidato, ha restituito le spoglie.Tra un mese Giuseppe Di Blasi avrebbe compiuto 76 anni. Viveva a Termini Imerese, in provincia di Palermo, le figlie lo volevano accanto, a Torino, per rimetterlo in forze dopo una brutta polmonite e perché potesse poi tornare a morire nella sua Sicilia, con tumori al fegato e al pancreas che non davano speranze. Invece si è aggravato, non riusciva più a respirare e solo per un tampone risultato positivo è finito in un sacco nero. Morto Covid, intoccabile.Accade ancora questo, a due anni dalla fine dell’emergenza pandemica decretata dall’Organizzazione mondiale della sanità. Familiari che non possono dare l’ultimo saluto al proprio caro perché giudicato infetto e quindi buono solo da cospargere di ipoclorito di sodio, cioè candeggina, e infilare nel «sacco barriera». L’odissea vissuta da Barbara Di Blasi e dalle sue sorelle all’ospedale Mauriziano Umberto I di Torino è ancora più incredibile perché hanno potuto vegliare il padre in area Covid, senza mascherine e restrizioni nelle visite, ma dopo la morte il signor Giuseppe è diventato una salma da far sparire in tutta fretta. La signora Barbara, 43 anni, racconta alla Verità questa assurda vicenda sbloccata solo grazie all’intervento del Comitato Fortitudo e dell’avvocato Francesco Cinquemani che hanno diffidato l’ospedale torinese. Quanti genitori e figli devono ancora sentirsi rispondere che un morto con Covid è da mettere nel sacco della spazzatura? «Mio padre era stato ricoverato al Mauriziano ai primi di dicembre e dopo tre settimane di accertamenti avevano concluso che non poteva essere operato perché non avrebbe retto l’anestesia, considerate le condizioni dei suoi polmoni», spiega Barbara. Giuseppe viene dimesso la vigilia di Natale, ha sempre bisogno dell’ossigeno ma a casa della figlia le condizioni sembrano stabili. Fino a quando non sopravviene una crisi respiratoria. «Il 2 gennaio l’ho portato al pronto soccorso del Mauriziano, non ventilava più, l’hanno attaccato alle macchine. Nel pomeriggio si era ripreso e al telefono mi ha detto che gli avevano fatto un tampone, era risultato positivo al Covid ed era in isolamento», spiega Barbara. Nei giorni successivi lo può andare a trovare, senza nessuna limitazione. «Non ho mai indossato la mascherina, non era obbligatoria. Il 5 gennaio mi avvertono che non sta rispondendo alle terapie, antibiotico e cortisone, e il 6 mattina mio padre ha un brutto attacco respiratorio. Ci precipitiamo, gli vogliamo stare accanto e nessuno ce lo impedisce. Una dottoressa spiega che i polmoni non reggono più e che l’idea è di somministrare piccole dosi di morfina così da arrivare a diminuire l’afflusso di ossigeno che tanto lo affaticava». Le procedure hanno inizio, sorelle e parenti rimangono nella stanza di Giuseppe «solo uno di noi indossava il camice, dicevano che non ce n’erano a sufficienza. Nostro padre non divideva la stanza con altri pazienti e accanto alla porta c’era una macchina per etichettare i dispositivi medici: il personale entrava e usciva in continuazione». Quindi era area Covid, ma non c’erano misure o protocolli da rispettare. Giuseppe inizia ad addormentarsi e muore alle prime ore del mattino del 7 gennaio. Accanto a lui ci sono le figlie che poi firmano i moduli per la procedura, compresa la vestizione della salma. L’8 gennaio, però, tutto cambia. Alla famiglia viene detto che il defunto «non si poteva vedere né toccare perché era un morto Covid ed era già stato messo in un sacco di plastica nero», ha la voce rotta Barbara. «Non credevo a quello che stavo sentendo, ho insistito per poterlo portare fuori con la dignità che spetta a una persona morta, ma mi è stato detto che quelle erano le regole». La signora chiama il Comitato Fortitudo, che sa molto impegnato in queste battaglie di civiltà e chiede aiuto. «Ho chiesto chiarimenti alla direzione sanitaria e la dirigente Domenica Morabito mi ha detto che avevano una procedura da seguire in caso di morte Covid», interviene la presidente del comitato, Maria Grazia Piccinelli. «È ingiustificato, non esiste più l’alibi dell’emergenza sanitaria e ho cominciato a tempestare di telefonate tutti i referenti in campo sanitario. Luigi Patacchia, dirigente della segreteria medica del ministro della Salute, Orazio Schillaci, ha detto che “probabilmente è una norma vecchia che dovremmo abrogare”». Di fatto, però, l’ospedale Mauriziano rimaneva sulle proprie posizioni e non voleva dare la salma ai familiari. «I parenti nemmeno sanno chi si dentro quel sacco nero. Basta vedere quanto denuncia La morte negata, il docufilm di Playmastermovie», tiene a sottolineare la Piccinelli. C’è voluto l’intervento dell’avvocato Francesco Cinquemani che, per conto di Fortitudo, ha mandato una diffida alla direzione sanitaria «a consegnare entro e non oltre il giorno 8 gennaio 2025 la salma del signor Giuseppe Di Blasi alla famiglia, al fine di potergli dare degna sepoltura, permettendone la vestizione prima dell’uscita dall’ospedale». La mancata riconsegna sarebbe stata considerata «una grave violazione dei diritti fondamentali dei familiari e sarà oggetto di una denuncia penale e personale».Tanto tuonò che piovve. La diffida ha convinto l’ospedale torinese a restituire la salma. «Oggi potremo togliere nostro padre dal sacco nero, procedere alla vestizione e dargli l’ultimo saluto. Quanti altri, invece, continuano a subire la violenza di norme ingiustificate?».