2020-05-08
«Rivolte usate per le scarcerazioni». Per i pm c’era un piano dietro il caos
Rebibbia, rivolta 9 marzo 2020 (Antonio Masiello:Getty Images)
Due fascicoli dei magistrati romani sugli scontri dentro e fuori Rebibbia del 9 marzo. E la pista dell'antimafia: parenti e anarchici mossi da dietro le sbarre per ottenere il liberi tutti. Il procuratore capo: «Vogliamo capire».Uno snodo importante nella strana storia delle ribellioni nei penitenziari avvenuti in tutta Italia lo scorso 9 marzo potrebbe nascondersi nel carcere di Rebibbia e nelle relazioni esterne di alcuni detenuti. «C'è un'indagine per accertare fino in fondo cosa sia successo con quelle rivolte», conferma alla Verità il capo della Procura di Roma Michele Prestipino. Ci sono già almeno due fascicoli già aperti: il primo è stato assegnato al pubblico ministero Francesco Cascini e, partendo dalle devastazioni e dai saccheggi in carcere, sta cercando di risalire alle responsabilità dei detenuti; il secondo è sulla scrivania del pm Francesco Dall'Olio, che procede per resistenza a pubblico ufficiale nei confronti dei protagonisti degli scontri all'esterno del carcere. E poi c'è un'altra ipotesi, che sarebbe di competenza dell'Antimafia: dietro alle manifestazioni violente del 9 marzo ci sarebbe stata una precisa regia. I capi romani della mala avrebbero sfruttato la situazione per ottenere vantaggi, poi effettivamente arrivati, con le scarcerazioni a raffica che hanno infiammato la polemica sul Dap e hanno investito il Guardasigilli Alfonso Bonafede. L'input investigativo è arrivato con le informative del Nucleo investigativo centrale, reparto speciale della polizia penitenziaria che si occupa di criminalità organizzata. L'aspetto sospetto è che i familiari dei detenuti si sono presentati davanti agli istituti di pena in tempo reale. Come se qualcuno li avesse avvisati. E allora si è cominciato a scavare tra le relazioni esterne dei 70 carcerati ribelli già identificati, che nei primi giorni dell'emergenza Covid hanno messo a ferro e fuoco il carcere di Rebibbia sull'onda di sollevazioni avvenute nelle prigioni di tutta Italia. Ufficialmente a scatenare la rabbia sarebbe stato lo stop ai colloqui con i familiari, ordinato per limitare il contagio. In più c'erano delle richieste avanzate dai detenuti sulle condizioni sanitarie causate dalla mancanza di sistemi di protezione a fronte del sovraffollamento. Ma appena sono stati dati alle fiamme i primi materassi, gruppi anarchici hanno cominciato a protestare in strada, scatenando tafferugli con le forze dell'ordine. Un diversivo, si pensa, messo in atto per tenere impegnate le forze di polizia mentre dentro si organizzava la rivolta. Secondo step: mentre i detenuti mettevano in crisi il sistema di sicurezza interno, aggredendo gli agenti della penitenziaria e distruggendo anche le telecamere, fuori si scatenavano contro gli agenti con la scusa delle restrizioni imposte su visiti e permessi premio. L'azione dimostrativa si è conclusa con l'occupazione di una intera ala del carcere.A guidare i ribelli, stando alle prime attività investigative, sarebbero stati anche due personaggi legati alla mala capitolina che hanno chiesto la scarcerazione per motivi di salute. Il primo è Leandro Bennato, 40 anni, indicato come vicino ai Fasciani, un gruppo che secondo una sentenza della Cassazione è la mafia autoctona: «Si può affermare che anche la città di Roma ha conosciuto l'esistenza di una presenza mafiosa», è scritto nella sentenza, «sebbene in modo diverso da altre città del Sud, ma non per questo meno pericolosa o inquinante del tessuto economico e sociale di riferimento». Un gruppo poco conosciuto all'esterno della capitale, ma che per metodi e strategie sembra non avere nulla da invidiare alle organizzazioni criminali più conosciute. Bennato, che ha una condanna per narcotraffico, è ritenuto vicino al nipote del boss Carmine Fasciani, Alessandro, e compare nell'inchiesta su Fabrizio Piscitelli, alias Diabolik, ex colonna del tifo della Lazio, ucciso, si ipotizza, per un regolamento di conti. Il secondo nome, invece, è quello di Daniele Mezzatesta, che sta scontando una condanna definitiva a 14 anni per possesso di tritolo, un kalashnikov, mitragliatori, un fucile a canne mozze, 71 chili di cocaina e 143 di hashish. Entrambi, dopo le rivolte, sono stati trasferiti nel carcere di Secondigliano. E c'è un altro dato: a Rebibbia qualche telefono cellulare ben occultato c'è sempre stato. I sindacati della polizia penitenziaria in più di un'occasione e in tempi non sospetti avevano lanciato l'allarme. E nell'ottobre 2019 in un frigorifero del Reparto detentivo G9 sono stati trovati e sequestrati dieci telefoni cellulari con sim card. E forse è anche per questo motivo che un magistrato di lunga esperienza, in prima linea nel contrasto alla 'ndrangheta, Nicola Gratteri, procuratore di Catanzaro, si era affrettato a dichiarare: «Se fossi il ministro della Giustizia la prima cosa che farei in questo momento è schermare le carceri ai segnali telefonici. Non è un caso che le rivolte scoppino contemporaneamente a migliaia di chilometri di distanza. Questo avviene perché gli istituti penitenziari sono pieni di telefoni cellulari. Com'è possibile altrimenti che alle 10 del mattino scoppi una rivolta a Foggia e nello stesso tempo a Modena?». Ovviamente nessuno durante la rivolta ha pensato a schermare Rebibbia. Ma ora è anche su quelle tracce telefoniche che si concentrerà l'inchiesta di Piazzale Clodio.
L'ex amministratore delegato di Mediobanca Alberto Nagel (Imagoeconomica)
Giorgia Meloni ad Ancona per la campagna di Acquaroli (Ansa)
«Nessuno in Italia è oggetto di un discorso di odio come la sottoscritta e difficilmente mi posso odiare da sola. L'ultimo è un consigliere comunale di Genova, credo del Pd, che ha detto alla capogruppo di Fdi «Vi abbiamo appeso a testa in giù già una volta». «Calmiamoci, riportiamo il dibattito dove deve stare». Lo ha detto la premier Giorgia Meloni nel comizio di chiusura della campagna elettorale di Francesco Acquaroli ad Ancona. «C'é un business dell'odio» ha affermato Giorgia Meloni. «Riportiamo il dibattito dove deve stare. Per alcuni è difficile, perché non sanno che dire». «Alcuni lo fanno per strategia politica perché sono senza argomenti, altri per tornaconto personale perché c'e' un business dell'odio. Le lezioni di morale da questi qua non me le faccio fare».
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