2025-10-13
«Finita l’ideologia dem, stiamo assistendo al ritorno degli Stati»
L’ex ministro Giulio Tremonti: «Trump ha trovato la tregua coinvolgendo i Paesi arabi. Altro che esportare la democrazia come fosse un panino...».Professor Giulio Tremonti, presidente della commissione Esteri della Camera, il percorso di pace a Gaza è ancora lungo. Ma intanto possiamo considerare questo primo accordo come un’evidente vittoria di Donald Trump?«È sicuramente un successo della sua presidenza. In politica interna per lui è ancora tutto da vedere, ma in politica estera ha superato i suoi precedessori». Cosa si aspetta? «Mi aspetto che la tregua in Medio Oriente si estenda anche nelle piazze italiane dopo mesi di proteste e scioperi. Una parte dei manifestanti è stata certamente in buona fede».E Landini?«Lo ricordo come un sindacalista che bene si occupava di lavoro».Donald Trump l’«impresentabile» riesce dove altri presidenti prima di lui hanno fallito. Come se lo spiega?«La strategia di coinvolgere nelle trattative i grandi Stati arabi è risultata vincente. Turchia, Arabia Saudita, Emirati, Egitto, sono i nuovi soggetti in campo. Anzi, si può dire che in questo frangente stiamo assistendo a un fenomeno interessante: il ritorno degli Stati. Aggiungo che la presenza di Giorgia Meloni in Egitto a rappresentare lo Stato italiano è assolutamente positiva».Cosa intende quando parla di «ritorno degli Stati»?«A partire dalle rivoluzioni arabe, mosse sulle onde di Google, si è fatta strada l’ideologia dei democratici americani, da Obama a Hillary Clinton. Questa ideologia, che considero negativa e distruttiva, comportava la riduzione della democrazia a “commodity”, in pratica un prodotto da esportare come un panino di McDonald’s». Con quali conseguenze?«È stato quello il periodo della “distruzione” degli Stati: Libia, Siria, Iraq. Se la presenza degli Stati può produrre guerra o pace, l’assenza degli Stati ha prodotto solo caos. Le posso citare un aneddoto?». Quale?«Nel ’99, durante una visita che organizzai a Londra, Silvio Berlusconi chiese a Margaret Thatcher come mai Bush padre non avesse spodestato Saddam, durante la prima guerra del Golfo. La premier britannica rispose: “George è un gentleman”. Intendeva dire, con linguaggio diplomatico, che gli Stati non si possono spazzare via. Meglio uno Stato canaglia che canaglie senza Stato, come è accaduto a lungo in Medio Oriente». L’accordo su Gaza può segnare una svolta?«L’accordo portato a casa da Trump, come dicevo, può significare il ritorno degli Stati nella politica internazionale. E quindi anche la tanto desiderata soluzione dei “due popoli due Stati” può diventare fattibile». Parliamo del caso Francia. Il presidente Macron ha incaricato nuovamente Sébastien Lecornu, dandogli carta bianca per formare un nuovo governo. Riuscirà l’Eliseo a scongiurare le elezioni anticipate?«In Francia non c’è solo una crisi di governo, ma di tutto un sistema. Per comprenderla, dobbiamo prima allargare lo sguardo a ciò che è accaduto negli ultimi anni in tutto l’Occidente, dove si è verificata una grande mortificazione della politica». «In atto lo svuotamento dei Parlamenti», scriveva lei nel lontano 1989, nel bicentenario della Rivoluzione francese. Ci aveva visto lungo?«Una volta il potere della politica si basava negli Stati, che controllavano i confini e così avevano il monopolio della forza, attraverso le leggi, le tasse e l’esercito. Ma già sul finire del Novecento si poteva intuire che la ricchezza stava uscendo dai confini statali, per entrare nella “repubblica internazionale del denaro”. E questa tendenza ha gradualmente eroso le basi tradizionali della politica». E oggi, a più di 30 anni di distanza, qual è lo scenario? «Oggi il processo è maturato, e difatti i problemi che più angosciano le persone arrivano da fuori: le migrazioni, la finanza, le incognite dell’intelligenza artificiale, con il suo impatto sul lavoro. Tutti questi elementi hanno compresso il potere della politica, e lo vediamo nel grande astensionismo elettorale in Occidente: i cittadini non credono più nell’utilità del voto». Insomma, politica nazionale e grande finanza globale sono destinate a confliggere?«Il cancelliere Bismark diceva: mai raccontate tante bugie come dopo le battute di caccia o durante le campagne elettorali. Per decenni i sistemi politici si sono retti sui debiti pubblici e sulla gestione dei confini, ma oggi le leggi della globalizzazione hanno rotto questo meccanismo. Non è tecnicamente possibile avere un mondo globale, con un tasso di democrazia invariato. La democrazia può e deve trovare altre forme di espressione». Come ha risposto la politica a questa sfida?«Un artificio che è stato sperimentato, ma che non ha funzionato, è quello della tecnocrazia al governo. Penso a figure come Macron, con il suo partito “En Marche”, un esperimento tecnocratico fuori dagli schemi, inventato per superare vecchi problemi che oggi si sono ripresentati. Ebbene, questa sperimentazione è fallita, un po’ come avvenuto in Italia con i nostri governi tecnici». E la Germania, ex locomotiva europea?«Uscita dalla guerra, la democrazia tedesca ha sperimentato nelle “grandi coalizioni” una sua forma di sviluppo. Ci si scontrava in campagna elettorale, e poi ci si incontrava subito dopo il voto, di solito in qualche remota località termale, per mettere in piedi la “Grosse Koalition”. La figura di Angela Merkel nasce da questa formula, che tuttavia oggi pare entrata in crisi, per giunta in un momento in cui la debolezza dei partiti politici si pone di fronte alla crisi industriale». Non è singolare che i due Paesi guida dell’Europa, Francia e Germania, oggi appaiano come i più instabili?«Paradossalmente, è l’Italia oggi a vantare una stabilità politica notevole e una struttura di finanza pubblica affidabile. Qualche giorno fa ho letto che il nostro spread era tornato al tasso di 15 anni fa, prima del “colpo di Stato” politico che “tecnicamente” generò la crisi del governo Berlusconi». Ursula von der Leyen rilancia il riarmo parlando di «guerra ibrida» in corso. «Già nel 2003 gli Stati Uniti ci dicevano che esistevano due oceani, e siccome loro dovevano impegnarsi sul Pacifico, sarebbe stato necessario un maggiore impegno sull’Atlantico. È per questo che nel programma italiano per il semestre europeo fu introdotta l’ipotesi degli eurobond per la difesa, apprezzati da socialisti e popolari, ma bloccati dalla Commissione Prodi. Curioso che oggi Romano Prodi sia favorevole a quella ipotesi: segno che le idee giuste, magari in salita, ma alla fine camminano. In ogni caso la critica più intelligente fu quella inglese del cancelliere Gordon Brown, che disse: siamo contrari perché questo sarebbe “nation building” dell’Europa». Insomma, un’Europa sia frastornata tra passato, presente e futuro? «La Commissione europea sta discutendo in contemporanea di armamenti, di automobili verdi, e di “giocattoli cavalcabili e veicoli a tre ruote per bambini”. Ma in una logica europea si fanno passi avanti: a Northwood, per esempio, c’è stato l’accordo anglo-francese sulla coordinamento delle armi nucleari. Un’ ipotesi molto europea e poco gollista». Il suo giudizio sulla leadership occidentale resta negativo?«Come è stato finora: “turisti della storia”. Nel settembre del 2021, durante il G20 presieduto da Draghi, hanno posato davanti alla fontana di Trevi, sotto lo slogan ancora globalista “people, planet, prosperity”. Nessuno si era accorto che mancava la rappresentanza russa e cinese. Quattro mesi dopo, è scoppiata la guerra». Si ricorda la foto storica del treno per Kiev con a bordo Draghi, Macron e Scholtz? Era giugno 2022. «Quel treno si è schiantato. Ha fatto la fine del convoglio del film Cassandra Crossing. Ma il treno europeo può e deve ripartire. Ha presente la foto del trattato di Roma del 1957? Tempi tragici avevano portato uomini forti. Uomini forti hanno portato tempi facili. Tempi facili hanno portato uomini deboli. Uomini deboli portano tempi tragici».