2021-12-28
«Rispetto per Biden», ma su Trump odio libero
Sulla stampa Usa fiumi di inchiostro e indignazione dopo la presa in giro del presidente durante uno show tv. Peccato che siano gli stessi media per i quali insultare, deridere e persino invocare la morte di The Donald fosse un esercizio di libertà di opinioneÈ uno scandalo! La grande stampa americana ha ostentato ferrea indignazione, dopo che Joe Biden è stato mandato a quel paese in diretta televisiva, durante un evento natalizio. I fatti sono noti. Venerdì, il presidente e sua moglie hanno ricevuto una telefonata davanti alle telecamere da un cittadino dell’Oregon che, dopo uno scambio di battute molto cordiale, ha chiuso la conversazione dicendo a Biden «Buon Natale e let’s go Brandon» (espressione in codice, questa, utilizzata per dire «Fuck Joe Biden»). Il presidente ha replicato dicendosi d’accordo e lasciando così intendere di non essersi probabilmente accorto di quanto accaduto. Come che sia, nel giro di poche ore i media americani sono scesi in campo in difesa dell’inquilino della Casa Bianca. Nbc News ha parlato di «ingiuria di destra», Abc News invece di «insulto volgare». Disappunto è stato poi espresso dal corrispondente di Cnn, Jeremy Diamond, mentre Ron Brownstein di The Atlantic ha tirato in ballo la categoria dell’ «insurrezione». Ma non è tutto. A novembre, l’analista di Cnn, Joe Lockhart, aveva assimilato lo slogan «Let’s go Brandon» alla retorica dei nazisti, del Ku Klux Klan e dell’Isis. Insomma, l’establishment mediatico americano è scandalizzato dal fatto che Biden sia stato mandato a quel paese in diretta. Peccato però che tutta questa indignazione non ci fosse quando a Donald Trump accadeva ben di peggio. Nell’aprile 2018, il Washington Post pubblicò un articolo molto positivo sulla comica Kathy Griffin, rammentando senza batter ciglio che l’anno prima costei si fosse fatta ritrarre con la testa mozzata dell’allora presidente americano in mano. Era invece l’ottobre dello stesso anno quando - in piena vicenda Russiagate - il New York Times pubblicò un racconto in cui Trump veniva ucciso da un assassino russo. Nel settembre 2019, Robert De Niro - intervenendo su Cnn - disse invece che Trump era un «pazzo» e un «gangster». Non solo: interpellato su chi lo aveva criticato in passato in merito alle sue posizioni sull’allora presidente, l’attore testualmente rispose: «Vadano affanculo». Un insulto simile, anche se direttamente rivolto a Trump, arrivò a ottobre 2020 dal rapper 50 Cent. «Fuck Donald Trump, non mi è mai piaciuto», scrisse su Twitter. E ricordate la ciclista che, a ottobre 2017, mostrò il dito medio contro il corteo presidenziale dello stesso Trump? Non si ricordano grandi indignazioni mediatiche per quel gesto. Anzi, il Guardian ironizzò, titolando: «Salute al presidente». Eppure c’è chi, non senza sprezzo del ridicolo, sostiene che i media sarebbero più cattivi con Biden che con Trump. A inizio dicembre, il giornalista Dana Milbank ha pubblicato sul Washington Post un articolo intitolato: «I media trattano Biden male tanto quanto o peggio di Trump. Ecco la prova». Il giornalista si lamentava in particolare del fatto che, in base a una «sentiment analysis», negli ultimi mesi Biden avrebbe ricevuto una copertura mediatica più negativa di quella di Trump nello stesso periodo del 2020. Ora, ammesso e non concesso che le cose stiano così, forse tale situazione è dovuta al fatto che, nonostante le roboanti promesse ai tempi della campagna elettorale, Biden non si sta dimostrando in grado di risolvere vari problemi: la crisi afgana, la crisi sanitaria, la crisi migratoria, la crisi energetica, l’inflazione galoppante. Dobbiamo continuare? E non è finita qui. Eh sì, perché la settimana scorsa il New York Times ha riferito che Kamala Harris riterrebbe di avere una copertura mediatica sfavorevole a causa del suo essere donna e di colore. Deve essersi probabilmente dimenticata degli articoli adoranti con cui, a gennaio, fu salutato il suo arrivo alla Casa Bianca. Giusto per ricordare qualche «sobrio» titolo di allora: «Kamala Harris va al lavoro ed entra nella storia» (Los Angeles Times, 20 gennaio), «Vicepresidente Harris: si apre un nuovo capitolo nella politica statunitense» (Associated Press, 21 gennaio), «Dentro i primi storici giorni di Kamala Harris» (Cnn, 24 gennaio). Insomma, non è che si respirasse tutta questa ostilità da parte delle grandi testate giornalistiche. Forse, come nel caso di Biden, la copertura mediatica è diventata più negativa quando la vicepresidente ha cominciato ad essere (finalmente) valutata sulla base dei fatti. E qui sono arrivate le dolenti note. Il suo compito principale, quello di risolvere la crisi migratoria a livello politico-diplomatico, è fallito miserevolmente; si è eclissata sui dossier più spinosi (dalla crisi afgana a quella di Gaza); il suo apporto ai negoziati parlamentari è irrilevante; l’influenza che ha esercitato alla conferenza di Parigi sulla Libia a novembre si è rivelata inconsistente. L’ideologia, prima o poi, è destinata ad arrendersi alla realtà. E se oggi la Harris non gode più di buona fama mediatica non è per il suo essere una donna di colore. Ma per la sua conclamata incapacità.
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