2022-08-07
«Rimpiango Beruscao e la comicità libera»
Il mattatore di Drive In contro il politicamente corretto: «Mi dipingevo il viso di nero e la mia partner di scena, costaricana, non si è mai offesa. Lavoravo in Galbusera perciò Teo Teocoli mi chiamava “Biscottino”, ho imparato l’ironia da Giovannino Guareschi grazie a papà».«Stamattina ci sto mettendo un po’ a carburare, sa, tra un impegno e l’altro, mi sto coricando tardi», dice Enrico Beruschi, classe 1941, il «ragioniere» della comicità, maschera milanesissima che dal tono di voce, abbinato alla mimica facciale nata per innescare una risata schietta, difficilmente si scorda. Gli anni di successo clamoroso del Drive In su Italia 1, in coppia con Margherita Fumero. L’incursione da cantante pop a Sanremo nel 1979. I film. Gli esordi al Derby, dopo aver abbandonato un impiego sicuro come vicedirettore commerciale alla Galbusera.Sta facendo vita da nottambulo.«Lo spettacolo alla sera, la cena di rito, le chiacchiere. Ma di giorno non poltrisco affatto. Faccio le prove, penso, scrivo. Non mi annoio».Era a Francavilla al mare per La Tosca.«Interpreto il sagrestano, ruolo perfetto, perché è calato nella dimensione narrativa dell’opera. Racconto, mi rivolgo al pubblico. Siamo nella piazza principale delle città toccate dal tour, il rapporto con la gente è diretto. Una delle prerogative più stimolanti del fare teatro».Ormai ci sguazza.«Da più di vent’anni. Ho fatto anche il regista. Ho lavorato al Barbiere di Siviglia, a La Traviata. Non scordando letture di Guareschi». A proposito di Guareschi. Lei ne è un grande estimatore.«Sono nato nel 1941. Mio padre ogni giorno comprava il Corriere, di cui conservava le copie fin dal 1898, e il Candido. Io ho imparato a leggere sul Candido. Già da piccolino mi aveva aiutato a capire che cosa significassero quei manifesti sul referendum tra monarchia e repubblica. Guareschi mi ha insegnato a guardare il mondo con occhio ironico e disincantato. I giovani, oggi, dovrebbero imparare a fare lo stesso leggendo da più fonti. Lo dico sempre alla mia nipotina quattordicenne e mi ascolta. Ringrazio mio padre per avermelo fatto scoprire».Che tipo era, suo padre?«Era un bel giovanotto negli anni Trenta. Avversava il fascismo, ma fece la tessera del partito per lavorare e mantenere la famiglia, allora funzionava così. Anche dopo, sul versante opposto. Quando ho iniziato a lavorare nel mondo dello spettacolo, ho scoperto che chi aveva simpatie per qualche particolare area politica, lavorava di più (ride, ndr)».Lei ha mai avuto una tessera politica in tasca?«Mai. E mi hanno tirato per la giacchetta in tanti». C’è spazio per Guareschi oggi?«Lui aveva visto molto avanti. Le polemiche di oggi, soprattutto quelle di costume, a tratti involontariamente ironiche, quasi surreali, le aveva già previste». Scrive sull’attuale edizione del Candido.«Non risparmio frecciatine, provo a mettere a frutto quello che ho imparato proprio da Guareschi».E dalla sua esperienza di comico.«Ho smesso di fare il ragioniere, pur di diventare un comico».I suoi genitori che ne pensavano?«Mia madre sulle prime pianse. Sa, io come studente me la cavavo. Conquistato il diploma da ragioniere, il sogno di mia mamma era di vedermi con un impiego stabile in banca. In pochi giorni, mi arrivarono 34 offerte di lavoro. Erano gli anni Sessanta. Il boom economico». E poi?«Lasciai la banca. Finii in una ditta tessile. Feci il militare. Lavorai alla Galbusera. Ma una sera andai al Derby. Cochi e Renato erano miei compagni di scuola».Iniziò a esibirsi lì?«Dicevano che fossi bravo a raccontare le barzellette. Provai. In platea c’era la borghesia milanese, pubblico sofisticato, ma a volte anche i banditi, che si comportavano con grande eleganza». E sua mamma?«Quando ero ormai popolare, venne a vedermi all’Odeon, nel 1979. Tra il pubblico, due signore dissero: “Bravo, quel Beruschi”. Mia mamma rispose orgogliosa: “Il mio bambino”». Ricordi di quel periodo?«Teo Teocoli mi chiamava biscottino, perché arrivavo dalla Galbusera con la mia ventiquattore, mi esibivo, poi tornavo a casa, perché dovevo dormire qualche ora. Lui e gli altri, invece, tiravano tardi fino all’alba».Quando ha capito che il successo era arrivato?«Con la Rai, lavorando a Non stop, nel 1977. Poi La sberla, Luna Park». Nel 1979 andò a Sanremo da concorrente.«Una follia concordata con la Baby Records, una piccola etichetta. Nessun comico ci aveva provato prima. Andò benissimo. Dopo di me, fu la volta di Francesco Salvi e di Giorgio Faletti».Negli anni Ottanta arrivò la tv commerciale.«Una sera sono al Teatro Nuovo di piazza San Babila per assistere allo show di Liza Minelli. Sento una voce alle mie spalle, mi chiama, mi saluta calorosamente. È Silvio Berlusconi. “Sto lanciando le mie televisioni, ti voglio con me”, dice. E mi arruola».Era l’epoca sfavillante di Drive In.«Con Antonio Ricci e Gian Carlo Nicotra iniziammo a buttar giù un’idea di programma, da sviluppare man mano che le idee prendevano corpo. Chiamammo subito Ezio Greggio, giovane brillantissimo. Carmen Russo, Margherita Fumero. Poi arrivò il bravo Gianfranco D’Angelo, la quota romana dello show». Interpretò tanti personaggi.«Ricordo Beruscao. Per farlo, mi dipingevo il viso di nero. Nessuno si è mai offeso per questo. Anzi». Oggi non sarebbe nemmeno pensabile.«Il politicamente corretto sta rovinando l’essenza stessa della comicità, che non deve avere freni inibitori o steccati ideologici preconfezionati. La cultura della cancellazione, le quote etniche, la corsa alla censura, sono cose che non riesco a comprendere».In molti ridevano ai suoi siparietti con Margherita Fumero.«C’era chi credeva fossimo davvero marito e moglie. Durante alcune occasioni mondane, ci facevano pure diverse battute. In realtà tra noi c’è sempre stata solo solida amicizia e stima professionale. Ci siamo conosciuti nel 1979, sul set de L’Angelo Azzurro».Vi aspettavate un successo così dirompente?«Non l’avevamo previsto. Ma quando Berlusconi visionò la puntata pilota di Drive In, organizzò una proiezione privata per i dipendenti Fininvest, dai dirigenti agli uscieri, per saggiare la risposta della gente, indipendentemente dalla professione e dal titolo di studio. Tutti ridevano, tutti si appassionavano. Stavamo creando qualcosa di forte».Poi Enrico Beruschi cercò altre strade.«Ero affamato di altre esperienze professionali. Col senno di poi, penso di aver sbagliato. Tornai a Fininvest quando Berlusconi a tutti i costi fece il mio nome per Sabato al Circo. Poi altre cose in Rai. Ma soprattutto tanto teatro». Le piace la tv di oggi?«Non molto, in verità, a parte Striscia. Una volta mi chiamarono in un talk show. Capii che la struttura portante del programma era innescare litigi e polemiche tra gli ospiti. Non è il mio genere di televisione».Ha mai avuto maestri?«Ho imparato dai grandi che ho visto in azione. Walter Chiari, Alberto Sordi, con cui ho lavorato ne Un borghese piccolo piccolo. Il grande Erminio Macario. Un giorno, quando andai a trovarlo in camerino a Torino, mi disse: “Non mollare, tu sei un comico vero”».