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2022-01-03
Viaggiare tra i rifugi significa ascoltare la natura e se stessi
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Nonostante gli italiani amino la compagnia più di altri popoli, infatti, a dominare lo scenario di questi ultimi due anni è il bisogno di appartarsi dalle grandi folle delle varie Vie del Corso nazionali.
Se il gruppo è sempre stata la conformazione ideale per la maggior parte degli italiani, oggi pranzare con una decina di persone appare sempre più come un atto sovversivo. Pare che la solitudine, già avversata dalla gran parte degli individui, sia ora uno spettro con il quale fare i conti quotidianamente.
Durante i primi mesi del 2020, molte persone - non senza stupore - hanno tratto benefici psicologici dall’isolamento forzato. Perché se l’amicizia è un bene prezioso e si basa su scelte reciproche, lo stare insieme forzato ha sempre presentato il conto: colleghi, conoscenze dalla fatua consistenza e parenti non amati sono usciti dai cerchi predeterminati con cui singoli e famiglie hanno costruito la loro vita sociale.
Ecco dunque l’altra faccia della medaglia dell’essere compagnoni: la prossimità all’italiana è un’arma a doppio taglio, tanto una qualità quanto un difetto. L’obbligo sociale, particolarmente sentito all’interno dei nostri confini, ha così ceduto il passo a lezioni online, pranzi in solitaria e allenamenti lontani dagli occhi dei compagni di sport.
Premesso che nessun rapporto umano autentico può essere sostituito da avatar o follower, questo rifugio negli schermi del pc ha rappresentato una salvezza per coloro che si sentivano pressati da contatti non voluti.
Rispetto a due anni fa cosa è cambiato? Poco. La libertà è aumentata solo in apparenza, considerato che ogni giorno dobbiamo fare i conti con la paura di contagiare ed essere contagiati nonostante vaccini e tamponi. Genitori e nonni appaiono in tutta la loro fragilità, mentre figli e nipoti hanno preso le sembianze di untori dai volti innocenti. Il confine tra cautela e diffidenza è labile come non mai e la solitudine viene scelta, ancora una volta, come il male minore.
Siamo passati da relazioni sociali imposte dall’esterno a una solitudine altrettanto imposta. La domanda, a questo punto, è: come recuperare la libertà di scelta, anche nell’organizzare un viaggio? L’ideale sarebbe quello di fare riferimento al proprio carattere e non alle paure: se ci riteniamo animi solitari o comunque dediti solo a rapporti veri, allora questo viaggio tutto italiano fa per noi. Se invece, sempre per indole, aneliamo feste, folle allegre e rumore, è bene che cerchiamo altrove.
Il viaggio di cui parliamo qui ha a che fare con il silenzio, il raccoglimento, la diversità. Ma anche con l’ascolto profondo, la natura e l’arte.
Esistono luoghi, in Italia, ancora poco battuti. Trovarli è questione di desiderio: bisogna amare i portoni chiusi, le opere nascoste, le zone buie. Tutti elementi che, a ben guardare, possono essere scoperti anche in metropoli come Napoli o Palermo: basta spostarsi dalle vie principali per un po’ di refrigerio. L’azione che questi luoghi compiono su di noi è magica: si offrono in tutta la loro bellezza solo ai nostri occhi e a quelli di chi è in cerca di dettagli. Le persone rumoreggiano in lontananza e noi ci sentiamo orgogliosi di aver vissuto un’esperienza apparentemente lontana, ma nei fatti situata dietro un angolo.
Poco conta il motivo per rifugiarsi, da soli o in compagnia di pochi: che sia per ritrovare se stessi, per avere pace o per pensare, è un viaggio che vale sempre la pena compiere, anche se per pochi giorni. Un viaggio che non ha stagioni, ma che inizia nel momento in cui si inizia a pensarlo.
Santuari, valli, città e borghi: sta a noi scegliere dove preferiamo “nasconderci”, non solo per stare con noi stessi, ma anche - auspicabilmente - per ritrovare la voglia di stare con gli altri.
Grazzano Visconti

Grazzano Visconti (iStock)
Grazzano Visconti è la deliziosa frazione di Vigolzone, in provincia di Piacenza. È famosa per il suo castello, costruito nel 1395 su concessione di Gian Galeazzo Visconti, Signore di Milano, che lo donò alla sorella Beatrice, sposa del nobile Giovanni Anguissola.
Nel 1870 il castello tornò nelle mani dei Visconti di Modrone, in particolare in quelle dell’eccentrico Duca Giuseppe, che lavorò sia al rifacimento del castello che al borgo, inseguendo il sogno di un luogo in perfetto stile medievale, sia nelle architetture che nel modo di vivere. In questo paese i mestieri dell’artigianato si sarebbero dovuti opporre all’industrializzazione delle città, cosa che si realizzò.
In effetti, a Grazzano Visconti sono disseminate decine di negozi di antiquariato e botteghe dove si lavora soprattutto il ferro battuto. È davvero come tornare indietro nel tempo, ai tempi delle Corporazioni, e le manifestazioni in costume che si svolgono durante l’anno rafforzano questa caratteristica di posto isolato dal resto del mondo.
Oggi camminare per Grazzano Visconti è un’esperienza che immerge sì nella storia, ma anche e soprattutto nella mente del suo inventore. Un luogo per ritrovare la pace, ma anche un passato ormai lontano ma che sia di ispirazione per un futuro non troppo meccanizzato. La natura lo circonda, rendendolo il luogo dove poter evadere dal chiasso dei grandi centri. All’interno del parco si trovano labirinti, viali e statue dalle suggestioni antiche.
Sul sito di Grazzano Visconti è possibile prenotare una visita guidata al castello e al parco (per quest’ultimo, però, le visite sono sospese fino a marzo).
Dormire a Grazzano Visconti e dintorni
- La Locanda di Grazzano, 4 Via Carla Erba: eleganza e accoglienza;
- Hotel Fiore & Fiocchi, Via Roma 84, Podenzano (PC): è anche un buon ristorante.
Mangiare a Grazzano Visconti e dintorni
- Osteria Caminetto, Via Carla Erba, Grazzano Visconti: da provare Pisarei e fasó e lo gnocco fritto;
- Ristorante Trattoria La 45, SP35, 5, Niviano (PC): tortelli con sugo di funghi porcini e torta fritta;
- Ristorante Pizzeria Le Specialità, Via Europa, 27, Vigolzone (PC): ottimi piatti di pesce.
Camaldoli

Camaldoli (iStock)
A Poppi, in provincia di Arezzo, sorge un eremo fondato nel 1000 circa: Camaldoli. Sede della Congregazione benedettina dei camaldolesi, deve l’aura di pace che emana anche al luogo in cui è situato: il parco nazionale delle Foreste Casentinesi, Monte Falterona e Campigna.
L’Eremo di Camaldoli rappresenta perfettamente quanto detto all’inizio: a pochi passi, infatti, sorge il monastero, dove invece si fa vita di comunità. Due luoghi separati, ma vicini, a simboleggiare le due dimensioni dell’uomo.
All’interno dell’eremo vi è una foresteria, dove gli ospiti - religiosi o laici poco importa - possono fermarsi a dormire. Durante le Festività, l’accoglienza si fa ancora più calda per i momenti di condivisione tra monaci e ospiti, anche se è possibile soggiornare qui tutto l’anno, tranne nel periodo di chiusura (solitamente tra gennaio e febbraio).
Si sceglie Camaldoli per provare l’esperienza del ritiro, ma anche per partecipare a esercizi spirituali, corsi e convegni. Il prossimo evento, per esempio, si terrà tra il 2 e l’8 gennaio: “L’inedito” è una serie di esercizi spirituali ecumenici riferiti sia alla Chiesa primitiva che a quella di oggi.
Per informazioni, è possibile chiamare i numeri + 39 0575 556021/556044 o scrivere a foresteria@camaldoli.it
Infine, per proseguire con questa esperienza di pace, si può organizzare un’escursione su uno dei tanti sentieri del parco nazionale. Sul sito tutte le informazioni.
Se invece si preferisce fare una visita in giornata, ecco alcuni indirizzi per dormire e mangiare da queste parti.
Dormire a Camaldoli e dintorni
- Borgo I Tre Baroni - Spa Suites & Resort, Via di Camaldoli, 52, Poppi (AR);
- Hotel Ristorante La Torricella, Loc. Torricella, Poppi (AR)
Entrambi immersi nella natura.
Mangiare a Camaldoli e dintorni
- Pucini, Via Pucini, 4, Camaldoli: ideale dopo un’escursione nelle Foreste Casentinesi;
- Ristorante Il Cedro, Località Moggiona, 20, Poppi: da provare il coniglio in porchetta, l’acquacotta di Moggiona e le pappardelle al ragù di lepre;
- Ristorante Mater, Via di Camaldoli, 52, Moggiona: piatti ricercati, come il risotto ai funghi con clorofilla di prezzemolo e latte di mandorla fermentata.
Urbino

Urbino (iStock)
Una città sicuramente conosciuta, eppure non così battuta dal turismo di massa, è Urbino (PU). Il capoluogo di provincia marchigiano è un vero e proprio colpo d’occhio e fa parte di quel magnifico gruppo di città e cittadine che appaiono a tutti come ferme nel tempo.
È il luogo perfetto in cui trascorrere qualche giornata all’insegna dell’arte, della cultura e anche della natura.
Non si può dire mai di conoscere Urbino se prima non si visita Palazzo Ducale, le cui mura e le cui torricelle spiccano sul resto della città. Nobile dimora del duca Federico da Montefeltro, merita di essere scoperto con l’aiuto di una guida, che in un paio d’ore può spiegare la maggior parte delle opere qui presenti.
Da un duca a un pittore: la casa di Raffaello è un altro sine qua non. Al suo interno, quadri e sculture dell’artista urbinate.
Ma la visita a Urbino non può proseguire senza passare dall’Oratorio di San Giuseppe (la cappella più piccola ospita un presepe a grandezza naturale) e da quello di San Giovanni Battista (affrescato da Lorenzo e Jacopo Salimbeni), dal Duomo, da Piazza del Mercatale con la sua rampa elicoidale, dalla Chiesa di San Bernardino, dalla Fortezza Albornoz e dal Parco della Resistenza.
È camminando nel dedalo di vie di questa città universitaria, però, che si ha particolare modo di apprezzarne l’anima dotta e pacata.
Dormire a Urbino
- Colleverde Country House SPA & Benessere Urbino, Via Bocca Trabaria Ovest 96: immersa nel verde, in ottima posizione;
- Lo Studio di Battista, 6 Via Volta della Morte: un posto accogliente e dall’arredamento particolare.
Mangiare a Urbino
- Osteria Gula, Corso Giuseppe Garibaldi, 29: consigliate la carne e la crescia;
- Taverna degli Artisti, Via Donato Bramante, 52: da assaggiare la pasta ai fagioli e i passatelli alle verdure;
- Tartufi Antiche Bontà, Via Raffaello, 35: ottimi l’antipasto di vellutata al tartufo e i salumi.
Sulmona

Sulmona (iStock)
Se si vuole staccare la spina, l’Abruzzo rimane sempre un’ottima idea. Ci si può isolare tra le sue montagne o, se si opta per scelte intermedie, in uno dei suoi borghi. Come Sulmona (AQ), famosa per i suoi confetti colorati e dai mille gusti.
Circondata dalla Majella, Sulmona vanta palazzi e chiese da tenere d’occhio, come la Cattedrale di San Panfilo, la Chiesa di Santa Maria della Tomba e il complesso della Santissima Annunziata (che ospita, tra le altre cose, i musei comunali). Ma l’attrazione principale rimane la statua di Ovidio (cui Sulmona diede i natali), in Piazza XX Settembre.
Notevoli anche Porta Napoli, la Fontana del Vecchio e l’Acquedotto Medievale, che si sviluppa intorno a Piazza Garibaldi, da cui si può godere di una vista privilegiata sulle montagne.
Il centro storico è raccolto e consta di due vie principali, Viale Roosevelt e Corso Ovidio, entrambe piene di botteghe che mettono in esposizione i classici mazzi di fiori composti con i confetti.
Nonostante i suoi oltre 20.000 abitanti e la ricchezza delle architetture religiose e civili, Sulmona rimane un paese non troppo turistico, dov’è facile sentirsi a casa. Inoltre è un’ottima base di partenza per le escursioni nella natura.
Infine, da Sulmona parte la Transiberiana d’Italia, storico treno che, ogni domenica mattina, raggiunge Isernia, in Molise. In una manciata di ore si attraversa così il Parco della Majella, con i suoi suggestivi paesaggi. È possibile prenotare direttamente sul sito.
Dormire a Sulmona
- Hotel Ovidius, Via Circ.Ne Occidentale, 177: 4 stelle in pieno centro;
- Hotel Armando’s, Via Montenero, 15: bellissima vista sui monti della Majella e del Morrone.
Mangiare a Sulmona
- Ristorante Buonvento, Piazza Plebiscito, 21/22: ottimi gli spaghettoni al Montepulciano, le pallotte cacio e ova e gli arrosticini tagliati a mano;
- L’Antica Corte Trattoria Contemporanea, Via Ercole Ciofano, 51: carne di qualità e dolci particolari;
- Ristorante Il Canestro, Via Leopoldo Dorrucci, 13: buoni piatti della tradizione.
Castel San Vincenzo

Castel San Vincenzo (iStock)
Il Molise è già, di per sé, un luogo in cui rifugiarsi lontano da tutto e da tutti. Castel San Vincenzo (IS) lo è in particolar modo.
Sembra strano che una regione e un borgo così belli siano sconosciuti ai più, ma è così. Caste San Vincenzo si trova nel bel mezzo del Parco nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise, ai piedi delle Mainarde, abitato da poche anime e affacciato sull’omonimo lago.
Si parte da una passeggiata nel borgo, tra scorci incredibili sul lago e antichi edifici, come le chiese di San Francesco, di Santa Maria Assunta e di Santa Chiara. Bellissima anche la Fontana Fraterna, che si trova in Piazza Papa Celestino V, che nacque proprio qui.
Dopodiché si prosegue con il fiore all’occhiello di Castel San Vincenzo, ossia l’Abbazia di San Vincenzo al Volturno (a circa 4 km dal borgo), sorta sui resti di un’abbazia longobarda. Oggi è possibile visitare ciò che rimane della chiesa nord (o Cripta di Epifanio), famosa per gli affreschi altomedievali che la decorano.
A pochi metri, la Basilica di San Vincenzo Maggiore, chiamata anche abbazia nuova, che venne ricostruita dopo la II Guerra Mondiale.
Quanto ai dintorni, il consiglio è di passeggiare nella zone delle sorgenti del Volturno e di fare un salto nel borgo fantasma di Rocchetta Alta, stando attenti a dove si mettono i piedi: gli edifici sono infatti pericolanti. L’impressione è quella di tornare indietro, in un tempo cristallizzato dalla storia. Si vedono ancora le panche di legno all’interno della chiesa quasi inagibile, un orologio e le tante case abitate da animali e piante. Neanche l’ombra di esseri umani.
Dormire a Castel San Vincenzo e dintorni
- Borgo Donna Teresa, Via San Nicola Snc., Castel San Vincenzo: offre due eleganti appartamenti;
- Locanda Belvedere Da Stefano, Loc. Pratola, Rocchetta a Volturno: immersa nella natura, è anche un buon ristorante.
Mangiare a Castel San Vincenzo e dintorni
- Terra Nostra, Via Fontelavilla, 1, Scapoli (IS): da provare la pasta fatta in casa, come i ravioli alla scapolese;
- Ristorante Da Oreste e Maria, Via Nazionale, 13, km 28,400 Colli a Volturno (IS): caciocavallo molisano e ravioli con tartufo di ricotta di capra i must;
- La Zampogna, Località Case Sparse Vicenne, Scapoli: tartufo, pasta fresca e cinghiale i piatti forti.
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Santuari, valli, città: sta a noi scegliere dove preferiamo «nasconderci», non solo per stare con noi stessi, ma anche per ritrovare la voglia di stare con gli altri. Luoghi in cui rifugiarsi lontano dalle folle e dalle metropoli: borghi poco conosciuti, paesi al di fuori delle rotte turistiche, posti immersi nella natura.Lo speciale contiene un articolo e un itinerario di cinque tappe.Nonostante gli italiani amino la compagnia più di altri popoli, infatti, a dominare lo scenario di questi ultimi due anni è il bisogno di appartarsi dalle grandi folle delle varie Vie del Corso nazionali. Se il gruppo è sempre stata la conformazione ideale per la maggior parte degli italiani, oggi pranzare con una decina di persone appare sempre più come un atto sovversivo. Pare che la solitudine, già avversata dalla gran parte degli individui, sia ora uno spettro con il quale fare i conti quotidianamente.Durante i primi mesi del 2020, molte persone - non senza stupore - hanno tratto benefici psicologici dall’isolamento forzato. Perché se l’amicizia è un bene prezioso e si basa su scelte reciproche, lo stare insieme forzato ha sempre presentato il conto: colleghi, conoscenze dalla fatua consistenza e parenti non amati sono usciti dai cerchi predeterminati con cui singoli e famiglie hanno costruito la loro vita sociale.Ecco dunque l’altra faccia della medaglia dell’essere compagnoni: la prossimità all’italiana è un’arma a doppio taglio, tanto una qualità quanto un difetto. L’obbligo sociale, particolarmente sentito all’interno dei nostri confini, ha così ceduto il passo a lezioni online, pranzi in solitaria e allenamenti lontani dagli occhi dei compagni di sport.Premesso che nessun rapporto umano autentico può essere sostituito da avatar o follower, questo rifugio negli schermi del pc ha rappresentato una salvezza per coloro che si sentivano pressati da contatti non voluti.Rispetto a due anni fa cosa è cambiato? Poco. La libertà è aumentata solo in apparenza, considerato che ogni giorno dobbiamo fare i conti con la paura di contagiare ed essere contagiati nonostante vaccini e tamponi. Genitori e nonni appaiono in tutta la loro fragilità, mentre figli e nipoti hanno preso le sembianze di untori dai volti innocenti. Il confine tra cautela e diffidenza è labile come non mai e la solitudine viene scelta, ancora una volta, come il male minore.Siamo passati da relazioni sociali imposte dall’esterno a una solitudine altrettanto imposta. La domanda, a questo punto, è: come recuperare la libertà di scelta, anche nell’organizzare un viaggio? L’ideale sarebbe quello di fare riferimento al proprio carattere e non alle paure: se ci riteniamo animi solitari o comunque dediti solo a rapporti veri, allora questo viaggio tutto italiano fa per noi. Se invece, sempre per indole, aneliamo feste, folle allegre e rumore, è bene che cerchiamo altrove.Il viaggio di cui parliamo qui ha a che fare con il silenzio, il raccoglimento, la diversità. Ma anche con l’ascolto profondo, la natura e l’arte. Esistono luoghi, in Italia, ancora poco battuti. Trovarli è questione di desiderio: bisogna amare i portoni chiusi, le opere nascoste, le zone buie. Tutti elementi che, a ben guardare, possono essere scoperti anche in metropoli come Napoli o Palermo: basta spostarsi dalle vie principali per un po’ di refrigerio. L’azione che questi luoghi compiono su di noi è magica: si offrono in tutta la loro bellezza solo ai nostri occhi e a quelli di chi è in cerca di dettagli. Le persone rumoreggiano in lontananza e noi ci sentiamo orgogliosi di aver vissuto un’esperienza apparentemente lontana, ma nei fatti situata dietro un angolo.Poco conta il motivo per rifugiarsi, da soli o in compagnia di pochi: che sia per ritrovare se stessi, per avere pace o per pensare, è un viaggio che vale sempre la pena compiere, anche se per pochi giorni. Un viaggio che non ha stagioni, ma che inizia nel momento in cui si inizia a pensarlo.Santuari, valli, città e borghi: sta a noi scegliere dove preferiamo “nasconderci”, non solo per stare con noi stessi, ma anche - auspicabilmente - per ritrovare la voglia di stare con gli altri.<div class="rebellt-item col2" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/rifugi-2656170791.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="grazzano-visconti" data-post-id="2656170791" data-published-at="1640706692" data-use-pagination="False"> Grazzano Visconti Grazzano Visconti (iStock) Grazzano Visconti è la deliziosa frazione di Vigolzone, in provincia di Piacenza. È famosa per il suo castello, costruito nel 1395 su concessione di Gian Galeazzo Visconti, Signore di Milano, che lo donò alla sorella Beatrice, sposa del nobile Giovanni Anguissola.Nel 1870 il castello tornò nelle mani dei Visconti di Modrone, in particolare in quelle dell’eccentrico Duca Giuseppe, che lavorò sia al rifacimento del castello che al borgo, inseguendo il sogno di un luogo in perfetto stile medievale, sia nelle architetture che nel modo di vivere. In questo paese i mestieri dell’artigianato si sarebbero dovuti opporre all’industrializzazione delle città, cosa che si realizzò.In effetti, a Grazzano Visconti sono disseminate decine di negozi di antiquariato e botteghe dove si lavora soprattutto il ferro battuto. È davvero come tornare indietro nel tempo, ai tempi delle Corporazioni, e le manifestazioni in costume che si svolgono durante l’anno rafforzano questa caratteristica di posto isolato dal resto del mondo.Oggi camminare per Grazzano Visconti è un’esperienza che immerge sì nella storia, ma anche e soprattutto nella mente del suo inventore. Un luogo per ritrovare la pace, ma anche un passato ormai lontano ma che sia di ispirazione per un futuro non troppo meccanizzato. La natura lo circonda, rendendolo il luogo dove poter evadere dal chiasso dei grandi centri. All’interno del parco si trovano labirinti, viali e statue dalle suggestioni antiche.Sul sito di Grazzano Visconti è possibile prenotare una visita guidata al castello e al parco (per quest’ultimo, però, le visite sono sospese fino a marzo).Dormire a Grazzano Visconti e dintorniLa Locanda di Grazzano, 4 Via Carla Erba: eleganza e accoglienza;Hotel Fiore & Fiocchi, Via Roma 84, Podenzano (PC): è anche un buon ristorante.Mangiare a Grazzano Visconti e dintorniOsteria Caminetto, Via Carla Erba, Grazzano Visconti: da provare Pisarei e fasó e lo gnocco fritto;Ristorante Trattoria La 45, SP35, 5, Niviano (PC): tortelli con sugo di funghi porcini e torta fritta;Ristorante Pizzeria Le Specialità, Via Europa, 27, Vigolzone (PC): ottimi piatti di pesce. <div class="rebellt-item col2" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/rifugi-2656170791.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="camaldoli" data-post-id="2656170791" data-published-at="1640706692" data-use-pagination="False"> Camaldoli Camaldoli (iStock) A Poppi, in provincia di Arezzo, sorge un eremo fondato nel 1000 circa: Camaldoli. Sede della Congregazione benedettina dei camaldolesi, deve l’aura di pace che emana anche al luogo in cui è situato: il parco nazionale delle Foreste Casentinesi, Monte Falterona e Campigna.L’Eremo di Camaldoli rappresenta perfettamente quanto detto all’inizio: a pochi passi, infatti, sorge il monastero, dove invece si fa vita di comunità. Due luoghi separati, ma vicini, a simboleggiare le due dimensioni dell’uomo.All’interno dell’eremo vi è una foresteria, dove gli ospiti - religiosi o laici poco importa - possono fermarsi a dormire. Durante le Festività, l’accoglienza si fa ancora più calda per i momenti di condivisione tra monaci e ospiti, anche se è possibile soggiornare qui tutto l’anno, tranne nel periodo di chiusura (solitamente tra gennaio e febbraio).Si sceglie Camaldoli per provare l’esperienza del ritiro, ma anche per partecipare a esercizi spirituali, corsi e convegni. Il prossimo evento, per esempio, si terrà tra il 2 e l’8 gennaio: “L’inedito” è una serie di esercizi spirituali ecumenici riferiti sia alla Chiesa primitiva che a quella di oggi.Per informazioni, è possibile chiamare i numeri + 39 0575 556021/556044 o scrivere a foresteria@camaldoli.itInfine, per proseguire con questa esperienza di pace, si può organizzare un’escursione su uno dei tanti sentieri del parco nazionale. Sul sito tutte le informazioni.Se invece si preferisce fare una visita in giornata, ecco alcuni indirizzi per dormire e mangiare da queste parti.Dormire a Camaldoli e dintorniBorgo I Tre Baroni - Spa Suites & Resort, Via di Camaldoli, 52, Poppi (AR);Hotel Ristorante La Torricella, Loc. Torricella, Poppi (AR)Entrambi immersi nella natura.Mangiare a Camaldoli e dintorniPucini, Via Pucini, 4, Camaldoli: ideale dopo un’escursione nelle Foreste Casentinesi;Ristorante Il Cedro, Località Moggiona, 20, Poppi: da provare il coniglio in porchetta, l’acquacotta di Moggiona e le pappardelle al ragù di lepre;Ristorante Mater, Via di Camaldoli, 52, Moggiona: piatti ricercati, come il risotto ai funghi con clorofilla di prezzemolo e latte di mandorla fermentata. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem3" data-id="3" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/rifugi-2656170791.html?rebelltitem=3#rebelltitem3" data-basename="urbino" data-post-id="2656170791" data-published-at="1640706692" data-use-pagination="False"> Urbino Urbino (iStock) Una città sicuramente conosciuta, eppure non così battuta dal turismo di massa, è Urbino (PU). Il capoluogo di provincia marchigiano è un vero e proprio colpo d’occhio e fa parte di quel magnifico gruppo di città e cittadine che appaiono a tutti come ferme nel tempo.È il luogo perfetto in cui trascorrere qualche giornata all’insegna dell’arte, della cultura e anche della natura.Non si può dire mai di conoscere Urbino se prima non si visita Palazzo Ducale, le cui mura e le cui torricelle spiccano sul resto della città. Nobile dimora del duca Federico da Montefeltro, merita di essere scoperto con l’aiuto di una guida, che in un paio d’ore può spiegare la maggior parte delle opere qui presenti.Da un duca a un pittore: la casa di Raffaello è un altro sine qua non. Al suo interno, quadri e sculture dell’artista urbinate.Ma la visita a Urbino non può proseguire senza passare dall’Oratorio di San Giuseppe (la cappella più piccola ospita un presepe a grandezza naturale) e da quello di San Giovanni Battista (affrescato da Lorenzo e Jacopo Salimbeni), dal Duomo, da Piazza del Mercatale con la sua rampa elicoidale, dalla Chiesa di San Bernardino, dalla Fortezza Albornoz e dal Parco della Resistenza.È camminando nel dedalo di vie di questa città universitaria, però, che si ha particolare modo di apprezzarne l’anima dotta e pacata.Dormire a UrbinoColleverde Country House SPA & Benessere Urbino, Via Bocca Trabaria Ovest 96: immersa nel verde, in ottima posizione;Lo Studio di Battista, 6 Via Volta della Morte: un posto accogliente e dall’arredamento particolare.Mangiare a UrbinoOsteria Gula, Corso Giuseppe Garibaldi, 29: consigliate la carne e la crescia;Taverna degli Artisti, Via Donato Bramante, 52: da assaggiare la pasta ai fagioli e i passatelli alle verdure;Tartufi Antiche Bontà, Via Raffaello, 35: ottimi l’antipasto di vellutata al tartufo e i salumi. <div class="rebellt-item col2" id="rebelltitem4" data-id="4" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/rifugi-2656170791.html?rebelltitem=4#rebelltitem4" data-basename="sulmona" data-post-id="2656170791" data-published-at="1640706692" data-use-pagination="False"> Sulmona Sulmona (iStock) Se si vuole staccare la spina, l’Abruzzo rimane sempre un’ottima idea. Ci si può isolare tra le sue montagne o, se si opta per scelte intermedie, in uno dei suoi borghi. Come Sulmona (AQ), famosa per i suoi confetti colorati e dai mille gusti.Circondata dalla Majella, Sulmona vanta palazzi e chiese da tenere d’occhio, come la Cattedrale di San Panfilo, la Chiesa di Santa Maria della Tomba e il complesso della Santissima Annunziata (che ospita, tra le altre cose, i musei comunali). Ma l’attrazione principale rimane la statua di Ovidio (cui Sulmona diede i natali), in Piazza XX Settembre. Notevoli anche Porta Napoli, la Fontana del Vecchio e l’Acquedotto Medievale, che si sviluppa intorno a Piazza Garibaldi, da cui si può godere di una vista privilegiata sulle montagne.Il centro storico è raccolto e consta di due vie principali, Viale Roosevelt e Corso Ovidio, entrambe piene di botteghe che mettono in esposizione i classici mazzi di fiori composti con i confetti.Nonostante i suoi oltre 20.000 abitanti e la ricchezza delle architetture religiose e civili, Sulmona rimane un paese non troppo turistico, dov’è facile sentirsi a casa. Inoltre è un’ottima base di partenza per le escursioni nella natura. Infine, da Sulmona parte la Transiberiana d’Italia, storico treno che, ogni domenica mattina, raggiunge Isernia, in Molise. In una manciata di ore si attraversa così il Parco della Majella, con i suoi suggestivi paesaggi. È possibile prenotare direttamente sul sito.Dormire a SulmonaHotel Ovidius, Via Circ.Ne Occidentale, 177: 4 stelle in pieno centro;Hotel Armando’s, Via Montenero, 15: bellissima vista sui monti della Majella e del Morrone.Mangiare a SulmonaRistorante Buonvento, Piazza Plebiscito, 21/22: ottimi gli spaghettoni al Montepulciano, le pallotte cacio e ova e gli arrosticini tagliati a mano;L’Antica Corte Trattoria Contemporanea, Via Ercole Ciofano, 51: carne di qualità e dolci particolari;Ristorante Il Canestro, Via Leopoldo Dorrucci, 13: buoni piatti della tradizione. <div class="rebellt-item col2" id="rebelltitem5" data-id="5" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/rifugi-2656170791.html?rebelltitem=5#rebelltitem5" data-basename="castel-san-vincenzo" data-post-id="2656170791" data-published-at="1640706692" data-use-pagination="False"> Castel San Vincenzo Castel San Vincenzo (iStock) Il Molise è già, di per sé, un luogo in cui rifugiarsi lontano da tutto e da tutti. Castel San Vincenzo (IS) lo è in particolar modo.Sembra strano che una regione e un borgo così belli siano sconosciuti ai più, ma è così. Caste San Vincenzo si trova nel bel mezzo del Parco nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise, ai piedi delle Mainarde, abitato da poche anime e affacciato sull’omonimo lago.Si parte da una passeggiata nel borgo, tra scorci incredibili sul lago e antichi edifici, come le chiese di San Francesco, di Santa Maria Assunta e di Santa Chiara. Bellissima anche la Fontana Fraterna, che si trova in Piazza Papa Celestino V, che nacque proprio qui.Dopodiché si prosegue con il fiore all’occhiello di Castel San Vincenzo, ossia l’Abbazia di San Vincenzo al Volturno (a circa 4 km dal borgo), sorta sui resti di un’abbazia longobarda. Oggi è possibile visitare ciò che rimane della chiesa nord (o Cripta di Epifanio), famosa per gli affreschi altomedievali che la decorano.A pochi metri, la Basilica di San Vincenzo Maggiore, chiamata anche abbazia nuova, che venne ricostruita dopo la II Guerra Mondiale.Quanto ai dintorni, il consiglio è di passeggiare nella zone delle sorgenti del Volturno e di fare un salto nel borgo fantasma di Rocchetta Alta, stando attenti a dove si mettono i piedi: gli edifici sono infatti pericolanti. L’impressione è quella di tornare indietro, in un tempo cristallizzato dalla storia. Si vedono ancora le panche di legno all’interno della chiesa quasi inagibile, un orologio e le tante case abitate da animali e piante. Neanche l’ombra di esseri umani.Dormire a Castel San Vincenzo e dintorniBorgo Donna Teresa, Via San Nicola Snc., Castel San Vincenzo: offre due eleganti appartamenti;Locanda Belvedere Da Stefano, Loc. Pratola, Rocchetta a Volturno: immersa nella natura, è anche un buon ristorante.Mangiare a Castel San Vincenzo e dintorniTerra Nostra, Via Fontelavilla, 1, Scapoli (IS): da provare la pasta fatta in casa, come i ravioli alla scapolese;Ristorante Da Oreste e Maria, Via Nazionale, 13, km 28,400 Colli a Volturno (IS): caciocavallo molisano e ravioli con tartufo di ricotta di capra i must;La Zampogna, Località Case Sparse Vicenne, Scapoli: tartufo, pasta fresca e cinghiale i piatti forti.
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Femminismo è il vezzoso nome dato alla misandria occidentale, e la misandria è stato il mezzo per distruggere nel giro di due generazioni l’invincibile società occidentale giudaico-cristiana: le donne sempre vittime, i maschi sempre carnefici e soprattutto nemici. La «vera donna» si sente sorella di sconosciute, incluse cantanti mediocri che guadagnano cifre astronomiche mostrando la biancheria intima o la sua assenza, ma non deve avere linee di collaborazione o anche solo umana simpatia con il marito o il compagno. Il femminismo occidentale non è difesa delle donne, è misandria, odio per gli uomini. Il femminismo misandrico è un movimento creato a tavolino, con lo scopo di distruggere la famiglia, che è un’unità affettivo/economica con una sua intrinseca potenza: rende le persone non isolate, e quindi meno malleabili, tali da avere la forza di opporsi al potere dello Stato o del parastato. Il secondo scopo è abbattere i salari buttando sul mercato milioni di lavoratrici. Il terzo scopo è annientare le aree di lavoro non tassabile. Le donne a casa loro fanno lavori non tassabili: cucire, cucinare, costruire giocattoli, creare tende e vestiario, fare conserve, allevare bambini. Ora il loro lavoro è sostituito da supermercati, orrendi cibi precotti, con tutti i danni dei cibi processati, vestiario «made in China» fatto da schiavi sottopagati e soprattutto educatrici e insegnanti.
A ogni interazione madre-figlio, il cervello del bambino piccolo crea miliardi di sinapsi. Ogni interazione con l’estranea cui è affidato mentre mamma si sta facendo sfruttare da qualcuno in un posto di lavoro - e deve farlo perché il salario di papà è troppo basso - fabbrica molte meno sinapsi. Per i bambini, essere affidati a estranei al di sotto dei tre anni è un danno neurobiologico. Chi nega questa affermazione sta mentendo. Il bambino impara la regolazione delle emozioni sulla madre, ma per poter completare questo processo la madre deve essere presente. Con l’estranea cui è stato affidato, il processo non può realizzarsi. Inoltre, per quell’estranea il bambino è lavoro. Ci sono persone che amano il loro lavoro, altre che lo detestano: nel caso delle educatrici, quello che è detestato è il bambino. Ogni tanto bisogna mettere le videocamere per scoprire bambini picchiati o umiliati. La madre lavoratrice deve occuparsi del lavoro e quando alla sera torna a casa stanca e nervosa deve occuparsi del bambino, che alla sera, dopo ore e ore con estranee, è stanco e nervoso. Il peso è micidiale.
Le donne non mettono più al mondo figli. Il femminismo misandrico è stato creato per abbattere la natalità. Quando il bambino è malato, la mamma non può stare con lui. La presenza della madre fabbrica endorfine che potenziano il sistema immunitario. La sua assenza fabbrica cortisolo, ormone da stress che abbatte il sistema immunitario. Per poter essere affidato alle estranee del nido, il bambino deve essere sottoposto a un esavalente che in molte altre nazioni è vietato. Il 70% delle morti improvvise in culla avviene nella settimana successiva all’iniezione dell’esavalente. Perché le madri possano serenamente lavorare è stato creato il latte in polvere, pessimo prodotto che sostituisce il cibo perfetto dal punto di vista nutrizionale e immunologico che è il latte materno. È statisticamente dimostrata la differenza cognitiva e la migliore salute dei bambini allattati al seno. Dopo i tre anni un bambino potrebbe restarsene benissimo a casa sua; se proprio lo si vuole mandare all’asilo, sarebbe meglio non superare le due ore al giorno. Quando ha sei anni, il bambino dovrebbe andare in una scuola quattro ore, dalle 8.30 alle 12.30. Se la classe è fatta da bambini in maggioranza sereni e tutti della stessa madrelingua, come negli anni Cinquanta, quattro ore sono sufficienti.
Il bambino, messo sotto stress dalla mancanza cronica della madre, consegnato allo Stato per un numero spaventoso di ore, diventa un perfetto recipiente per la propaganda.
Le femministe hanno conquistato il diritto al lavoro. Il lavoro è una maledizione biblica. Anche l’aborto è una maledizione biblica e pure di quello hanno conquistato il diritto. Nella Cappella Sistina, Michelangelo ha rappresentato il momento in cui il serpente corrompe Eva con la mela: il serpente ha un volto di donna. Un’ intuizione geniale. Le donne hanno meno testosterone: questo le rende più accoglienti, permette la maternità, ma le rende meno capaci di battersi. Noi siamo meno capaci di combattere, cediamo più facilmente alla propaganda. Il vittimismo isterico del femminismo misandrico è stata la tentazione con cui le donne hanno annientato la invincibile civiltà giudaico-cristiana. Abbiamo ancora una generazione, forse una e mezza. Creperemo di denatalità e scemenze: tra due generazioni al massimo saremo una repubblica islamica. Il potere è stato tolto al pater familias, che era sporco brutto e cattivo, ma era comunque uno cui di quella donna e quei bambini importava, ed è stato consegnato allo Stato, una macchina burocratica cieca e stolida. Lo Stato decide quanti vaccini un bambino deve fare, mentre gli Ordini dei medici applicano la legge Lorenzin radiando tutti coloro che si permettono di parlare della criticità di questi farmaci. Lo Stato decide cosa un bambino deve mangiare: le orrende mense scolastiche dove si mangia pessimo cibo statale sono obbligatorie. Digitate su Google le parole mensa scolastica e tossinfezioni alimentari e troverete dati interessanti. I dati che mancano sono i danni su danni sul lungo periodo degli oli di bassa qualità, della conserva di pomodoro comprata dove costava meno (spesso sono pomodori coltivati in Cina con fertilizzanti pessimi). Lo Stato decide come il bambino deve vivere e se la famiglia si permette di farlo vivere felice in un bosco, lo Stato interviene. Lo Stato decide cosa il bambino deve pensare, perché l’etica gliela insegnano i docenti, quasi sempre femmine, che sono impiegati statali che eseguono gli ordini, le circolari, fanno corsi di aggiornamento Lgbt e hanno criminalizzato i ragazzi non vaccinati per il Covid.
Grazie al femminismo misandrico, in Italia, la disparità tra padre e madre è clamorosa: i padri sono esseri inferiori. La donna ha potere di vita e morte sul concepito, un potere osceno e criminale. Si considera criminale un padre che ha picchiato suo figlio, ma non si considera criminale una donna che ha fatto macellare il suo bambino nel suo ventre. Il potere che ha creato il femminismo misandrico vuole gli aborti, li adora. Se hai abbandonato il cane sei un bastando, se hai fatto uccidere tuo figlio nel tuo ventre sei un’eroina della libertà. Per far uccidere il bambino nel suo ventre, la donna ha bisogno di un medico, che diventa quindi un medico che sopprime vite umane. Il feto è vivo ed è umano. Chi lo sopprime, sta sopprimendo vite umane. Se la donna vuole abortire, il padre non può opporsi. La donna può abortire, ma il padre non può rifiutarsi di pagare gli alimenti, deve assumersi la responsabilità economica fino alla maggiore età (e spesso oltre), eredità garantita al figlio, un terzo del patrimonio che deve essere accantonato. La donna può rendere suo figlio orfano di padre: può partorirlo, disconoscerlo e impedire che il padre lo riconosca. Il padre, per riconoscere il figlio, deve arruolare uno o più avvocati, pagarli e imbarcarsi in una guerra giudiziaria lunga e dall’esito incerto. Mentre le donne sono normalmente aggredite da immigrati islamici, l’invasione che sostituisce il deficit demografico dei bambini abortiti, al punto che non si possono più fare manifestazioni in piazza come quelle di Capodanno, quando l’uomo è bianco e occidentale, la parola della donna in tribunale vale più di quella dell’uomo.
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Roberto Speranza (Ansa)
Sull’edizione del 7 marzo del 2023, Francesco Borgonovo riportava un eloquente scambio di messaggi tra l’allora presidente dell’Iss, Silvio Brusaferro, e il ministro Roberto Speranza, che si esprimeva così: «Dobbiamo chiudere le scuole. Ne sono sempre più convinto». Ma il giorno seguente Brusaferro notava: «Per chiusura scuola Cts critico». E il ministro incalzava: «Così ci mandate a sbattere». Dopo una serie di ulteriori scambi, Brusaferro cedeva: «Va bene. Domani bisognerà pensare a illustrare come il parere riporti principi ed elementi di letteratura e modellistica lasciando al Consiglio dei ministri le scelte». Tradotto: prima si prendeva la decisione, poi si trovava l’appiglio «scientifico».
L’audizione di Miozzo appare indubitabilmente sincera. L’esperto sottolinea il contesto emergenziale in cui agivano i commissari, mettendo in guardia dai «Soloni del senno di poi». Parla del Cts come punto di riferimento «mitologico», «di fatto chiamato a rispondere a qualsiasi tipo di richiesta e necessità» che «di sanitario avevano ben poco: la distanza tra i tavoli nei ristoranti, il numero di passeggeri all’interno di un autobus, la distanza tra i banchi di scuola». «Che ci azzeccavo io, medico esperto di emergenze internazionali, con la distanza degli ombrelloni al mare?», osserva. «Eppure dovevamo dare un’indicazione, che alla fine, in un modo o nell’altro, veniva fuori con l’intelligenza, con il buonsenso, con la lettura che di volta in volta si faceva del contesto nazionale e internazionale». Dato il vuoto decisionale, in buona sostanza, il Cts si è dovuto far carico di una serie di questioni lontane dalla sua competenza. E sbaglia, spiega Miozzo, chi ci ha visto un «generatore di norme, di leggi, di indirizzi e di potere decisionale, cosa che assolutamente non ha mai avuto»: «Quello che il Comitato elaborava come indicazioni tecnico-scientifiche era offerto al governo, che lo doveva tradurre in atti normativi». L’equivoco si verificò solo perché alcuni passaggi venivano copiati tali e quali nelle leggi.
Miozzo ribadisce a più riprese che il Cts forniva solo pareri sulla base di assunti scientifici necessariamente - visto il contesto - in divenire. La dinamica, però, appare chiaramente invertita: se un organo subisce pressioni politiche (fatto testimoniato sopra) e viene interpellato su questioni che esulano dalle proprie competenze, è perché esso viene usato per sottrarre decisioni politiche al dibattito democratico. Una strategia che non riguarda solo il Covid: in pandemia ha conosciuto il suo culmine, ma è iniziata ben prima e proseguita ben dopo: l’ideologia green ne è una dimostrazione plastica. E anche il prezzo di queste scelte scellerate, per usare le parole di Miozzo, lo abbiamo pagato e lo pagheremo ancora in futuro. Se si parla tanto di Covid, in fondo, è puramente per una questione di metodo.
Miozzo avanza almeno un’altra considerazione degna di nota quando spiega che il piano pandemico del 2006 era una «lettera morta negli archivi della nostra amministrazione». Nessuno lo conosceva, «non era mai stata fatta un’esercitazione e non era stato fatto l’acquisto di beni di pronto soccorso e di Dpi. Non c’era nulla». Una responsabilità che imputa ai ministri precedenti e non a Speranza. Ai fini del buon funzionamento della democrazia, è fondamentale stabilire le responsabilità: a tagliare i fondi alla sanità per un decennio, in nome di una presunta austerità espansiva richiesta dall’«Europa», sono stati governi sostenuti dalla sinistra che oggi bercia contro l’attuale esecutivo. Lo dicono i dati, lo raccontano le condizioni in cui ci siamo trovati ad affrontare la pandemia. Almeno e limitatamente all’impreparazione del piano pandemico, possiamo anche assolvere Speranza. Ma non possiamo assolvere il Partito democratico dall’aver ucciso la sanità italiana.
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A mettere nero su bianco qualche dato in grado di smontare le ultime illusioni sui vantaggi del motore a batteria, è l’Adiconsum che periodicamente fa un report sull’andamento delle tariffe di ricarica. Lo stato dell’infrastruttura è ancora carente. I punti di ricarica sono 70.272 di cui un 10% non è attivo. La maggioranza dei punti (53.000) è in corrente alternata (Ac) con potenza inferiore a 50 Kw mentre le ricariche ultra veloci sono meno di 5.000. Intraprendere un percorso in autostrada è da temerari: la copertura delle aree di servizio è ancora al 48% e ci sono solo 1.274 punti. Essere a secco di elettricità e beccare un paio di stazioni di servizio sprovviste di colonnine apre scenari da incubo. Quindi, nella pianificazione di un percorso, bisognerebbe anche avere contezza della distribuzione delle ricariche.
Ma veniamo ai costi. Il prezzo unico nazionale a novembre scorso era pari a 0,117 euro il Kwh, in aumento del 5% rispetto a ottobre 2025. I prezzi medi alla colonnina sono per la Ac (lenta e accelerata) di 0,63 euro al Kwh (in aumento di 1 centesimo rispetto a ottobre), per la veloce (Dc) di 0,75 euro /Kwh (+1 centesimo rispetto a ottobre) e per la ultra veloce (Hpc) di 0,76 euro/kwh (stazionario). Per le tariffe medie massime si arriva a 0,83 per ricariche Ac, 0,82 per la Dc e 1,01 per Hpc.
Il report di Adiconsum fa un confronto con i carburanti fossili e evidenza che la parità di costo con benzina e diesel si attesta mediamente tra 0,60 e 0,65 euro/kwh. Ma molte tariffe medie attuali, superano questa soglia di convenienza.
Inoltre esistono forti divergenze tra i prezzi minimi e massimi che nella ricarica ultra veloce possono arrivare fino a 1,01 euro /Kwh. L’associazione dei consumatori segnala tra le tariffe più convenienti per la Ac, Emobility (0,25 euro/Kwh) per la Dc, Evdc in roaming su Enel X Way (0,45 euro/Kwh) e per l’alta potenza, la Tesla Supercharger (0,32 euro/Kwh). La conclusione del report è che c’è un rincaro, anche se lieve delle ricariche più diffuse ovvero Ac e Dc e il consiglio dell’Adiconsum, è che a fronte dell’alta variabilità dei prezzi è fondamentale utilizzare le app dedicate per verificare quale operatore offre il prezzo più basso sulla singola colonnina.
Questo vuol dire che mentre all’estero, come ad esempio in Germania, si fa il pieno utilizzando semplicemente il bancomat o la carta di credito, come al self service dei distributori, in Italia bisogna scaricare una infinità di app, a seconda del fornitore o del gestore, con la complicazione delle informazioni di pagamento e della registrazione. Chi ha la ventura (o sventura) di aver scelto una full electric, deve fare la gimcana tra le varie app, studiando con la comparazione, la soluzione più vantaggiosa. Un bello stress.
Secondo i dati più recenti di Eurostat e Switcher.ie, mentre la media europea per un pieno si attesta intorno a 14 euro, in Italia la spesa media sale a circa 20,30 euro. Nel nostro Paese, come detto prima, la media di ricarica Ac è di 0,63 euro /Kwh, in Francia e Spagna si scende sotto gli 0,45-0,50 euro /Kwh. La ricarica ultra rapida che nelle nostre colonnine è di media 0,76 euro/Kwh con picchi sopra 1 euro, in Francia si mantiene mediamente intorno a 0,60 euro/Kwh. Il costo dell’energia all’ingrosso in Italia è tra i più alti d’Europa, inoltra l’Iva e le accise sull’energia elettrica ad uso di ricarica pubblica sono meno agevolate rispetto alla Francia dove l’Iva è al 5,5%. Inoltre l’Italia non prevede riduzioni degli oneri di sistema per le infrastrutture ad alta potenza.
C’è un altro elemento di divergenza tra l’Italia e il resto dell’Europa che non incentiva l’acquisto di un’auto elettrica, ed è la metodologia del pagamento. Il nostro Paese è il regno delle app e degli abbonamenti. La ricarica «spontanea» (senza registrazione) è rara e spesso molto costosa. In paesi come Olanda, Danimarca e Germania, il pieno è gestito più come un servizio di pubblica utilità «al volo». Con il regolamento europeo Afir, nel 2025 è diventato obbligatorio per le nuove colonnine fast permettere il pagamento con carta di credito/debito tramite Pos. In Nord Europa questa pratica è già la norma, riducendo la necessità di avere dieci app diverse sul telefono. Inoltre in Paesi tecnologicamente avanzati (Norvegia, Germania), è molto diffuso il sistema Plug & Charge: colleghi il cavo e l’auto comunica direttamente con la colonnina per il pagamento, senza bisogno di tessere o smartphone. In Italia, questa tecnologia è limitata quasi esclusivamente alla rete Tesla.
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