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2018-11-16
Ricambio nell’intelligence. Il piano del governo per rilanciarsi in Libia
ANSA
La stretta di mano tra il premier, Giuseppe Conte, con il generale Khalifa Haftar e il presidente libico, Fajez Serraj, alla conferenza di Palermo sulla Libia ha rappresentato per la nostra politica estera un grosso passo in avanti che però non ha cancellato del tutto le difficoltà diplomatiche e di intelligence rimaste nella Cirenaica. Proprio per questo motivo, lunedì il governo avrebbe deciso di mettere mano alle nomine sui servizi segreti. È un tema che si trascina ormai da mesi, sul ricambio o meno dei vertici di Dis, Aise e Aisi, ma che ora diventa essenziale per dare vita alla nuova politica estera in Libia dell'esecutivo gialloblù, meno vicina agli Stati Uniti ma comunque equidistante dalla Russia di Vladimir Putin.
L'obiettivo è quello di rilanciare la presenza dell'Eni nella zona, mantenendo i propri avamposti, ma in particolare mettere ordine tra le tribù libiche che in questi anni ci hanno tenuto sotto ricatto, spesso con l'invio dei migranti: un'idea sul tavolo sarebbe quella di coinvolgerle nei guadagni del petrolio facendole entrare nel Noc (National Oil Corporation). Per farlo serve un ricambio generale, non solo nell'intelligence, ma che potrebbe passare dai vertici di Eni, il nostro colosso petrolifero.
A quanto risulta alla Verità, infatti, lunedì il Consiglio dei ministri dovrebbe sostituire il numero uno dell'Aise, il servizio segreto militare o esterno, cioè Alberto Manenti, che per anni ha gestito la situazione a Tripoli, anche perché nato a Tarhuna e vanta un'ottima conoscenza dell'arabo. Manenti è dal 1980 nel Sismi, fu nominato a Forte Braschi nel 2014 dal governo di Matteo Renzi, con la benedizione di Marco Minniti, ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio dei ministri con delega ai servizi segreti, poi diventato ministro dell'Interno.
I possibili sostituti di Manenti sono tre. Il primo, è Enrico Savio, attuale numero due del Dis, che vanta l'appoggio del presidente di Leonardo, Gianni De Gennaro. Poi c'è Luciano Carta, il severo e marziale generale della Guardia di finanza, che in molti avrebbero voluto al vertice della stessa Gdf. Quindi c' è Gianni Caravelli, il secondo vice dell'Aise, spinto dal ministro della Difesa, Elisabetta Trenta. Ma Caravelli fu nominato all'Aise proprio da Minniti e fu delegato da Manenti a seguire il dossier libico. E oggi sembra non essere un vantaggio.
Caso vuole che in questi giorni sul tavolo di Palazzo Chigi sia arrivata una relazione dettagliata sugli ultimi anni di gestione Minniti-Manenti del dossier libico. Per anni infatti, l'Italia ha sostenuto esclusivamente il Government of national accord (Gna) con a capo Serraj, unica autorità riconosciuta dall'Onu. I motivi della decisione, a detta di fonti diplomatiche, sono da ricondursi alla vicinanza delle scelte prese in passato dagli Stati uniti, in particolare da Hillary Clinton, al tempo segretario di Stato. Minniti, non è una notizia, è sempre stato molto vicino a Washington, come hanno rivelato anche i cablogrammi di Wikileaks. Il problema è che questa gestione è stata deleteria per i nostri interessi nella zona, come dimostra l'avanzata dei francesi di Total.
Non solo. L'Italia, dopo la caduta di Muammar Gheddafi, ha disinvestito in Libia in termini di capacità di intelligence e si è ritrovata con il problema dell'immigrazione e del terrorismo, ormai già esplosi. A conferma della sottovalutazione di questi due problemi basta rileggersi le relazioni che annualmente i nostri servizi segreti forniscono al Parlamento. Dal 2011 al 2017, quasi sei anni, nei dossier inviati a Camera e Senato non si fa minimo cenno agli sbarchi sulle nostre coste. Se ne inizia a parlare l'anno scorso, quando, si fa cenno a «sbarchi “occulti", effettuati sotto costa per eludere la sorveglianza marittima aumentando con ciò, di fatto, la possibilità di infiltrazione di elementi criminali e terroristici». A questo si aggiunga una politica discutibile sulla questione, con il governo di centrosinistra che a giorni alterni ha fatto intendere che i terroristi non potessero mischiarsi ai migranti, mentre altre volte sì. A quanto pare la gestione Minniti e Manenti ha puntato molto su Eni come braccio operativo della nostra intelligence. Lo disse persino l'ex presidente del Consiglio, Matteo Renzi, in televisione, intervistato da Lilli Gruber, scatenando le proteste dei 5 stelle. Negli ultimi anni la situazione è cambiata, l'arrivo della Russia in Siria e anche in Libia hanno modificato la geopolitica di un Medio oriente completamente destabilizzato. L'Italia si è ritrovata sola e impreparata con il governo di Tripoli. Serraj si è rivelato debolissimo, basti pensare che vive a Tripoli in un palazzo con elevatissimo livello di protezione e limita pochissimo i suoi movimenti.
Sul fronte interno invece i gialloblù non prevedono novità. Il capo del Dis, Alessandro Pansa, resterà per ora al proprio posto almeno fino all'inizio del 2019. Mentre sarà confermato nel ruolo di numero uno dell'Aisi, Mario Parente. La solidità del generale dei carabinieri piace a Conte e al resto dell'esecutivo.
Consob, su Minenna presidente c’è il veto di Mattarella
C'è un fantasma che si aggira per i palazzi della politica romana, è il nuovo presidente di Consob, l'autorità di vigilanza per i mercati finanziari, poltrona vacante da più di due mesi dopo che Mario Nava diede le dimissioni il 13 settembre. A quanto pare, nelle ultime ore, 5 stelle e Lega avrebbero trovato la quadra su Marcello Minenna, ex assessore della giunta Raggi e già con un piede dentro l'organo di controllo della Borsa. In corsa ci sono anche due professori della Bocconi, Alberto Dell'Acqua e Donato Masciandaro. Ma di date certe sull'insediamento non ce ne sono.
E c'è un motivo. La resistenza del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che secondo procedura, è quello che decide la nomina con decreto dopo la proposta del presidente del Consiglio, che a sua volta deve avere il parere favorevole delle commissioni Finanze di Camera e Senato. Si tratta di una procedura complessa su cui sorveglia il nostro Stato profondo, l'apparato burocratico contro cui si scagliano da mesi i grillini senza successo. Del resto al Quirinale c'è una figura che segue con attenzione la scelta sul nuovo presidente di Consob. È Giuseppe Fotia, consigliere per gli Affari finanziari al Colle dal 2006, quando si insediò per la prima volta il presidente emerito della Repubblica, Giorgio Napolitano. Fotia è stato soprannominato in questi anni come il «Signor no» della copertura finanziaria delle leggi, lo è anche adesso.
Ma a parte Consob, anche sulle altre nomine, dall'Antitrust all'Agcom, fino all'Anas, c'è incertezza. A sbloccarsi è stata Consip, stazione appaltante della Pubblica amministrazione, dove è arrivato come presidente Renato Catalano, capo dipartimento del Dag, nomina benedetta dall'asse formato da Mattarella, il ministro dell'Economia, Giovanni Tria, e Roberto Garofoli, capo di gabinetto del Mef. In Anas è stata rinviata al 28 novembre l'assemblea per nominare il nuovo ad. Ugo Dibennardo resta la prima scelta, grazie all'appoggio del ministro dei Trasporti, Danilo Toninelli. Da giorni però i grillini sono spaccati al loro interno. E mercoledì, 20 senatori pentastellati hanno presentato un'interrogazione che si chiede: «se la ventilata nomina di Dibennardo in sostituzione di Gianni Vittorio Armani non costituisca elemento di continuità con le precedenti gestioni e se non si ritenga invece urgente attivare le procedure ispettive previste dall'ordinamento, per fugare qualsiasi ombra nella gestione delle attività di Anas».
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Riduci
Carroccio e pentastellati a Tripoli vogliono ricominciare da zero. Corsa a tre per la successione al capo dell'Aise scelto da Marco Minniti. L'obiettivo è rilanciare la presenza dell'Eni nella zona, mantenendo i propri avamposti, ma in particolare mettere ordine tra le tribù libiche che in questi anni ci hanno tenuto sotto ricatto, spesso con l'invio dei migranti.I gialloblù vorrebbero alla Vigilanza dei mercati Marcallo Minenna l'ex assessore della giunta Raggi. Incertezza anche sul futuro di Anas.Lo speciale contiene due articoliLa stretta di mano tra il premier, Giuseppe Conte, con il generale Khalifa Haftar e il presidente libico, Fajez Serraj, alla conferenza di Palermo sulla Libia ha rappresentato per la nostra politica estera un grosso passo in avanti che però non ha cancellato del tutto le difficoltà diplomatiche e di intelligence rimaste nella Cirenaica. Proprio per questo motivo, lunedì il governo avrebbe deciso di mettere mano alle nomine sui servizi segreti. È un tema che si trascina ormai da mesi, sul ricambio o meno dei vertici di Dis, Aise e Aisi, ma che ora diventa essenziale per dare vita alla nuova politica estera in Libia dell'esecutivo gialloblù, meno vicina agli Stati Uniti ma comunque equidistante dalla Russia di Vladimir Putin. L'obiettivo è quello di rilanciare la presenza dell'Eni nella zona, mantenendo i propri avamposti, ma in particolare mettere ordine tra le tribù libiche che in questi anni ci hanno tenuto sotto ricatto, spesso con l'invio dei migranti: un'idea sul tavolo sarebbe quella di coinvolgerle nei guadagni del petrolio facendole entrare nel Noc (National Oil Corporation). Per farlo serve un ricambio generale, non solo nell'intelligence, ma che potrebbe passare dai vertici di Eni, il nostro colosso petrolifero. A quanto risulta alla Verità, infatti, lunedì il Consiglio dei ministri dovrebbe sostituire il numero uno dell'Aise, il servizio segreto militare o esterno, cioè Alberto Manenti, che per anni ha gestito la situazione a Tripoli, anche perché nato a Tarhuna e vanta un'ottima conoscenza dell'arabo. Manenti è dal 1980 nel Sismi, fu nominato a Forte Braschi nel 2014 dal governo di Matteo Renzi, con la benedizione di Marco Minniti, ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio dei ministri con delega ai servizi segreti, poi diventato ministro dell'Interno. I possibili sostituti di Manenti sono tre. Il primo, è Enrico Savio, attuale numero due del Dis, che vanta l'appoggio del presidente di Leonardo, Gianni De Gennaro. Poi c'è Luciano Carta, il severo e marziale generale della Guardia di finanza, che in molti avrebbero voluto al vertice della stessa Gdf. Quindi c' è Gianni Caravelli, il secondo vice dell'Aise, spinto dal ministro della Difesa, Elisabetta Trenta. Ma Caravelli fu nominato all'Aise proprio da Minniti e fu delegato da Manenti a seguire il dossier libico. E oggi sembra non essere un vantaggio. Caso vuole che in questi giorni sul tavolo di Palazzo Chigi sia arrivata una relazione dettagliata sugli ultimi anni di gestione Minniti-Manenti del dossier libico. Per anni infatti, l'Italia ha sostenuto esclusivamente il Government of national accord (Gna) con a capo Serraj, unica autorità riconosciuta dall'Onu. I motivi della decisione, a detta di fonti diplomatiche, sono da ricondursi alla vicinanza delle scelte prese in passato dagli Stati uniti, in particolare da Hillary Clinton, al tempo segretario di Stato. Minniti, non è una notizia, è sempre stato molto vicino a Washington, come hanno rivelato anche i cablogrammi di Wikileaks. Il problema è che questa gestione è stata deleteria per i nostri interessi nella zona, come dimostra l'avanzata dei francesi di Total. Non solo. L'Italia, dopo la caduta di Muammar Gheddafi, ha disinvestito in Libia in termini di capacità di intelligence e si è ritrovata con il problema dell'immigrazione e del terrorismo, ormai già esplosi. A conferma della sottovalutazione di questi due problemi basta rileggersi le relazioni che annualmente i nostri servizi segreti forniscono al Parlamento. Dal 2011 al 2017, quasi sei anni, nei dossier inviati a Camera e Senato non si fa minimo cenno agli sbarchi sulle nostre coste. Se ne inizia a parlare l'anno scorso, quando, si fa cenno a «sbarchi “occulti", effettuati sotto costa per eludere la sorveglianza marittima aumentando con ciò, di fatto, la possibilità di infiltrazione di elementi criminali e terroristici». A questo si aggiunga una politica discutibile sulla questione, con il governo di centrosinistra che a giorni alterni ha fatto intendere che i terroristi non potessero mischiarsi ai migranti, mentre altre volte sì. A quanto pare la gestione Minniti e Manenti ha puntato molto su Eni come braccio operativo della nostra intelligence. Lo disse persino l'ex presidente del Consiglio, Matteo Renzi, in televisione, intervistato da Lilli Gruber, scatenando le proteste dei 5 stelle. Negli ultimi anni la situazione è cambiata, l'arrivo della Russia in Siria e anche in Libia hanno modificato la geopolitica di un Medio oriente completamente destabilizzato. L'Italia si è ritrovata sola e impreparata con il governo di Tripoli. Serraj si è rivelato debolissimo, basti pensare che vive a Tripoli in un palazzo con elevatissimo livello di protezione e limita pochissimo i suoi movimenti. Sul fronte interno invece i gialloblù non prevedono novità. Il capo del Dis, Alessandro Pansa, resterà per ora al proprio posto almeno fino all'inizio del 2019. Mentre sarà confermato nel ruolo di numero uno dell'Aisi, Mario Parente. La solidità del generale dei carabinieri piace a Conte e al resto dell'esecutivo.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/ricambio-nellintelligence-il-piano-del-governo-per-rilanciarsi-in-libia-2619929564.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="consob-su-minenna-presidente-ce-il-veto-di-mattarella" data-post-id="2619929564" data-published-at="1765503990" data-use-pagination="False"> Consob, su Minenna presidente c’è il veto di Mattarella C'è un fantasma che si aggira per i palazzi della politica romana, è il nuovo presidente di Consob, l'autorità di vigilanza per i mercati finanziari, poltrona vacante da più di due mesi dopo che Mario Nava diede le dimissioni il 13 settembre. A quanto pare, nelle ultime ore, 5 stelle e Lega avrebbero trovato la quadra su Marcello Minenna, ex assessore della giunta Raggi e già con un piede dentro l'organo di controllo della Borsa. In corsa ci sono anche due professori della Bocconi, Alberto Dell'Acqua e Donato Masciandaro. Ma di date certe sull'insediamento non ce ne sono. E c'è un motivo. La resistenza del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che secondo procedura, è quello che decide la nomina con decreto dopo la proposta del presidente del Consiglio, che a sua volta deve avere il parere favorevole delle commissioni Finanze di Camera e Senato. Si tratta di una procedura complessa su cui sorveglia il nostro Stato profondo, l'apparato burocratico contro cui si scagliano da mesi i grillini senza successo. Del resto al Quirinale c'è una figura che segue con attenzione la scelta sul nuovo presidente di Consob. È Giuseppe Fotia, consigliere per gli Affari finanziari al Colle dal 2006, quando si insediò per la prima volta il presidente emerito della Repubblica, Giorgio Napolitano. Fotia è stato soprannominato in questi anni come il «Signor no» della copertura finanziaria delle leggi, lo è anche adesso. Ma a parte Consob, anche sulle altre nomine, dall'Antitrust all'Agcom, fino all'Anas, c'è incertezza. A sbloccarsi è stata Consip, stazione appaltante della Pubblica amministrazione, dove è arrivato come presidente Renato Catalano, capo dipartimento del Dag, nomina benedetta dall'asse formato da Mattarella, il ministro dell'Economia, Giovanni Tria, e Roberto Garofoli, capo di gabinetto del Mef. In Anas è stata rinviata al 28 novembre l'assemblea per nominare il nuovo ad. Ugo Dibennardo resta la prima scelta, grazie all'appoggio del ministro dei Trasporti, Danilo Toninelli. Da giorni però i grillini sono spaccati al loro interno. E mercoledì, 20 senatori pentastellati hanno presentato un'interrogazione che si chiede: «se la ventilata nomina di Dibennardo in sostituzione di Gianni Vittorio Armani non costituisca elemento di continuità con le precedenti gestioni e se non si ritenga invece urgente attivare le procedure ispettive previste dall'ordinamento, per fugare qualsiasi ombra nella gestione delle attività di Anas».
Il motore è un modello di ricavi sempre più orientato ai servizi: «La crescita facile basata sulla forbice degli interessi sta inevitabilmente assottigliandosi, con il margine di interesse aggregato in calo del 5,6% nei primi nove mesi del 2025», spiega Salvatore Gaziano, responsabile delle strategie di investimento di SoldiExpert Scf. «Il settore ha saputo, però, compensare questa dinamica spingendo sul secondo pilastro dei ricavi, le commissioni nette, che sono cresciute del 5,9% nello stesso periodo, grazie soprattutto alla focalizzazione su gestione patrimoniale e bancassurance».
La crescita delle commissioni riflette un’evoluzione strutturale: le banche agiscono sempre più come collocatori di prodotti finanziari e assicurativi. «Questo modello, se da un lato genera profitti elevati e stabili per gli istituti con minori vincoli di capitale e minor rischio di credito rispetto ai prestiti, dall’altro espone una criticità strutturale per i risparmiatori», dice Gaziano. «L’Italia è, infatti, il mercato in Europa in cui il risparmio gestito è il più caro», ricorda. Ne deriva una redditività meno dipendente dal credito, ma con un tema di costo per i clienti. La «corsa turbo» agli utili ha riacceso il dibattito sugli extra-profitti. In Italia, la legge di bilancio chiede un contributo al settore con formule che evitano una nuova tassa esplicita.
«È un dato di fatto che il governo italiano stia cercando una soluzione morbida per incassare liquidità da un settore in forte attivo, mentre in altri Paesi europei si discute apertamente di tassare questi extra-profitti in modo più deciso», dice l’esperto. «Ad esempio, in Polonia il governo ha recentemente aumentato le tasse sulle banche per finanziare le spese per la Difesa. È curioso notare come, alla fine, i governi preferiscano accontentarsi di un contributo una tantum da parte delle banche, piuttosto che intervenire sulle dinamiche che generano questi profitti che ricadono direttamente sui risparmiatori».
Come spiega David Benamou, responsabile investimenti di Axiom alternative investments, «le banche italiane rimangono interessanti grazie ai solidi coefficienti patrimoniali (Cet1 medio superiore al 15%), alle generose distribuzioni agli azionisti (riacquisti di azioni proprie e dividendi che offrono rendimenti del 9-10%) e al consolidamento in corso che rafforza i gruppi leader, Unicredit e Intesa Sanpaolo. Il settore in Italia potrebbe sovraperformare il mercato azionario in generale se le valutazioni rimarranno basse. Non mancano, tuttavia, rischi come un moderato aumento dei crediti in sofferenza o gli choc geopolitici, che smorzano l’ottimismo».
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Il 29 luglio del 2024, infatti, Axel Rudakubana, cittadino britannico con genitori di origini senegalesi, entra in una scuola di danza a Southport con un coltello in mano. Inizia a colpire chiunque gli si pari davanti, principalmente bambine, che provano a difendersi come possono. Invano, però. Rudakubana vuole il sangue. Lo avrà. Sono 12 minuti che durano un’eternità e che provocheranno una carneficina. Rudakubana uccide tre bambine: Alice da Silva Aguiar, di nove anni; Bebe King, di sei ed Elsie Dot Stancombe, di sette. Altri dieci bimbi rimarranno feriti, alcuni in modo molto grave.
Nel Regno Unito cresce lo sdegno per questo ennesimo fatto di sangue che ha come protagonista un uomo di colore. Anche Michael dice la sua con un video di 12 minuti su Facebook. Viene accusato di incitamento all’odio razziale ma, quando va davanti al giudice, viene scagionato in una manciata di minuti. Non ha fatto nulla. Era frustrato, come gran parte dei britannici. Ha espresso la sua opinione. Tutto è bene quel che finisce bene, quindi. O forse no.
Due settimane dopo, infatti, il consiglio di tutela locale, che per legge è responsabile della protezione dei bambini vulnerabili, gli comunica che non è più idoneo a lavorare con i minori. Una decisione che lascia allibiti molti, visto che solitamente punizioni simili vengono riservate ai pedofili. Michael non lo è, ovviamente, ma non può comunque allenare la squadra della figlia. Di fronte a questa decisione, il veterano prova un senso di vergogna. Decide di parlare perché teme che la sua comunità lo consideri un pedofilo quando non lo è. In pochi lo ascoltano, però. Quasi nessuno. Il suo non è un caso isolato. Solamente l’anno scorso, infatti, oltre 12.000 britannici sono stati monitorati per i loro commenti in rete. A finire nel mirino sono soprattutto coloro che hanno idee di destra o che criticano l’immigrazione. Anche perché le istituzioni del Regno Unito cercano di tenere nascoste le notizie che riguardano le violenze dei richiedenti asilo. Qualche giorno fa, per esempio, una studentessa è stata violentata da due afghani, Jan Jahanzeb e Israr Niazal. I due le si avvicinano per portarla in un luogo appartato. La ragazza capisce cosa sta accadendo. Prova a fuggire ma non riesce. Accende la videocamera e registra tutto. La si sente pietosamente dire «mi stuprerai?» e gridare disperatamente aiuto. Che però non arriva. Il video è terribile, tanto che uno degli avvocati degli stupratori ha detto che, se dovesse essere pubblicato, il Regno Unito verrebbe attraversato da un’ondata di proteste. Che già ci sono. Perché l’immigrazione incontrollata sull’isola (e non solo) sta provocando enormi sofferenze alla popolazione locale. Nel Regno, certo. Ma anche da noi. Del resto è stato il questore di Milano a notare come gli stranieri compiano ormai l’80% dei reati predatori. Una vera e propria emergenza che, per motivi ideologici, si finge di non vedere.
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Una fotografia limpida e concreta di imprese, giustizia, legalità e creatività come parti di un’unica storia: quella di un Paese, il nostro, che ogni giorno prova a crescere, migliorarsi e ritrovare fiducia.
Un percorso approfondito in cui ci guida la visione del sottosegretario alle Imprese e al Made in Italy Massimo Bitonci, che ricostruisce lo stato del nostro sistema produttivo e il valore strategico del made in Italy, mettendo in evidenza il ruolo della moda e dell’artigianato come forza identitaria ed economica. Un contributo arricchito dall’esperienza diretta di Giulio Felloni, presidente di Federazione Moda Italia-Confcommercio, e dal suo quadro autentico del rapporto tra imprese e consumatori.
Imprese in cui la creatività italiana emerge, anche attraverso parole diverse ma complementari: quelle di Sara Cavazza Facchini, creative director di Genny, che condivide con il lettore la sua filosofia del valore dell’eleganza italiana come linguaggio culturale e non solo estetico; quelle di Laura Manelli, Ceo di Pinko, che racconta la sua visione di una moda motore di innovazione, competenze e occupazione. A completare questo quadro, la giornalista Mariella Milani approfondisce il cambiamento profondo del fashion system, ponendo l’accento sul rapporto tra brand, qualità e responsabilità sociale. Il tema di responsabilità sociale viene poi ripreso e approfondito, attraverso la chiave della legalità e della trasparenza, dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Giuseppe Busia, che vede nella lotta alla corruzione la condizione imprescindibile per la competitività del Paese: norme più semplici, controlli più efficaci e un’amministrazione capace di meritarsi la fiducia di cittadini e aziende. Una prospettiva che si collega alla voce del presidente nazionale di Confartigianato Marco Granelli, che denuncia la crescente vulnerabilità digitale delle imprese italiane e l’urgenza di strumenti condivisi per contrastare truffe, attacchi informatici e forme sempre nuove di criminalità economica.
In questo contesto si introduce una puntuale analisi della riforma della giustizia ad opera del sottosegretario Andrea Ostellari, che illustra i contenuti e le ragioni del progetto di separazione delle carriere, con l’obiettivo di spiegare in modo chiaro ciò che spesso, nel dibattito pubblico, resta semplificato. Il suo intervento si intreccia con il punto di vista del presidente dell’Unione Camere Penali Italiane Francesco Petrelli, che sottolinea il valore delle garanzie e il ruolo dell’avvocatura in un sistema equilibrato; e con quello del penalista Gian Domenico Caiazza, presidente del Comitato «Sì Separa», che richiama l’esigenza di una magistratura indipendente da correnti e condizionamenti. Questa narrazione attenta si arricchisce con le riflessioni del penalista Raffaele Della Valle, che porta nel dibattito l’esperienza di una vita professionale segnata da casi simbolici, e con la voce dell’ex magistrato Antonio Di Pietro, che offre una prospettiva insolita e diretta sui rapporti interni alla magistratura e sul funzionamento del sistema giudiziario.
A chiudere l’approfondimento è il giornalista Fabio Amendolara, che indaga il caso Garlasco e il cosiddetto «sistema Pavia», mostrando come una vicenda giudiziaria complessa possa diventare uno specchio delle fragilità che la riforma tenta oggi di correggere. Una coralità sincera e documentata che invita a guardare l’Italia con più attenzione, con più consapevolezza, e con la certezza che il merito va riconosciuto e difeso, in quanto unica chiave concreta per rendere migliore il Paese. Comprenderlo oggi rappresenta un'opportunità in più per costruire il domani.
Per scaricare il numero di «Osservatorio sul Merito» basta cliccare sul link qui sotto.
Merito-Dicembre-2025.pdf
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