2018-06-19
«L’Occidente protegge tutti tranne i deboli come Alfie»
Il filosofo francese Rémi Brague, premio Ratzinger per la teologia nel 2012: «Il mondo rispetta gli interessi solo di chi si fa valere. “Giuridico" non ha più a che fare con giustizia, “medico" non è chi salva, ma anche chi uccide».Rémi Brague è membro dell'Institut de France. Tra i maggiori filosofi cattolici francesi ed europei, ha ricevuto il premio Ratzinger per la teologia nel 2012. In un colloquio esclusivo con La Verità parla di Europa, della crisi del liberalismo, del caso Alfie Evans. Lei ha firmato con Robert Spaemann, Roger Scruton, Ryszard Legutko e altri il manifesto «La Dichiarazione di Parigi. Un'Europa in cui possiamo credere», in cui spiega che le istituzioni comunitarie oggi sono contrarie all'origine profonda dell'Europa. Come è nato questo manifesto?«È più facile spiegare come è nato il manifesto che prevedere la sua influenza: un gruppo di intellettuali europei, di sensibilità conservatrice, si sono riuniti in modo molto informale attorno al Gruppo Vanenburg, chiamato così dal nome del luogo dei Paesi Bassi. L'ultima riunione si è tenuta a Parigi, da cui il nome finale. La sua ricezione è cominciata in Francia, dove ne è stata recentemente pubblicata una versione bilingue. Ci auguriamo che il manifesto spinga le classi dirigenti a riflettere e orienti le loro decisioni. Non ci facciamo illusioni. L'essenziale è che abbiamo detto quella che crediamo essere la verità, e che abbiamo lanciato un avvertimento. Siamo come la sentinella di cui parla il profeta Ezechiele: se avverte gli abitanti della città, ma nessuno l'ascolta, peggio per loro. Ma se non avverte nessuno, guai a lei!».Guardando alla Francia, Emmanuel Macron ha dichiarato che l'obiettivo è rafforzare la «sovranità europea». Condivide questo obiettivo? Lo stesso presidente ha pronunciato un importante e discusso intervento al College des Bernardins, in cui ha chiesto un dialogo maggiore con la Chiesa. Si tratta di una mano tesa, una trappola o un'opportunità? «Non è sempre facile sapere cosa passi nella testa di Macron. Se intende dire che sarebbe una buona cosa che, di fronte ai problemi di politica internazionale, al posto di dividersi secondo gli interessi di ciascun Paese, l'Europa parlasse una sola voce, chi non sarebbe d'accordo? Se intende dire che una sovranità sovranazionale dovrebbe prevalere su quella degli Stati nazione, è un'altra storia. Quanto al discorso, ero al Collège des Bernardins, e in un primo tempo ho ceduto al fascino di un discorso pronunciato in buon francese e condito da citazioni di buoni autori. Macron ha l'abitudine di dire ogni volta ciò che può piacere al suo pubblico del momento. In ogni caso, ha detto più di quello che ci si poteva attendere. Vediamo ciò che farà e se ne resterà più di quel che un comico chiamava “parole verbali"». Ha seguito la vicenda di Alfie Evans? «Da lontano: ero negli Stati uniti. Non ho un'idea precisa dei dettagli giuridici e medici della cosa. Sembra comunque che non si sia fatto tutto ciò che era possibile almeno per prolungare la vita del bambino, e addolcire la sua morte, dato che sembra fosse spacciato in ogni caso. Non capisco perché abbiano negato ai suoi genitori di trasferirlo in Italia. Papa Francesco ha detto e fatto ciò che era necessario. Osservo, in termini generali, un cambiamento che ho già avuto modo di rimarcare altrove: l'aggettivo “medico" designava, da Ippocrate fino a poco fa, tutto ciò che avesse per scopo di curare e cercare di guarire. Oggi significa sempre di più ciò che viene fatto da gente laureata, in camice bianco e ambiente asettico. Qualsiasi cosa, anche uccidere. Pura tecnica, dunque. L'aggettivo “giuridico" subisce, del resto, lo stesso slittamento semantico. Esso designava dall'Antichità in poi lo sforzo di ottenere la situazione più giusta possibile. Oggi indica ogni decisione presa da gente laureata, in toga (o, in certi casi, con una parrucca) e in una sala speciale, preparata alla bisogna. Jean Jacques Rousseau spiega molto bene che il “diritto del più forte" è una nozione assurda, poiché il più forte non ha bisogno di invocare un “diritto", se non nel momento in cui rischia di diventare il più debole. Non c'è diritto che non sia il diritto del più debole. Oggi, sempre di più, si rispettano i “diritti" (di fatto gli interessi) di coloro che possono già difenderli, contro i “diritti" degli altri. E mi domando, non senza terrore, se la nostra società sia ancora uno Stato di diritto… È interessante notare come, in tutte le lingue, si impieghi sempre più l'espressione “diritti umani", mentre nelle grandi Dichiarazioni, quella del 1789 e quella universale del 1948, si parlava di “diritti dell'uomo". Non mi sembra una cosa da poco. La definizione attuale suggerisce che il fatto di avere dei diritti è una caratteristica dell'uomo, come la posizione eretta o il pollice opponibile. Parlare di “diritti dell'uomo" lasciava invece aperta la questione sull'origine di questi diritti. Con i “diritti umani" è come se la questione non andasse più posta. Ma come fa l'uomo ad avere dei diritti? Se se li arroga da sé, è ancora in posizione di forza. Ci si può dunque chiedere “con quale diritto abbiamo diritti?". Per quanto mi riguarda, questi diritti sono il riflesso del rispetto che Dio ha per la sua creatura».Secondo molti la linea di divisione nelle nostre società non è più tra destra e sinistra, ma tra liberalismo «aperto» e chiusure cosiddette nazionaliste o populiste - gli ultimi mesi di politica italiana dicono molto a questo riguardo: è uno schema corretto? Crede che il liberalismo possa ancora dire qualcosa?«È curioso come “aperto" passi oggi per un aggettivo unicamente positivo. In fin dei conti nessuno è più “aperto" di un samurai che ha appena fatto harakiri… Nel XIX secolo, la sinistra si preoccupava degli esclusi della società, cercava di risolvere quella che chiamava la “questione sociale". Esiste ancora oggi una sinistra che si preoccupa dei poveri? Non so bene cosa accade in Italia, ma da noi le persone che si dicono di sinistra sembrano occuparsi più degli interessi di coloro che sono già capaci di difendersi (e persino di attaccare) perché sono raggruppati in sindacati, associazioni, “collettivi" di ogni sorta. Il termine “liberalismo" è talmente ambiguo che bisogna prenderlo con le pinze, così come la parola “libertà". Molti dei nostri contemporanei si credono liberi quando nei fatti cedono alle influenze esteriori (pubblicità, propaganda) o interiori (istinti, passioni). Credono di essere attivi, mentre sono passivi. Ho talvolta l'impressione che si cerchi di comprare la nostra libertà di agire accordandoci la libertà di cedere “liberamente" alle nostre inclinazioni. Così, le nostre società combinano la presunta “liberazione" della sessualità con un controllo delle opinioni sempre più pesante». Come la cultura cattolica può porsi rispetto all'ordine liberale?«La Chiesa cattolica ha subito dalla Riforma, poi dalla Rivoluzione francese, una serie di attacchi che l'hanno portata a irrigidirsi, con una mentalità da assediata. Ma essa è stata anche un luogo di libertà e di creatività, proprio quando una popolazione subiva l'oppressione. Non a caso in Polonia, all'epoca del “socialismo reale", gli artisti sgraditi al regime, credenti o meno, esponevano nelle chiese. In Irlanda, o in Québec, la Chiesa è stata spesso il solo principio di identità delle popolazioni sottomesse a un regime straniero. Di qui la sua presa sulla società, che oggi la Chiesa stessa paga caro, dal momento che la pressione straniera si è allentata. Assistiamo a fenomeni paradossali: recentemente ho sentito un giovane e brillante laureato americano che ha lasciato una posizione di prestigio presso l'Università di Stanford per una all'Università cattolica di Notre Dame. Mi ha detto che così si sentiva più libero, che non era più schiacciato dall'obbligo di pensare e di parlare come tutto il piccolo mondo accademico».
Jose Mourinho (Getty Images)