«Non sorprende che il livello di scetticismo nei confronti dell’Europa abbia raggiunto nuovi picchi». Così ha affermato l’economista ed ex presidente del Consiglio Mario Draghi all’interno dell’arena del Meeting per l’amicizia fra i popoli di Rimini, che riunisce esponenti del mondo politico culturale e sociale. Occorre però solerti ricordare che l’Europa vive di una memoria storica. Stando alla riflessione del pensatore francese Rémi Brague, l’identità europea si individua nella secondarietà della sua cultura rispetto a quella greca ed ebraica. Ciò che fa l’unità dell’Europa, per Brague, è il dinamismo di entrambe le tradizioni ebraico-cristiano e del paganesimo antico.
L’Europa di oggi, l’Europa romana, appare così come la sintesi di queste due componenti. Draghi, pur trovando consolatorio sapere che «l’Unione europea è stata capace di evolversi in passato», non osa far cenno a memoria alcuna, al contrario evidenzia come «i traguardi raggiunti nei decenni precedenti furono risposte a sfide specifiche di quell’epoca e offrono scarsissimi elementi per affrontare le nuove problematiche». La chiave logica del suo discorso giace in un sentire scettico comune che dovrebbe portare in qualche modo a guardare avanti, a «ritrovare un’unità dell’azione».
Ma su quale base? Lo scetticismo, quanto meno nella sua accezione più radicale, parte dall’idea che «nulla esiste» e che, anche se qualcosa esistesse, non sarebbe conoscibile; e, se pure fosse conoscibile, non sarebbe comunicabile. Si tratta di una posizione che mettendo in discussione la conoscenza, l’essere e il linguaggio, non può costituire il punto di partenza per un’azione. Certamente non può aiutare a «guardare oltre la retorica», come auspica Draghi, poiché immobilizza creando uno stato permanente di indecisione. E lasciare un popolo nell’indecisione significa renderlo vulnerabile e facilmente manipolabile.
Lo scetticismo di cui parla Draghi riguarda la capacità dell’Unione europea di difendere i valori di democrazia, pace, libertà, indipendenza, sovranità, prosperità, equità. Ma ancora: in virtù di che cosa è possibile parlare e condividere tali valori? Una risposta risuona proprio nei Cori da La Rocca di T.S. Eliot, opera dalla quale è tratto il titolo del Meeting che ispira tante menti che in questi giorni si trovano a riflettere a Rimini. «Il mondo rotea e il mondo cambia, una cosa non cambia. […] Comunque la mascheriate, questa cosa non cambia: la lotta perpetua del Bene e del Male. Dimentichi, voi trascurate gli altari e le chiese. […] C’è un lavoro comune, una Chiesa per tutti, e un impiego per ciascuno, ognuno al suo lavoro».
L’invito di Eliot pertanto a costruire con mattoni nuovi è l’invito al cristiano ad attingere dalle mura della sua chiesa. Sono mattoni ben precisi. Il mondo cambia, ma non dimenticate altari e chiese! Non è lo scetticismo che permette di costruire, occorre la conoscenza quale via che conduce ai mattoni di pace. Come notava con acume Dietrich von Hildebrand, che mise a rischio la propria vita per combattere il nazionalsocialismo, al punto da essere inserito dalle SS al primo posto nella lista nera quale nemico numero uno del Führer: «La pace è un elemento indispensabile della vera felicità - ogni ideale di felicità assoluta include la pace; il desiderio di pace è uno dei temi essenziali della vita umana» (Nachlass, Pace, testo inedito del 1943).
La pace non è un elemento marginale, una meta a cui ambire in casi eccezionali, ma è l’essenza di una vita felice. La pace non è qualcosa di extra alla vita, ma costituente la vera vita. É per questo che il padre ispiratore del Meeting di Rimini, il Servo di Dio Luigi Giussani, ribadiva con forza che la questione di Dio non può restare marginale per un popolo. In particolare, la questione che un Dio si è fatto carne, «che Egli sia o non sia esistito; meglio, constatare o non constatare che Egli sia, o sia esistito, questa è la decisione più grande dell’esistenza. Nessun’altra scelta che la società può proporre o l’uomo immaginare come importante ha questo valore. E ciò suona come un’imposizione; affermare il contenuto cristiano sembra dispotismo. Ma è dispotismo dare notizia di una cosa accaduta, per quanto grande possa essere?» (L. Giussani, All’origine della pretesa cristiana, Rizzoli, Milano, 1999, 2011, pp. 40-41).
Risuona allora l’interrogativo di Dostoevskij: «Un uomo colto, un europeo dei nostri giorni può credere, credere proprio, alla divinità del Figlio di Dio, Gesù Cristo?» (I demoni; Taccuini per i demoni, a cura di E. Lo Gatto, Sansoni, Firenze 1958, p. 1.011). È qui che, secondo Giussani, si gioca la questione religiosa. Ed è qui che si gioca la possibilità di un’Europa costruita con mattoni di pace. Non può darsi proposta per l’Unione europea, per quanto nobile e in difesa dei popoli, che non tenga conto dell’unità oggettiva a partire dalla quale nella storia è possibile darsi pace e riconciliazione. Diversamente, qualsiasi nuova teoria si presterà sempre ad essere facile preda di prossimi umori geopolitici, quanto di nuove credenze etiche puramente soggettivistiche.
Pierre Manent, 75 anni, è uno dei più grandi filosofi politici viventi. Francese, liberale «classico», allievo di Raymond Aron, insegna all’École des Hautes Études en Sciences Sociales ed è visiting professor al Boston College; alcuni dei suoi testi più importanti sono stati pubblicati in Italia da Rubbettino (tra questi, Storia intellettuale del liberalismo e In difesa della nazione). Con le sue analisi ha anticipato i grandi temi del dibattito pubblico mondiale, e smontato molte delle etichette di comodo che tentano di orientarlo. Decostruendo la retorica attorno al termine «populismo», dodici anni fa ha colto, in anticipo sulla Brexit e sul fenomeno trumpiano, la tendenza delle democrazie liberali a presentare le grandi contese elettorali non più come confronto, anche aspro, di offerte politiche diverse in un perimetro di comune legittimazione, ma come ordalie tra il bene (autoproclamatosi tale) e la barbarie. È difficile non rileggere la sua analisi senza pensare alla stretta attualità: la sfida Harris-Trump, le recenti elezioni legislative francesi e quelle europee. Tornate che un racconto mediatico assillante e spesso osceno trasforma, appunto, in appuntamenti potenzialmente fatali in cui, pur di evitare il risultato «sbagliato», vale praticamente tutto. Manent ha accettato un dialogo con La Verità sui principali temi della politica globale, dalle sorti delle nostre democrazie alla cancel culture. L’intervista parte proprio dalla felice profezia sulla torsione subita dalle società occidentali.
Professore, nel saggio del 2012 La demagogia populista e il fanatismo di centro, tradotto per American Affairs nel 2017, lei scrisse che «le nostre democrazie stavano slittando verso un contrasto tra opinioni legittime e illegittime, tra ortodossie politiche ed eresie politiche». Non pensa che tanto la Francia quanto l’Europa siano una conferma della sua analisi?
«Ciò che affascina è il processo attraverso il quale il regime che per oltre due secoli è stato l’orgoglio dell’Europa è diventato oggetto di un discredito sempre più virulento da parte della classe dirigente europea: il governo rappresentativo, considerato il fine ultimo della politica moderna, è diventato il regime che si rifugge perché si vede in esso un’ingiustizia essenziale. Ormai il regime con cui un popolo governa sé stesso viene rifiutato perché rompe il presunto tessuto senza giunture dell’umanità. L’orizzonte è la gestione dei diritti umani e degli interessi individuali da parte di istituzioni non politiche, preferibilmente internazionali o europee. Da qui il rifiuto di qualsiasi richiesta o rivendicazione che tragga la sua legittimità da un popolo politico definito dalla sua forma nazionale».
Ma se è così, chi decide della legittimità (o meno), con che titoli e su che basi, visto che l’ordine liberale prevede che non esistano valori assoluti?
«L’ordine liberale decide che non esiste un valore assoluto! Ciò significa che si dichiara un valore assoluto. La situazione attuale è un’illustrazione dell’osservazione dei greci secondo cui l’opinione è il tiranno più temibile, soprattutto in una democrazia. Ciò che è per me misterioso è il passaggio da un assetto in cui un partito “conservatore” difendeva l’ordine costituito, mentre un partito “progressista” lo attaccava per riformarlo, a un assetto in cui praticamente tutti i partiti al governo sono “progressisti”, nel senso che accettano di cancellare la nazione restringendo continuamente la latitudine di azione del governo rappresentativo della nazione a favore di istituzioni non nazionali».
Secondo lui dunque si può ancora considerare attuale il paradosso di Böckenförde, secondo cui, come ha spesso ricordato Joseph Ratzinger, «lo Stato liberale secolarizzato vive di presupposti che non può garantire»?
«Meno elegantemente, ho scritto una volta, riferendomi alla Francia, che lo Stato liberale e laico presupponeva la nazione sacra. Perché l’istituzione politica osasse separarsi rigorosamente dall’istituzione religiosa con cui era legata da sempre, la nazione doveva sperimentarsi e affermarsi come comunità per eccellenza, del tutto autosufficiente, la nazione doveva diventare, insomma, la Chiesa. Quel tempo è passato: lo Stato vuole separarsi dalla nazione così come si è separato dalla Chiesa. Alcuni storici parlano delle nazioni come di “comunità immaginarie”. Ebbene, noi viviamo o crediamo o vogliamo vivere in una “umanità immaginaria”, facciamo o cerchiamo di fare come se l’umanità fosse una comunità reale, l’unica reale e quindi l’unica legittima».
Questo schema politico quasi religioso (ortodossie contro eresie, rappresentate ieri dai “populisti”, oggi dai “sovranisti”), dove ha origine nello specifico e perché tende a riproporsi ovunque?
«Tende a riprodursi in tutta Europa. Siamo gli unici al mondo a vivere in associazioni politiche - le nazioni europee - che sono essenzialmente considerate illegittime dall’opinione pubblica e dalla classe dirigente. Non in Russia, non in Cina, non in nessun Paese del mondo musulmano, non in nessun Paese dell’Africa e probabilmente nemmeno in nessun Paese dell’America Latina... Nemmeno nei Paesi dell’Europa centrale e orientale. Questa strana malattia colpisce solo i Paesi dell’Europa occidentale, cioè i Paesi europei che sono stati i protagonisti del dominio europeo sul mondo per diversi secoli. Questi Paesi hanno deciso che d’ora in poi dovranno fare penitenza per le ingiustizie commesse nella loro storia: non una penitenza nel senso cristiano del termine, cioè una penitenza che chiede perdono e mira all’emendamento, ma una penitenza di tipo nuovo, una penitenza senza perdono, che porta a un ripudio indiscriminato dell’intero passato europeo. Questo impulso a ripudiare è molto forte anche negli Stati Uniti, per ragioni simili, con la complicazione che lì si scontra con l’impulso imperiale, il desiderio di preservare l’impero americano nonostante tutto».
Una penitenza senza perdono segna così il rischio di una cancellazione della storia dei popoli. Non mancano studiosi che hanno evidenziato sotto questo aspetto l’islamizzazione europea in atto. Penso al volume Sur l’Islam dell’intellettuale francese Rémi Brague. Crede si possa tornare a una riflessione sulla storia e sulla libertà dell’Occidente?
«Ciò che è straordinario, ciò che rende la situazione così pericolosa, è questo pregiudizio contro noi stessi che ci rende incapaci di guardare alla nostra storia e alla storia del mondo con un po’ di sobrietà e buon senso. Secondo la visione dominante, per secoli c’è stato un solo protagonista nel mondo, un solo gruppo o insieme umano che ha realmente agito, l’Europa o l’Occidente. Gli altri, tutti gli altri, sono stati soggetti passivi, e quindi essenzialmente innocenti, della dominazione occidentale. Certo, è vero che in certi periodi lo sviluppo della civiltà occidentale le ha dato un tale vantaggio non solo in termini di forza, ma anche di competenza generale nell’organizzare razionalmente il mondo umano, che non solo ha sottomesso, ma ha anche soggiogato buona parte del resto di questo mondo. Questo è un dato di fatto. Il dominio non è mai privo di abusi, ingiustizie e crimini: anche questo è un dato di fatto. Ma abusi, ingiustizie e crimini non erano rari nel resto del mondo. Non possiamo denunciare il commercio occidentale senza menzionare anche il commercio orientale degli schiavi, che alimentava le terre musulmane con schiavi africani. Ma, come sapete, l’opinione pubblica si rifiuta di considerare questi fatti fondamentali. Questa è dunque la rappresentazione del mondo che domina la coscienza occidentale: noi siamo stati e restiamo gli unici ad agire, e quindi gli unici da biasimare; gli altri, tutti gli altri, sono le nostre vittime, tutti innocenti».
Che effetti ci sono in questo modo di leggere e impostare la politica sul piano sociale e dei valori? Ovvero: esiste una cesura tra legittimo e illegittimo anche nei valori? E chi lo decide?
«Non lo so. La cosa più preoccupante, e che davvero minaccia il futuro, è che abbiamo gradualmente privato della sua legittimità il sistema politico sotto il quale continuiamo a vivere, ossia il sistema rappresentativo all’interno del quadro nazionale. Ci è stato tolto il diritto di prendere decisioni importanti su noi stessi, sulla forma che vorremmo dare alla nostra vita comune. Il confine che ci circoscrive è solo un incidente storico che non ha conseguenze politiche reali. Fare una differenza tra i cittadini del Paese delimitato da questo confine e gli esseri umani che vivono al di fuori di questo confine è sentito come essenzialmente ingiusto. Da qui lo strano dogma secondo cui la “preferenza nazionale” è un crimine contro l’umanità. Nessun gruppo umano, sia esso una coppia, una famiglia, un’azienda o una nazione, è concepibile senza un certo amor proprio, senza una certa “preferenza”. Questa “preferenza” non deve portare all’ingiustizia nei confronti di chi non appartiene al gruppo, ma il rifiuto di qualsiasi espressione di questa “preferenza” porta all’inevitabile e sempre più rapida scomparsa del gruppo. Ma l’opinione prevalente nei nostri Paesi ha deciso che l’unico modo che ci resta per diventare migliori è quello di scomparire».
La Francia sull’aborto va in cortocircuito: lo Stato si fa garante dell’autodistruzione
Se la cosa più preziosa che aveste fosse un’oliva e da essa dipendesse la salvezza vostra e delle persone che più amate, la gettereste mai al vento? O ancora, ve la fareste rubare e distruggere? Quell’oliva, nel tempo, infatti, vi potrebbe dare una ricchezza inimmaginabile, un intero prodigioso oliveto. Custodendo quell’oliva, in segreto, custodite perciò anche il successo di un’intera piantagione, la spremitura del prelibato frutto.
Non è un caso che proprio l’olio d’oliva nelle antiche civiltà greche e romane fosse molto più di un semplice condimento per pasti, bensì un simbolo di prosperità. Pare essere l’eterna filastrocca che suscita il malcontento sinistrorso per cui «per fare un albero occorre il seme, e per fare il seme occorre il frutto…» e così via a catena, ma la verità è che la difformità tra parola e realtà è divenuta, nella Francia europea, costituzionale. Locke, esponente del giusnaturalismo, osservava che sebbene la comunità civile «sia uno stato di libertà, tuttavia non è uno stato di licenza: sebbene in questo stato si abbia la libertà incontrollabile di disporre della propria persona e dei propri averi, tuttavia non si ha la libertà di distruggere né sé stessi né qualsiasi creatura in proprio possesso» (Due trattati sul governo, Utet, Torino 2010, pagina 231). Il padre del liberalismo inscriveva tra i diritti di natura proprio la «vita».
Ora, i 925 parlamentari francesi, deputati e senatori, consapevolmente o inconsapevolmente, indossata la maschera di velina della laïcité, hanno eretto a diritto il fatto di potere uccidere un altro essere umano rendendo pertanto ciò che diritto, diritto certamente non è. E non lo è per la sola ragione che il principio normativo, la conditio sine qua non che rende possibile a tali parlamentari di esprimersi, è esattamente ciò che loro stessi, consapevolmente o - nella migliore ipotesi - inconsapevolmente, hanno cancellato: la vita.
Nel suo discorso al Congresso il primo ministro Gabriel Attal definisce la politica come l’azione per «ostacolare la follia». Egli ricorda che nel 2014 Najat Vallaud-Belkacem aveva abolito la nozione di sofferenza come prerequisito per l’aborto. Dunque che cosa giustifica l’aborto in quanto atto medico? Quali le ragioni? Con l’aggiunta apportata all’articolo 34 della Costituzione francese viene ora riconosciuto il principio per cui una società ha tutto il sacrosanto e incontestabile diritto di autodistruggersi. E senza possibilità di obiezione di coscienza. Non vale perdersi in quisquiglie.
Non solo sono giustificabili le guerre, ma al Congresso, che a detta di Attal è divenuto «teatro di unità, gratitudine e scrittura di un destino comune», ora viene anche garantito quale diritto l’autodistruzione. E a farlo è proprio lo Stato, con il degradante pretesto del riscatto del «debito morale» di vite eliminate, nei drammi personali più inimmaginabili, debito che viene riscattato precisamente e macabramente con altri morti. Per fare eco al presidente Emmanuel Macron: «Fierezza francese, messaggio universale»? Quella che si respira è aria di morte, un festino insolito su corpi maciullati privi di bare bianche.
Una società che aspira alle tenebre. Come quella descritta nel celebre romanzo di David Mitchell, L’atlante delle nuvole, in cui i cittadini sono donne-schiave che vivono nella stratta osservanza della regola «Onora il tuo consumatore», il cosiddetto Primo Catechismo, la Costituzione del loro Paese. Tali donne trascorrono l’esistenza nutrendosi di sapone creato a loro insaputa dai cadaveri delle loro sorelle trapassate.
Già quarantanove anni fa la legge Veil assicurava la possibilità alle donne di abortire. Non è, dunque, qui a tema l’aborto, questione dibattuta, non da ultimo dallo stesso Dottore Angelico, ciò che inorridisce è che con l’articolo 34 così formulato lo Stato diventi garante della propria disintegrazione. Non solo la cultura necrofila europea si fa promotrice degli scontri armati, ma, andando a nozze con la morte, propone il suicidio quale principio di salvezza. Ma perché suicidio se a salvarsi è la donna che abortisce? Cosa accadrebbe, invero, se tutte le donne incinte, rivendicando un proprio diritto al pari del lavoro o della salute, decidessero di interrompere volontariamente la propria gravidanza? Si avrebbe la fine della società.
Inoltre è opportuno domandarsi: tutte quelle donne, invece, che decidono volontariamente di proseguire la gravidanza, in che modo potrebbero rivendicare il nuovo diritto definito «essenziale per le donne» dal ministro Attal? Un diritto costituzionale non deve forse valere per tutti? La decisione al Congresso propone realmente una «libertà garantita», o forse ciò che subdolamente si va a inserire è il principio di una libertà coercitiva in forza del diritto positivo?
*Direttore esecutivo
della European Society
for Moral Philosophy





