2019-03-23
«Regalate una cura a chi non può pagarla»
L'ad Luca Foresti racconta il progetto del Centro medico Santagostino di Milano: «Chiunque, versando da 10 a 30 euro, può donare una visita o una terapia a persone malate in difficoltà. Molti pazienti lo stanno facendo: in pochi mesi abbiamo già raccolto 24.000 euro»«Non esistono pazienti di serie A e pazienti di serie B. Tutti hanno diritto allo stesso tipo di cure. Questa è la logica alla base del progetto Un dono che cura». Sono le parole di Luca Foresti, 46 anni, amministratore delegato del Centro medico Santagostino, prima rete di poliambulatori specialistici in Italia a sperimentare un modello di sanità votato alla fusione di un'elevata qualità delle prestazioni con un'accessibilità delle tariffe. Estensione naturale di tal visione è la «visita sospesa», espressione impropria, seppur efficace, per tradurre l'iniziativa nata nel 2016 all'interno della struttura milanese grazie alla collaborazione con l'associazione Ascolto onlus. «Nonostante proponessimo già un tariffario calmierato per venire incontro alle esigenze della maggior parte delle famiglie», spiega Foresti, «ci siamo chiesti cosa potessimo fare per intercettare quelle fette di popolazione per le quali anche i nostri prezzi risultavano inaccessibili».Utilizzando il medesimo sistema filantropico del caffè sospeso nato a Napoli durante la Seconda guerra mondiale ed esportato sempre più oltreconfine (tanto da guadagnarsi una giornata dedicata, il 10 dicembre), l'iniziativa di Un dono che cura offre ai pazienti del Santagostino l'opportunità di regalare cure gratuite a chi non può permettersele. Si parte da 10 euro per donare una visita odontoiatrica, 17 per una seduta di psicoterapia, 21 per un trattamento fisioterapico, fino a un massimo di 30 euro per una visita ginecologica. Dai suoi esordi alla fine del 2018, Un dono che cura ha raccolto circa 24.000 euro, tra donazioni online o in ambulatorio e 5xMille. A questa somma si aggiungono un finanziamento di 20.000 euro stanziati nel 2017 da Fondazione Cariplo e un accordo solidale stretto con Unicredit. «Da loro riceviamo prestiti sui quali paghiamo degli interessi, la metà dei quali viene donata ad Ascolto. In questo modo, si innesca un meccanismo virtuoso in cui la banca contribuisce direttamente all'erogazione di prestazioni gratuite».Nella grande torta della solidarietà, sono Cariplo e Unicredit a garantire la fetta più consistente dei vostri finanziamenti?«Senza dubbio. Per ovvie ragioni di dimensioni. Centro medico Santagostino è grande, ma siamo ancora una realtà cittadina milanese contenuta rispetto ad altri progetti, come Emergency, che in termini di raccolta fondi hanno una copertura di proporzioni nazionali».Dalla nascita di Un dono che cura, i benefattori sono aumentati?«Decisamente. Migliaia di pazienti vengono nelle nostre sedi e la maggior parte delle donazioni, esclusi Cariplo e Unicredit, avviene attraverso le cassette presenti negli ambulatori. Se all'inizio viaggiavamo con una media di 200 euro a settimana, oggi le entrate sono raddoppiate».Qual è l'identikit del donatore tipo?«Donna, tra i 35 e i 40 anni. Per una ragione fondamentale: le donne fanno più prevenzione rispetto agli uomini».Sul fronte opposto, qual è stata, negli anni, la parabola delle prestazioni gratuite erogate?«Siamo passati da 60 pazienti nel 2017 a 55 nel 2018. Da gennaio, sono una trentina. Di questo passo, supereremo i numeri dell'anno scorso».Come vengono impiegati i soldi raccolti?«Sono interamente destinati alla retribuzione dei medici. Tutto il resto (attrezzature, costi amministrativi e degli spazi, comunicazione) è a carico nostro».Quanti sono gli specialisti a prestare servizio all'interno dei vostri ambulatori?«Attualmente sono 900. 25 quelli inseriti nel progetto Un dono che cura. Di questi, nessuno sa chi sono i pazienti paganti e chi invece arriva attraverso l'iniziativa. Ai loro occhi, sono tutti uguali». Una questione di riservatezza?«Anche. Ma il punto fondamentale è che “prestazione gratuita" non deve essere sinonimo di “prestazione scadente"».In fatto di reddito, quali sono le soglie che l'utente non deve oltrepassare per poter accedere al servizio gratuito?«Francamente? Non ci interessa. In un Paese dove l'evasione fiscale è alle stelle e i furbetti si annidano ovunque, qualsiasi tentativo di definire un parametro giusto presenta sempre delle eccezioni».E come fate a disinnescare le sortite degli imbroglioni?«Ci rivolgiamo ad associazioni come Caritas, Betania Onlus, Azione solidale e Asspi, le quali fanno da filtro e da garante per le persone che ci vengono segnalate. Le assicuro che il lavoro umano svolto da questi soggetti vale più della certificazione Isee».Qualcuno arriva anche tramite passaparola?«No. Capita che alcuni pazienti, dopo avere pagato regolarmente le visite per un periodo, chiedano di poter accedere a Un dono che cura per fatti accaduti nella loro vita personale. Di fronte a tali richieste, i nostri dipendenti sollecitano chi di dovere per valutare i singoli casi».Può fare un esempio?«Da tempo avevamo in cura un bambino con disturbi dell'apprendimento. Il suo era un percorso logopedico piuttosto lungo. La madre ci chiamò informandoci che il figlio avrebbe dovuto abbandonare perché sia lei che il marito avevano perso il lavoro. Dopo avere analizzato la situazione, il bimbo fu inserito nel protocollo».Qual è il rapporto italiani-stranieri di Un dono che cura?«Un 50 e 50, ma è un aspetto di cui non ci curiamo. Quando si parla di salute, si parla di esseri umani e basta».Secondo gli ultimi dati Istat, Milano è la capitale italiana del volontariato con oltre 240.000 soggetti attivi nell'area metropolitana. Proprio nel capoluogo Lombardo, all'inizio di marzo, si è tenuta una grande marcia antirazzista. Siamo un popolo intollerante?«Voglio rispondere a titolo strettamente personale, e non da amministratore delegato. Credo che la maggioranza degli italiani sia costituita da persone generose, disponibili ad aiutare chi ha bisogno. Dopodiché, credo che sui giornali si dia troppo poco risalto a quei 240.000 volontari: non fanno discutere».Senta, visitando il sito web di Ascolto Onlus spicca una grande attenzione per il supporto psicoterapeutico. Come mai?«Secondo una ricerca del National institute of mental health, un adulto su cinque soffre di disturbi mentali invalidanti: ansia, depressione, attacchi di panico. Poiché la psicoterapia standard costa agli utenti tra i 70 e i 100 euro a seduta, ci siamo fatti carico di coloro che non potevano permettersi simili cifre dotandoci di una psicoterapia di qualità che a noi costa 35 euro a seduta, ma per i pazienti di Un dono che cura è gratuita».È la tipologia di prestazione che erogate maggiormente?«Sì, assieme all'odontoiatria. Sono le due specialità in cui il Sistema sanitario nazionale fatica di più. La presa in carico di questi pazienti, per il pubblico, è troppo onerosa».Un percorso di psicoterapia può rivelarsi molto lungo. Riuscite a coprire un numero illimitato di sedute?«Compatibilmente col budget, sì. Se l'utente necessita di 3 mesi o di due anni, erogheremo il servizio adeguato. È il bisogno clinico a governare tutto il resto. Così facendo, inoltre, allarghiamo il mercato aumentando l'attività degli psicoterapeuti, molti dei quali sono a spasso, essendo la produzione di professionisti più alta della domanda. Mi creda, è sorprendente come una semplice visita gratuita possa agire sulla personalità degli individui. A volte, reinserendoli perfino nella società».Ricorda un caso in particolare?«Un ragazzo emiliano, con madre disabile a carico, che nel 2017 era rimasto senza lavoro e da gennaio 2018 non percepiva più l'assegno di disoccupazione. Venne da noi perché aveva alcuni denti spezzati: esteticamente, il danno era tale da impedirgli di trovare un impiego. Grazie alle cure, ottenne un posto e smise di prendere gli antidepressivi che la disperazione lo aveva spinto ad assumere».Per quella che è la sua esperienza, si può dire che abbiamo una Sanità pubblica che funziona?«In Italia, abbiamo forse il miglior sistema sanitario al mondo per i cosiddetti acuti, coloro che si recano in ospedale. Se hai un problema al cuore e hai bisogno di un intervento, Milano è il posto migliore in cui tu possa trovarti. Il grosso problema è nella gestione dei malati cronici e nel finanziamento. Dal 2008, abbiamo un finanziamento pubblico della sanità che è piatto, all'incirca 113 miliardi di euro. Il punto è che, ogni anno, l'aspettativa media di vita si allunga di due mesi e mezzo, 12.000 medici vanno in pensione e dalle università ne escono 7.000. Un gap di 5.000 professionisti l'anno. Questa situazione è drammatica perché gli ospedali cominciano a presentare un deficit di risorse umane a disposizione».Qual è la soluzione?(Sorride) «Domanda da 1 milione di dollari. Sicuramente, aumentare il numero dei medici allargando le iscrizioni universitarie e le borse di specialità. Cosa relativamente semplice, se non fosse per i medici in buona parte contrari per ragioni di domanda e offerta. Ci vorrebbe inoltre un empowerment degli infermieri: l'Italia è tra i paesi in cui gli infermieri fanno di meno. Non perché non vogliano, ma perché vige un sistema medicocentrico. Un'altra questione è quella della remunerazione. Oggi, pubblici e privati vengono pagati a prestazione. Ciò pone in conflitto di interessi il paziente e l'erogatore, perché più eroghi e più guadagni, mentre l'obbiettivo cui tendere sarebbe erogare il meno possibile: significherebbe che le persone stanno bene. Per fare ciò, bisogna passare a un modello di remunerazione “per capita", dove il medico viene pagato per il semplice fatto di avere in carico un paziente. Questo è un sistema di remunerazione già provato in altre parti del mondo (lo stesso utilizzato in Italia per i medici di base), che funziona nettamente meglio».
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