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2022-02-19
Pnrr a rischio paralisi, ci mettono un cerotto
Mario Draghi (Ansa)
Il Consiglio dei ministri ha approvato senza particolari sorprese il decreto energia. Stanziati in tutto 8 miliardi di cui 5,8 contro i rincari delle bollette. Mario Draghi ha sostanzialmente riconfermato le misure decise nei mesi precedenti, aggiungendo una visione di medio e lungo termine, che ha come obiettivo principale una maggiore produzione interna di gas, per poi venderla a un prezzo calmierato. Il decreto si occupa della revisione dei modelli per gli impianti delle rinnovabili anche nelle aree agricole, così come della semplificazione della burocrazia connessa agli impianti. Ottima cosa, va detto, anche se non sarebbe stato necessario attendere una crisi di tale portata per aiutare in modo trasparente gli investitori.
Da sottolineare però come questi ultimi interventi non potranno aiutare in alcun modo nell’immediato le imprese e le famiglie italiane, che sono alle prese con la peggiore crisi mai sperimentata dopo gli anni Settanta. Nel breve termine l’idea è quella di azzerare, per le utenze domestiche e non in bassa tensione (fino a 16,5 kilowattora) gli oneri di sistema anche per il secondo trimestre dell’anno. «A tal fine, sono trasferite alla Cassa per i servizi energetici e ambientali, entro il 31 maggio 2022, ulteriori risorse pari a 1,8 miliardi», si legge dal testo della bozza del decreto. L’annullamento degli oneri di sistema è stato applicato anche alle utenze con potenza superiore a 16,5 kilowattora. Per questo obiettivo sono invece stati trasferiti alla Cassa, entro il 31 maggio 2022, altri 1,2 miliardi. Interventi sono stati decisi anche per quanto riguarda il settore del gas. In questo caso la somministrazione di gas metano usato per usi civili e industriali è assoggettata a un’aliquota Iva del 5%. Il cdm ha anche deciso, per cercare di contenere i costi nel secondo trimestre dell’anno, di ridurre le aliquote relative agli oneri generali di sistema. Spazio è stato dato anche ai vari bonus energia e gas che sono stati rafforzati: il principale riguarda 4.000 aziende circa. Alle imprese energivore è stato confermato il contributo straordinario a parziale compensazione dei maggiori oneri sostenuti sotto forma di credito di imposta, pari al 20% delle spese per le bollette.
Insomma, la maggioranza di governo si è detta felice dell’intervento di ieri. Evidentemente nessuno in questo momento vuole aprire il fronte scostamento di bilancio. Matteo Salvini ha festeggiato l’esito, eppure soltanto giovedì Giancarlo Giorgetti, ministro dello Sviluppo economico, aveva fatto presente che i 6 miliardi a cui si aggiungono incentivi per l’automotive e sostegni per i Comuni in difficoltà non sarebbero stati sufficienti. Da un lato riferendosi al fatto che il decreto avrebbe spinto anche misure di lungo termine soprattutto nel comparto del gas, dall’altro al fatto che lo scostamento tanto non si sarebbe potuto fare. Le dichiarazioni di Giorgetti hanno per giunta ricalcato l’intervento di Daniele Franco in Aula. La scorsa settimana il titolare di Via XX Settembre aveva ricordato che senza scostamento non ci sarebbero stati particolari margini di intervento. Così, nonostante ieri in conferenza stampa il ministro dell’Economia abbia tenuto a precisare il buono stato dei nostri conti, dal decreto, almeno nella bozza visionata ieri, emerge un alert non da poco. Dal momento che riguarda la messa a terra del Pnrr, il Piano nazionale di ripresa e resilienza. L’inflazione galoppa non solo per le bollette, ovviamente. Tant’è che nei giorni scorsi anche il governo ha espresso preoccupazione per il futuro dei cantieri e dei progetti approvati dall’Ue. I fondi previsti per costruire l’alta velocità, ad esempio, stanziati a inizio aprile quando il Recovery plan italiano è stato inviato a Bruxelles, potrebbero non bastare più per terminare le opere. I dati più recenti, che presto saranno aggiornati, sono quelli pubblicati dal ministero dei Trasporti sul primo semestre del 2021: i tondini di ferro del cemento armato sono rincarati del 44%, i laminati in acciaio del 48, i binari ferroviari del 31. E da allora i prezzi sono saliti ancora più in alto, come ha certificato l’Ance, l’associazione dei costruttori, che ha misurato nella seconda metà del 2021 rialzi per i tondini dell’80% e per l’acciaio necessario per i ponti addirittura del 130.
Il ministro Enrico Giovannini ha rilasciato la scorsa settimana una intervista lunare garantendo che l’inflazione l’avrebbe riassorbita lo Stato. Al di là dell’assurdità in sé, il titolare dei Trasporti suggeriva che le varie stazioni appaltanti avrebbero garantito extra budget per aiutare le imprese. Alla domanda quanto?, ecco la risposta: «Si vedrà». Ecco ieri nel decreto è arrivata l’entità del salvagente. L’articolo 26 prevede a sostegno dei cantieri soltanto 100 milioni di euro. Se si pensa che le stime spannometriche degli aumenti si avvicinano ai 10 miliardi, si comprende quanto sia stata lunare l’intervista di Giovannini e, al tempo stesso, quanto stiamo rischiando con il Pnrr. Se salta il gioco ci resta solo il debito che ripagheremo due volte. Sotto forma di «cedole» e sotto forma di inflazione. A quel punto il caro bollette sarà un piacevole ricordo. Sarà forse il caso di trovare un piano B e magari cercare di lasciare libere le imprese private affinché tornino a generare Pil e ricchezza. L’unica in grado di sostenere il Paese. Non crediamo nei sussidi né nell’elemosina.
Draghi bacchetta ancora i partiti: «Bisogna tenere la barra dritta»
«Avete visto che bravi ministri che ho? È un bellissimo governo», ha detto ieri sorridendo Mario Draghi durante la conferenza stampa tenuta insieme con il ministro dell’Economia, Daniele Franco, quello della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, e quello dello Sviluppo economico, Giancarlo Giorgetti. Un «bellissimo governo» sostenuto però da una maggioranza che mercoledì notte si è spaccata sugli emendamenti al Milleproroghe (per il quale verrà infatti posta la fiducia alla Camera lunedì). Un «bellissimo governo» che litiga spesso fuori dalle sale di Palazzo Chigi. «Pensa che queste divergenze si possano superare? Pensa di vedere i leader dei partiti affrontare questo problema?», gli ha dunque chiesto una giornalista. «Sì, vedrò i leader, ma non devo fare uno sforzo particolare, il colloquio con loro è continuo», ha risposto il premier spiegando che giovedì ha «ricordato quello che è il mandato del governo, creato dal presidente della Repubblica, per affrontare certe emergenze e conseguire certi risultati. Con il massimo rispetto ho detto le cose che ho detto» e «non può che essere così. Il governo e io abbiamo sempre offerto la massima disponibilità. Possiamo rivedere le modalità di confronto, ma teniamo dritta la barra del timone». Alla conferenza stampa di ieri, dopo il cdm che ha approvato il dl bollette e il decreto anti frodi sul Superbonus, anche Giorgetti è stato chiamato in causa con una domanda politica.
Al ministro leghista è stato chiesto se si fidasse del leader del Carroccio, Matteo Salvini, visto che ogni settimana esprime critiche sui provvedimenti approvati anche dai suoi uomini. «L’importante è che il Parlamento migliori le proposte del governo e non le peggiori. L’attività del Parlamento va rispettata. La politica è l’arte di rendere possibile ciò che è desiderabile, il mio segretario esprime un desiderio, io cerco di interpretarlo e di renderlo possibile nell’attività di governo», ha risposto Giorgetti.
Un altro tema che accende il confronto interno alla maggioranza è quello del green pass e delle restrizioni. Il colpo accusato da molte attività economiche per i rincari sulle bollette è ancora più duro da sopportare perché aggravato dalle conseguenze delle chiusure, o pseudo riaperture, determinate dalla cautele pandemiche. Considerato che l’Italia è uno tra i Paesi che ha adottato le misure più restrittive, il governo ha stimato i danni derivanti agli imprenditori da un regime limitativo di cui non è stata ancora fornita un’adeguata spiegazione scientifica, soprattutto in termini di proporzionalità rispetto al rischio? La Verità ha posto la domanda a Draghi che ha però dato una risposta un po’ evasiva: «Le misure sono state prese con l’opinione degli scienziati che hanno seguito la pandemia, non sono politici che si sono inventati esperti ma scienziati che ci hanno sempre consigliato. Se usciamo così dalla pandemia è perché ci siamo vaccinati. L’Italia ha preso dei provvedimenti necessari per contenere il contagio e ci è riuscita», ha detto il presidente del Consiglio.
Quanto agli aiuti alle aziende, «la stima dell’impatto c’è e ha aiutato il governo a occuparsi dei ristori», ha aggiunto. «C’è il turismo, dobbiamo iniziare a pensare in modo proattivo: stiamo uscendo dalla fase di difesa. Ad esempio gli alberghi delle grandi città sono fra i più colpiti perché il turismo non ha ripreso lì. Abbiamo in mente tante cose, non è finito il compito». Resta da capire quali siano le evidenze scientifiche di certe misure. E quali siano i documenti scientifici in base ai quali il governo ha fondato le sue scelte. Gli Stati che hanno riaperto di più non si basano sulla scienza? E cosa c’entrano le vaccinazioni con le chiusure delle attività economiche? Perché se abbiamo vaccinato di più e più in fretta di altri continuiamo ad avere più restrizioni degli altri? Questo, Draghi, ieri non lo ha spiegato. Ha solo assicurato di voler uscire «il più presto possibile» dall’emergenza e di voler «limitare le restrizioni». Senza però avere ancora una road map specifica, «ma è questione di giorni in modo da eliminare ogni incertezza per le famiglie e le imprese». Speriamo.
Nel frattempo, incombe la crisi Ucraina. Draghi volerà presto a Mosca per un incontro con il presidente russo Vladimir Putin. «Non c’è una data, ma dovrebbe essere a breve. Il colloquio è stato richiesto da Putin», ha precisato ieri. «La cosa importante è che l’atteggiamento dell’Italia e degli altri alleati» dimostri «l’unità che c’è tra membri della Nato». Quanto alle eventuali sanzioni alla Russia, secondo Draghi «devono essere il più possibile ristrette, senza comprendere l’energia, che abbiano una applicazione proporzionata al tipo di attacco e che non siano sanzioni preventive». Al momento una valutazione «sull’impatto quantitativo» ancora non c’è ma «tutte le sanzioni che impattano indirettamente su mercato energetico impattano di più sul Paese che importa più gas. E l’Italia ha solo il gas, non ha il nucleare e il carbone ed è più esposta». Per questo «si sta anche studiando come l’Italia possa continuare a essere approvvigionata da altre fonti se dovessero venire meno quelle dalla Russia», ha aggiunto.
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In cdm 8 miliardi (senza scostamento) per caro energia e auto. Esplode la grana Recovery: fondi d’emergenza per evitare il blocco dei cantieri. Il premier smorza le tensioni: «Esecutivo bellissimo, terremo la barra dritta».Lo speciale comprende due articoli.Il Consiglio dei ministri ha approvato senza particolari sorprese il decreto energia. Stanziati in tutto 8 miliardi di cui 5,8 contro i rincari delle bollette. Mario Draghi ha sostanzialmente riconfermato le misure decise nei mesi precedenti, aggiungendo una visione di medio e lungo termine, che ha come obiettivo principale una maggiore produzione interna di gas, per poi venderla a un prezzo calmierato. Il decreto si occupa della revisione dei modelli per gli impianti delle rinnovabili anche nelle aree agricole, così come della semplificazione della burocrazia connessa agli impianti. Ottima cosa, va detto, anche se non sarebbe stato necessario attendere una crisi di tale portata per aiutare in modo trasparente gli investitori. Da sottolineare però come questi ultimi interventi non potranno aiutare in alcun modo nell’immediato le imprese e le famiglie italiane, che sono alle prese con la peggiore crisi mai sperimentata dopo gli anni Settanta. Nel breve termine l’idea è quella di azzerare, per le utenze domestiche e non in bassa tensione (fino a 16,5 kilowattora) gli oneri di sistema anche per il secondo trimestre dell’anno. «A tal fine, sono trasferite alla Cassa per i servizi energetici e ambientali, entro il 31 maggio 2022, ulteriori risorse pari a 1,8 miliardi», si legge dal testo della bozza del decreto. L’annullamento degli oneri di sistema è stato applicato anche alle utenze con potenza superiore a 16,5 kilowattora. Per questo obiettivo sono invece stati trasferiti alla Cassa, entro il 31 maggio 2022, altri 1,2 miliardi. Interventi sono stati decisi anche per quanto riguarda il settore del gas. In questo caso la somministrazione di gas metano usato per usi civili e industriali è assoggettata a un’aliquota Iva del 5%. Il cdm ha anche deciso, per cercare di contenere i costi nel secondo trimestre dell’anno, di ridurre le aliquote relative agli oneri generali di sistema. Spazio è stato dato anche ai vari bonus energia e gas che sono stati rafforzati: il principale riguarda 4.000 aziende circa. Alle imprese energivore è stato confermato il contributo straordinario a parziale compensazione dei maggiori oneri sostenuti sotto forma di credito di imposta, pari al 20% delle spese per le bollette. Insomma, la maggioranza di governo si è detta felice dell’intervento di ieri. Evidentemente nessuno in questo momento vuole aprire il fronte scostamento di bilancio. Matteo Salvini ha festeggiato l’esito, eppure soltanto giovedì Giancarlo Giorgetti, ministro dello Sviluppo economico, aveva fatto presente che i 6 miliardi a cui si aggiungono incentivi per l’automotive e sostegni per i Comuni in difficoltà non sarebbero stati sufficienti. Da un lato riferendosi al fatto che il decreto avrebbe spinto anche misure di lungo termine soprattutto nel comparto del gas, dall’altro al fatto che lo scostamento tanto non si sarebbe potuto fare. Le dichiarazioni di Giorgetti hanno per giunta ricalcato l’intervento di Daniele Franco in Aula. La scorsa settimana il titolare di Via XX Settembre aveva ricordato che senza scostamento non ci sarebbero stati particolari margini di intervento. Così, nonostante ieri in conferenza stampa il ministro dell’Economia abbia tenuto a precisare il buono stato dei nostri conti, dal decreto, almeno nella bozza visionata ieri, emerge un alert non da poco. Dal momento che riguarda la messa a terra del Pnrr, il Piano nazionale di ripresa e resilienza. L’inflazione galoppa non solo per le bollette, ovviamente. Tant’è che nei giorni scorsi anche il governo ha espresso preoccupazione per il futuro dei cantieri e dei progetti approvati dall’Ue. I fondi previsti per costruire l’alta velocità, ad esempio, stanziati a inizio aprile quando il Recovery plan italiano è stato inviato a Bruxelles, potrebbero non bastare più per terminare le opere. I dati più recenti, che presto saranno aggiornati, sono quelli pubblicati dal ministero dei Trasporti sul primo semestre del 2021: i tondini di ferro del cemento armato sono rincarati del 44%, i laminati in acciaio del 48, i binari ferroviari del 31. E da allora i prezzi sono saliti ancora più in alto, come ha certificato l’Ance, l’associazione dei costruttori, che ha misurato nella seconda metà del 2021 rialzi per i tondini dell’80% e per l’acciaio necessario per i ponti addirittura del 130. Il ministro Enrico Giovannini ha rilasciato la scorsa settimana una intervista lunare garantendo che l’inflazione l’avrebbe riassorbita lo Stato. Al di là dell’assurdità in sé, il titolare dei Trasporti suggeriva che le varie stazioni appaltanti avrebbero garantito extra budget per aiutare le imprese. Alla domanda quanto?, ecco la risposta: «Si vedrà». Ecco ieri nel decreto è arrivata l’entità del salvagente. L’articolo 26 prevede a sostegno dei cantieri soltanto 100 milioni di euro. Se si pensa che le stime spannometriche degli aumenti si avvicinano ai 10 miliardi, si comprende quanto sia stata lunare l’intervista di Giovannini e, al tempo stesso, quanto stiamo rischiando con il Pnrr. Se salta il gioco ci resta solo il debito che ripagheremo due volte. Sotto forma di «cedole» e sotto forma di inflazione. A quel punto il caro bollette sarà un piacevole ricordo. Sarà forse il caso di trovare un piano B e magari cercare di lasciare libere le imprese private affinché tornino a generare Pil e ricchezza. L’unica in grado di sostenere il Paese. Non crediamo nei sussidi né nell’elemosina.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/recovery-a-rischio-paralisi-solo-100-milioni-al-salvagente-per-i-cantieri-pubblici-2656725717.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="draghi-bacchetta-ancora-i-partiti-bisogna-tenere-la-barra-dritta" data-post-id="2656725717" data-published-at="1645229107" data-use-pagination="False"> Draghi bacchetta ancora i partiti: «Bisogna tenere la barra dritta» «Avete visto che bravi ministri che ho? È un bellissimo governo», ha detto ieri sorridendo Mario Draghi durante la conferenza stampa tenuta insieme con il ministro dell’Economia, Daniele Franco, quello della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, e quello dello Sviluppo economico, Giancarlo Giorgetti. Un «bellissimo governo» sostenuto però da una maggioranza che mercoledì notte si è spaccata sugli emendamenti al Milleproroghe (per il quale verrà infatti posta la fiducia alla Camera lunedì). Un «bellissimo governo» che litiga spesso fuori dalle sale di Palazzo Chigi. «Pensa che queste divergenze si possano superare? Pensa di vedere i leader dei partiti affrontare questo problema?», gli ha dunque chiesto una giornalista. «Sì, vedrò i leader, ma non devo fare uno sforzo particolare, il colloquio con loro è continuo», ha risposto il premier spiegando che giovedì ha «ricordato quello che è il mandato del governo, creato dal presidente della Repubblica, per affrontare certe emergenze e conseguire certi risultati. Con il massimo rispetto ho detto le cose che ho detto» e «non può che essere così. Il governo e io abbiamo sempre offerto la massima disponibilità. Possiamo rivedere le modalità di confronto, ma teniamo dritta la barra del timone». Alla conferenza stampa di ieri, dopo il cdm che ha approvato il dl bollette e il decreto anti frodi sul Superbonus, anche Giorgetti è stato chiamato in causa con una domanda politica. Al ministro leghista è stato chiesto se si fidasse del leader del Carroccio, Matteo Salvini, visto che ogni settimana esprime critiche sui provvedimenti approvati anche dai suoi uomini. «L’importante è che il Parlamento migliori le proposte del governo e non le peggiori. L’attività del Parlamento va rispettata. La politica è l’arte di rendere possibile ciò che è desiderabile, il mio segretario esprime un desiderio, io cerco di interpretarlo e di renderlo possibile nell’attività di governo», ha risposto Giorgetti. Un altro tema che accende il confronto interno alla maggioranza è quello del green pass e delle restrizioni. Il colpo accusato da molte attività economiche per i rincari sulle bollette è ancora più duro da sopportare perché aggravato dalle conseguenze delle chiusure, o pseudo riaperture, determinate dalla cautele pandemiche. Considerato che l’Italia è uno tra i Paesi che ha adottato le misure più restrittive, il governo ha stimato i danni derivanti agli imprenditori da un regime limitativo di cui non è stata ancora fornita un’adeguata spiegazione scientifica, soprattutto in termini di proporzionalità rispetto al rischio? La Verità ha posto la domanda a Draghi che ha però dato una risposta un po’ evasiva: «Le misure sono state prese con l’opinione degli scienziati che hanno seguito la pandemia, non sono politici che si sono inventati esperti ma scienziati che ci hanno sempre consigliato. Se usciamo così dalla pandemia è perché ci siamo vaccinati. L’Italia ha preso dei provvedimenti necessari per contenere il contagio e ci è riuscita», ha detto il presidente del Consiglio. Quanto agli aiuti alle aziende, «la stima dell’impatto c’è e ha aiutato il governo a occuparsi dei ristori», ha aggiunto. «C’è il turismo, dobbiamo iniziare a pensare in modo proattivo: stiamo uscendo dalla fase di difesa. Ad esempio gli alberghi delle grandi città sono fra i più colpiti perché il turismo non ha ripreso lì. Abbiamo in mente tante cose, non è finito il compito». Resta da capire quali siano le evidenze scientifiche di certe misure. E quali siano i documenti scientifici in base ai quali il governo ha fondato le sue scelte. Gli Stati che hanno riaperto di più non si basano sulla scienza? E cosa c’entrano le vaccinazioni con le chiusure delle attività economiche? Perché se abbiamo vaccinato di più e più in fretta di altri continuiamo ad avere più restrizioni degli altri? Questo, Draghi, ieri non lo ha spiegato. Ha solo assicurato di voler uscire «il più presto possibile» dall’emergenza e di voler «limitare le restrizioni». Senza però avere ancora una road map specifica, «ma è questione di giorni in modo da eliminare ogni incertezza per le famiglie e le imprese». Speriamo. Nel frattempo, incombe la crisi Ucraina. Draghi volerà presto a Mosca per un incontro con il presidente russo Vladimir Putin. «Non c’è una data, ma dovrebbe essere a breve. Il colloquio è stato richiesto da Putin», ha precisato ieri. «La cosa importante è che l’atteggiamento dell’Italia e degli altri alleati» dimostri «l’unità che c’è tra membri della Nato». Quanto alle eventuali sanzioni alla Russia, secondo Draghi «devono essere il più possibile ristrette, senza comprendere l’energia, che abbiano una applicazione proporzionata al tipo di attacco e che non siano sanzioni preventive». Al momento una valutazione «sull’impatto quantitativo» ancora non c’è ma «tutte le sanzioni che impattano indirettamente su mercato energetico impattano di più sul Paese che importa più gas. E l’Italia ha solo il gas, non ha il nucleare e il carbone ed è più esposta». Per questo «si sta anche studiando come l’Italia possa continuare a essere approvvigionata da altre fonti se dovessero venire meno quelle dalla Russia», ha aggiunto.
Roberto Speranza (Ansa)
Sull’edizione del 7 marzo del 2023, Francesco Borgonovo riportava un eloquente scambio di messaggi tra l’allora presidente dell’Iss, Silvio Brusaferro, e il ministro Roberto Speranza, che si esprimeva così: «Dobbiamo chiudere le scuole. Ne sono sempre più convinto». Ma il giorno seguente Brusaferro notava: «Per chiusura scuola Cts critico». E il ministro incalzava: «Così ci mandate a sbattere». Dopo una serie di ulteriori scambi, Brusaferro cedeva: «Va bene. Domani bisognerà pensare a illustrare come il parere riporti principi ed elementi di letteratura e modellistica lasciando al Consiglio dei ministri le scelte». Tradotto: prima si prendeva la decisione, poi si trovava l’appiglio «scientifico».
L’audizione di Miozzo appare indubitabilmente sincera. L’esperto sottolinea il contesto emergenziale in cui agivano i commissari, mettendo in guardia dai «Soloni del senno di poi». Parla del Cts come punto di riferimento «mitologico», «di fatto chiamato a rispondere a qualsiasi tipo di richiesta e necessità» che «di sanitario avevano ben poco: la distanza tra i tavoli nei ristoranti, il numero di passeggeri all’interno di un autobus, la distanza tra i banchi di scuola». «Che ci azzeccavo io, medico esperto di emergenze internazionali, con la distanza degli ombrelloni al mare?», osserva. «Eppure dovevamo dare un’indicazione, che alla fine, in un modo o nell’altro, veniva fuori con l’intelligenza, con il buonsenso, con la lettura che di volta in volta si faceva del contesto nazionale e internazionale». Dato il vuoto decisionale, in buona sostanza, il Cts si è dovuto far carico di una serie di questioni lontane dalla sua competenza. E sbaglia, spiega Miozzo, chi ci ha visto un «generatore di norme, di leggi, di indirizzi e di potere decisionale, cosa che assolutamente non ha mai avuto»: «Quello che il Comitato elaborava come indicazioni tecnico-scientifiche era offerto al governo, che lo doveva tradurre in atti normativi». L’equivoco si verificò solo perché alcuni passaggi venivano copiati tali e quali nelle leggi.
Miozzo ribadisce a più riprese che il Cts forniva solo pareri sulla base di assunti scientifici necessariamente - visto il contesto - in divenire. La dinamica, però, appare chiaramente invertita: se un organo subisce pressioni politiche (fatto testimoniato sopra) e viene interpellato su questioni che esulano dalle proprie competenze, è perché esso viene usato per sottrarre decisioni politiche al dibattito democratico. Una strategia che non riguarda solo il Covid: in pandemia ha conosciuto il suo culmine, ma è iniziata ben prima e proseguita ben dopo: l’ideologia green ne è una dimostrazione plastica. E anche il prezzo di queste scelte scellerate, per usare le parole di Miozzo, lo abbiamo pagato e lo pagheremo ancora in futuro. Se si parla tanto di Covid, in fondo, è puramente per una questione di metodo.
Miozzo avanza almeno un’altra considerazione degna di nota quando spiega che il piano pandemico del 2006 era una «lettera morta negli archivi della nostra amministrazione». Nessuno lo conosceva, «non era mai stata fatta un’esercitazione e non era stato fatto l’acquisto di beni di pronto soccorso e di Dpi. Non c’era nulla». Una responsabilità che imputa ai ministri precedenti e non a Speranza. Ai fini del buon funzionamento della democrazia, è fondamentale stabilire le responsabilità: a tagliare i fondi alla sanità per un decennio, in nome di una presunta austerità espansiva richiesta dall’«Europa», sono stati governi sostenuti dalla sinistra che oggi bercia contro l’attuale esecutivo. Lo dicono i dati, lo raccontano le condizioni in cui ci siamo trovati ad affrontare la pandemia. Almeno e limitatamente all’impreparazione del piano pandemico, possiamo anche assolvere Speranza. Ma non possiamo assolvere il Partito democratico dall’aver ucciso la sanità italiana.
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A mettere nero su bianco qualche dato in grado di smontare le ultime illusioni sui vantaggi del motore a batteria, è l’Adiconsum che periodicamente fa un report sull’andamento delle tariffe di ricarica. Lo stato dell’infrastruttura è ancora carente. I punti di ricarica sono 70.272 di cui un 10% non è attivo. La maggioranza dei punti (53.000) è in corrente alternata (Ac) con potenza inferiore a 50 Kw mentre le ricariche ultra veloci sono meno di 5.000. Intraprendere un percorso in autostrada è da temerari: la copertura delle aree di servizio è ancora al 48% e ci sono solo 1.274 punti. Essere a secco di elettricità e beccare un paio di stazioni di servizio sprovviste di colonnine apre scenari da incubo. Quindi, nella pianificazione di un percorso, bisognerebbe anche avere contezza della distribuzione delle ricariche.
Ma veniamo ai costi. Il prezzo unico nazionale a novembre scorso era pari a 0,117 euro il Kwh, in aumento del 5% rispetto a ottobre 2025. I prezzi medi alla colonnina sono per la Ac (lenta e accelerata) di 0,63 euro al Kwh (in aumento di 1 centesimo rispetto a ottobre), per la veloce (Dc) di 0,75 euro /Kwh (+1 centesimo rispetto a ottobre) e per la ultra veloce (Hpc) di 0,76 euro/kwh (stazionario). Per le tariffe medie massime si arriva a 0,83 per ricariche Ac, 0,82 per la Dc e 1,01 per Hpc.
Il report di Adiconsum fa un confronto con i carburanti fossili e evidenza che la parità di costo con benzina e diesel si attesta mediamente tra 0,60 e 0,65 euro/kwh. Ma molte tariffe medie attuali, superano questa soglia di convenienza.
Inoltre esistono forti divergenze tra i prezzi minimi e massimi che nella ricarica ultra veloce possono arrivare fino a 1,01 euro /Kwh. L’associazione dei consumatori segnala tra le tariffe più convenienti per la Ac, Emobility (0,25 euro/Kwh) per la Dc, Evdc in roaming su Enel X Way (0,45 euro/Kwh) e per l’alta potenza, la Tesla Supercharger (0,32 euro/Kwh). La conclusione del report è che c’è un rincaro, anche se lieve delle ricariche più diffuse ovvero Ac e Dc e il consiglio dell’Adiconsum, è che a fronte dell’alta variabilità dei prezzi è fondamentale utilizzare le app dedicate per verificare quale operatore offre il prezzo più basso sulla singola colonnina.
Questo vuol dire che mentre all’estero, come ad esempio in Germania, si fa il pieno utilizzando semplicemente il bancomat o la carta di credito, come al self service dei distributori, in Italia bisogna scaricare una infinità di app, a seconda del fornitore o del gestore, con la complicazione delle informazioni di pagamento e della registrazione. Chi ha la ventura (o sventura) di aver scelto una full electric, deve fare la gimcana tra le varie app, studiando con la comparazione, la soluzione più vantaggiosa. Un bello stress.
Secondo i dati più recenti di Eurostat e Switcher.ie, mentre la media europea per un pieno si attesta intorno a 14 euro, in Italia la spesa media sale a circa 20,30 euro. Nel nostro Paese, come detto prima, la media di ricarica Ac è di 0,63 euro /Kwh, in Francia e Spagna si scende sotto gli 0,45-0,50 euro /Kwh. La ricarica ultra rapida che nelle nostre colonnine è di media 0,76 euro/Kwh con picchi sopra 1 euro, in Francia si mantiene mediamente intorno a 0,60 euro/Kwh. Il costo dell’energia all’ingrosso in Italia è tra i più alti d’Europa, inoltra l’Iva e le accise sull’energia elettrica ad uso di ricarica pubblica sono meno agevolate rispetto alla Francia dove l’Iva è al 5,5%. Inoltre l’Italia non prevede riduzioni degli oneri di sistema per le infrastrutture ad alta potenza.
C’è un altro elemento di divergenza tra l’Italia e il resto dell’Europa che non incentiva l’acquisto di un’auto elettrica, ed è la metodologia del pagamento. Il nostro Paese è il regno delle app e degli abbonamenti. La ricarica «spontanea» (senza registrazione) è rara e spesso molto costosa. In paesi come Olanda, Danimarca e Germania, il pieno è gestito più come un servizio di pubblica utilità «al volo». Con il regolamento europeo Afir, nel 2025 è diventato obbligatorio per le nuove colonnine fast permettere il pagamento con carta di credito/debito tramite Pos. In Nord Europa questa pratica è già la norma, riducendo la necessità di avere dieci app diverse sul telefono. Inoltre in Paesi tecnologicamente avanzati (Norvegia, Germania), è molto diffuso il sistema Plug & Charge: colleghi il cavo e l’auto comunica direttamente con la colonnina per il pagamento, senza bisogno di tessere o smartphone. In Italia, questa tecnologia è limitata quasi esclusivamente alla rete Tesla.
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Massimo Giannini (Ansa)
Se a destra la manifestazione dell’indipendenza di pensiero ha prodotto sconcerto e un filo d’irritazione, a sinistra ha causato brividi di sconcerto e profondo stupore. Particolarmente emozionato Massimo Giannini di Repubblica, il quale ha intuito di aver assistito a qualcosa di importante ma non ha capito bene di che si tratti. Il noto editorialista ieri ha pensato di parassitare il pensiero di Veneziani e di aggrapparsi ai commenti di altre voci libere come Mario Giordano, Franco Cardini e Giordano Bruno Guerri per sputare un po' di veleno sul governo. «Se rimettiamo insieme le parole e le opere della premier e della sua milizia», ha scritto Giannini, «qual è la svolta culturale che segna il cambio d’epoca? La Ducia Maior: qualche frasetta sciolta di Roger Scruton in Parlamento, qualche citazione a caso di Thomas Eliot al meeting di Rimini. I gerarchi minori: qualche intemerata su Peppa Pig da Mollicone, qualche pièce teatrale di Mellone. Per il resto, fuffa ideologica e poltronificio».
Liquidati i nemici politici, Giannini si è messo a parlare della sinistra, e lo ha fatto secondo il più classico copione della rampogna progressista. Funziona così: prima si ribadisce l’inevitabile superiorità morale, poi si finge di avanzare una critica per dimostrare d’essere fedelissimi ma pure un po' pensosi. «Nonostante le disfatte elettorali, la rive gauche è ancora popolata di scrittori e attori, registi e opinionisti», dice Giannini. «Ma con due differenze fondamentali rispetto all’altra sponda. La prima è che nessuno li alleva: non c’è più il Pci di Berlinguer, che organizzava gli stati generali della cultura convocando intellettuali di ogni ordine e grado. La seconda è che nessuno li criminalizza: se di qua sono di casa la critica distruttiva al Pd e la satira abrasiva sul campo largo, di là non capita mai nulla di simile».
A ben vedere, sono false entrambe le affermazioni. Vero che non esiste più il Pci con la sua cultura d’apparato, ma è vero pure che a intrupparsi i creativi sinistrorsi ci pensano da soli, seguendo alla lettera le indicazioni di un comitato centrale evanescente ma sempre autoritario che si è incistato nei loro cervelli: fedeli alla linea anche quando la linea non c’è. E infatti non appena qualcuno esce dal seminato, subito i rimasugli del progressismo intellettuale lo crocifiggono in sala mensa. Che si tratti di Massimo Cacciari, Giorgio Agamben, Carlo Rovelli, Lucio Caracciolo, Angelo D’Orsi, Luca Ricolfi o altri venerati maestri, poco importa: chi tradisce la paga cara, e solo dopo appropriata quarantena può tornare a dirsi presentabile.
Ed è esattamente qui che sta il punto. Giannini e gli altri del suo giro non hanno i galloni per fare la morale a chicchessia. S’attaccano alla stoffa altrui - quella di Veneziani nello specifico - perché difettano della propria. Se la destra non ha brillato per originalità, la sinistra in questi anni si è risvegliata dal coma soltanto per chiedere la censura di questo o quell’altro, per infangare e demonizzare, per appiccare roghi e costruire gogne. Infamie di cui hanno fatto le spese autori di ogni orientamento: di destra, soprattutto, ma pure di sinistra, se indipendenti e intellettualmente onesti.
Giannini resta comprensibilmente ammirato dalla tempra dei Veneziani, dei Cardini e dei Giordano perché dalle sue parti non esiste, e se esiste è avversata con ferocia (altro che le sfuriate infantili viste a destra negli ultimi giorni). E infatti l’editorialista di Repubblica che fa? Prende le parti del nemico solo nella misura in cui sono utili alla sua causa. Non celebra l’onestà e il piglio avventuroso: li perverte per metterli - per altro senza riuscirci - al servizio della sua ortodossia. Sfrutta l’indipendenza altrui per ribadire la propria servitù.
Tutto ciò sarebbe decisamente poco interessante se non donasse una lezione anche alla destra, ai patrioti e ai conservatori o sedicenti tali. Il problema, per usare un nannimorettismo oggi di moda, non è Giannini in sé, ma Giannini in noi. Tradotto: per imporre l’egemonia soffocando la libertà basta e avanza Repubblica. E se il carro dei vincitori somiglia a quello dei perdenti, tanto vale perdere, almeno ci si risparmia la spocchia.
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Giuseppe Cruciani (Ansa)
Il professor Lorenzo Castellani, ricercatore e docente di storia delle istituzioni politiche presso la Luiss di Roma, nonché autore di Eminenze grigie. Uomini all’ombra del potere (2024), su X sintetizza così: «Checco Zalone ha spianato i petulanti stand up comedian (quasi tutti «impegnati» a sinistra); Corona sfida i media tradizionali con un linguaggio da uomo qualunque e fa decine di milioni di visualizzazioni; la Zanzara riempie i teatri ed è la trasmissione più ascoltata del Paese. Si è detto per anni che la sinistra sia egemone nell’alta cultura (vero, diciamo, all’80%), ma la «non-sinistra» (non la chiamerei semplicemente destra) ha interamente in mano la cultura e il linguaggio popolare».
Professor Castellani, quindi vorrebbe dirci che la cultura non è più solo ad appannaggio della sinistra?
«Se guardiamo alle istituzioni della cultura ovvero ai luoghi ufficiali della stessa è sempre la sinistra a primeggiare. Ma se guardiamo alla cultura in senso ampio, allora cambia tutto. L’alta cultura è predominante nelle istituzioni ufficiali della sinistra ma in altri ambiti l’ideologia di sinistra viene sconfitta da altre manifestazioni culturali che incontrano di più i gusti del Paese».
Si riferisce a Zalone?
«Certo, anche. Zalone è sempre stato apolitico, non ha mai ceduto al politicamente corretto. Fa un cinema che fa riflettere e non vuole indottrinare nessuno, non fa moralismi a senso unico come capita ad altri tipi di comicità di sinistra».
Sanremo è di destra o di sinistra? A volte legare la politica a certe forme di spettacolo non fa scadere nel ridicolo?
«Anche a Sanremo non c’è più una forma di piena differenziazione tra alta cultura e cultura nazionale popolare. A me piace parlare di cultura in senso ampio, non solo di alta cultura, la “Kultur alla tedesca”, che permea nel popolo e permette riflessioni ampie».
Di che tipo?
«Sembra sempre ci sia questa contrapposizione tra il mondo dell’alta cultura, cinema, teatri, fondazioni, fiere del libro, case editrici, think tank nelle università, dove c’è oggettivamente sempre il predominio della sinistra, del mondo progressista, nelle sue varie sfaccettature, e grandi fenomeni di cultura di massa dove prevale l’esatto contrario rispetto all’etica progressista e a quell’atteggiamento pedagogico-educativo e moralistico che il mondo di sinistra tende ad avere nei confronti del popolo. L’idea di fondo della sinistra è stata sempre quella che bisogna civilizzare gli italiani e portarli con la mano come bimbi verso comportamenti più virtuosi».
Ma oggi non è più così. Ci sono vari altri casi giusto?
«Esatto, abbiamo un Fabrizio Corona che su YouTube, con un linguaggio molto politicamente scorretto, attacca il potere in tutte le sue forme e ha un successo enorme. Lo fa in maniera qualunquistica ma è questo che piace alla gente. Si occupa di questioni di cultura di massa, fenomeni che riguardano il crime, il trash, che non rientrano certamente nell’alta cultura ma che creano fenomeni di massa che hanno più visibilità e rilevanza di certi argomenti che trattano tv o giornali».
E non è il solo.
«La Zanzara, che adesso riempie anche i teatri e che offre un interessante esperimento sociale. Cruciani e Parenzo sostengono tutto il contrario del catechismo del politicamente corretto, sicuramente molto al di fuori dei perimetri della cultura ufficiale di sinistra. Ma per questo funziona ed è un fenomeno molto partecipato».
Anche dalla sinistra stessa presumo.
«Certo. Io ci sono andato ed è pieno di studenti della mia università, dirigenti d’azienda, professori, è un fenomeno trasversale che ha conquistato pezzi della classe dirigente».
Insomma, la presunta alta cultura della sinistra è in crisi perché risulta noiosa al grande pubblico?
«Sicuramente la cultura in senso ampio arriva di più alla gente».
Un po’ come in politica?
«Certi politici usano linguaggi più semplici e diretti e vengono capiti più facilmente. È quello che succedeva a Grillo e oggi alla Meloni. Ci sono fenomeni di massa che vengono seguiti da milioni persone e che rigettano l’idea che ci sia una rigida morale comportamentale linguistica da seguire che invece appartiene alla sinistra».
Anche nella musica?
«Certo, le canzoni che hanno avuto più successo negli ultimi anni sono quelle vicine al genere trap, che parlano di consumismo, esaltano il machismo, usano linguaggi volgari e una completa assenza di morale, nulla a che fare con il mondo progressista. Però quelle canzoni arrivano e funzionano. Tanto è vero che anche Sorrentino nel suo ultimo film ha dato un ruolo centrale a Gue Pequeno e alle sue canzoni che fa cantare anche a Servillo».
Quindi la cultura appartenuta da sempre alla sinistra è in caduta perché non arriva più alla gente comune?
«Non credo che la destra debba sfidare la sinistra sull’alta cultura. Però penso che siano in atto nella cultura popolare di massa delle forme di anti-progressismo e anarchismo, dei movimenti spontanei che sono in contrasto con l’alta cultura principalmente di sinistra e che vengono maggiormente capiti dalla gente e da qui il loro enorme successo. C’è questo contrasto tra cultura ufficiale e quella di massa nazional popolare; due mondi che sembrano non parlarsi.
Per la sinistra è come un boomerang?
«In effetti il tentativo di indottrinare della sinistra ha prodotto una reazione ancor più forte nella destra. Più la sinistra ha cercato di catechizzare la gente, più questi fenomeni sono cresciuti. La regola di doversi comportare in un certo modo, oggi è più fallita che mai».
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