2023-02-28
La smania verde Ue affonda le radici nelle teorie razziste pro colonialismo
Ora come allora, l’Europa si sente superiore agli altri Paesi e impone sacrifici ai cittadini pur di «civilizzare» il mondo.E se per caso, volendo cercare le origini dell’attuale infatuazione dell’Unione europea per la transizione «green», a prezzo di qualunque sacrificio da imporre alle popolazioni del Vecchio continente, si ritrovassero le vestigia di quell’atteggiamento, oggi sbrigativamente definito «razzista», che caratterizzò la cultura e la prassi politica dell’Europa tra la seconda metà del XVIII secolo e la prima del XX? Proviamo un attimo a ragionare. Alcune cose sono assolutamente pacifiche: la prima è che la condizione ambientale dell’Europa non è per nulla peggiore di quella mediamente riscontrabile nel resto del mondo ma è, anzi, sotto parecchi profili, assai superiore; la seconda è che, ammesso e non concesso che l’anidride carbonica (CO2) di origine antropica sia la maggior causa del preteso surriscaldamento globale dell’atmosfera terrestre, l’Europa contribuisce alla sua produzione soltanto nella misera percentuale di circa un 9% del totale; la terza è che i Paesi industrializzati maggiormente responsabili dell’emissione di CO2 (tra i quali, in particolare, gli Usa, la Cina, la Corea del Sud e l’India) non mostrano, nei fatti, la benché minima intenzione di adottare politiche che, anche lontanamente, si ispirino a quelle dell’Unione europea.Perché mai, allora, l’Unione europea si mostra così ansiosa di occupare, in questa materia, senza che nessuno glielo abbia chiesto, il posto di «prima della classe»? Che all’origine di una tale scelta vi siano enormi interessi di potentissimi gruppi economici e finanziari, è, ovviamente, un segreto di Pulcinella. Ma ciò non può bastare a spiegare la passiva adesione di gran parte dell’opinione pubblica a una politica dichiaratamente destinata, per ammissione degli stessi che la promuovono, ad avere pesanti ricadute sul tenore di vita della generalità dei cittadini. Ed è proprio per rispondere a tale domanda che può tornare utile il richiamo a quello che viene ritenuto l’antico «razzismo» dell’Europa. Esso, infatti, nato essenzialmente nel cosiddetto «secolo dei lumi» (come magistralmente messo in luce da Marco Marsilio in un suo saggio dal titolo Razzismo: un’origine illuministica), si fondava sul presupposto che l’incomparabile (e, peraltro, innegabile) sviluppo avuto in quell’epoca dalla civiltà europea ponesse quest’ultima a un livello superiore a quello di tutte le altre esistenti al mondo. Il che le attribuiva, prima ancora del diritto, il dovere morale di estendere i benefici delle sue «conquiste» a tutti i popoli dell’orbe terracqueo. Al riguardo non bisogna cadere nel facile errore di credere che il «razzismo» sia stato inventato, per così dire, «a tavolino», per quindi giustificare talune politiche di sottomissione e sfruttamento dei popoli ritenuti «inferiori». È vero, invece, esattamente il contrario, e cioè che si cercava di giustificare moralmente tali politiche presentandole come finalizzate al nobile obiettivo costituito dalla elevazione, per quanto possibile, degli altri popoli al livello di civiltà di quelli europei. Obiettivo largamente condiviso (in perfetta buona fede) da gran parte dell’opinione pubblica e in vista del quale ben potevano imporsi, quindi, anche alle stesse popolazioni europee, con il loro consenso, pesanti sacrifici, quali costituiti, ad esempio, dalle spese militari e dal tributo di sangue per l’acquisizione e il mantenimento delle conquiste coloniali. Emblematica al riguardo, la posizione di Rudyard Kipling (ritenuto il «cantore» dell’imperialismo britannico e, in genere, europeo) il quale, nella sua notissima poesia dal titolo Il fardello dell’uomo bianco, affermava che la missione civilizzatrice nella quale quel fardello veniva fatto consistere implicava la ricerca dell’altrui vantaggio anche a prezzo del proprio sacrificio. E non è privo di interesse ricordare come il cosiddetto «pregiudizio razziale» si accompagnasse, non di rado, a una decisa condanna dello schiavismo e, talvolta, della stessa espansione coloniale. È questo il caso, addirittura, di Joseph Arthur de Gobineau, ritenuto, per il suo celeberrimo Saggio sull’ineguaglianza delle razze umane, il «padre fondatore» del razzismo, il quale, in una lettera al suo amico Alexis de Tocqueville, definiva «nefandezze» tanto la schiavitù dei neri in America quanto la conquista francese dell’Algeria. A lui possono aggiungersi, fra i tanti: Charles Darwin, secondo il quale, pur essendo egli un convinto assertore della superiorità della razza bianca su tutte le altre, quella stessa schiavitù era da considerare «un gran crimine»; e, ancora (pare incredibile) lo stesso presidente americano Abraham Lincoln, il cui impegno per l’abolizione della schiavitù, fino a provocare la terribile guerra di secessione, non gli impediva di esprimere (come fece, ad esempio, nel 1858, in un pubblico dibattito con Stephen A. Douglas, suo concorrente a un seggio senatoriale) la sua profonda avversione all’idea che potesse esservi «uguaglianza politica e sociale tra la razza bianca e quella nera».Con riguardo, poi, alla specifica materia della tutela ambientale, non sarà stato, forse, soltanto un caso che la prima legge organica sulla protezione dell’ambiente naturale sia stata la Reichsnaturschutzgesetz, promulgata dal regime nazista il 1° luglio del 1935 con il dichiarato intento di dimostrare, anche in questo campo, la superiore sensibilità e intelligenza del popolo tedesco rispetto a quelle di altri popoli.Ed ecco allora che la prospettata riconoscibilità di un fondamento sostanzialmente «razzista» nelle attuali scelte di politica ambientale da parte dell’Unione europea può risultare meno provocatoria e assurda di quanto sembri a prima vista. Se quelle scelte, infatti, pur contrarie agli interessi delle popolazioni europee, vengono adottate e si riesce a farle credere doverose, ciò può avvenire soltanto facendosi leva, senza confessarlo, sullo stesso identico convincimento del «razzismo» classico circa la superiorità della civiltà europea su tutte le altre. Una «superiorità» che impone, quindi (si sa: «noblesse oblige»), ora come allora, di porsi come esempio a tutto il resto del mondo, costi quel che costi. Con la sola differenza, però, che, in passato, il rapporto costi-benefici risultava, di fatto, complessivamente, a favore dell’Europa (sia pure a causa delle politiche, a volte - ma non sempre - di rapina in danno dei popoli colonizzati), mentre ora, non essendo più l’Europa, da gran tempo, la dominatrice del mondo, avviene esattamente il contrario.
Francesca Albanese (Ansa)
Andrea Sempio. Nel riquadro, l'avvocato Massimo Lovati (Ansa)