
L’ortaggio dei poveri ha acquistato fama grazie alla fiaba di Rapunzel dai lunghi capelli biondi. Questa è la sua stagione, come sanno i cercatori di questa piantina, straordinaria sotto i profili gastronomico e salutare. Gustosa in tutte le sue parti, ricorda la nocciola.La Santa Inquisizione lo avrebbe arrostito volentieri sul rogo. Accusato di eresia, Giacomo Castelvetro, scrittore, umanista, insegnante di italiano di re e principi europei, docente a Cambridge, alchimista vissuto a cavallo tra Cinquecento e Seicento, avrebbe fatto la stessa fine di Giordano Bruno e del fratello Lelio Castelvetro che fu arso vivo nel 1609 in piazza a Mantova. La colpa? Essere protestante: negare l’autorità del papa, non credere al purgatorio, negare «l’adoratione delle imagini sacre» e altre accuse di tal genere. Ma Giacomo scampò al rogo con la complicità dell’ambasciatore inglese a Venezia, città nella quale viveva pro tempore essendo un viaggiatore instancabile, un nomade del sapere. Nato a Modena nel 1546 a 18 anni scappò in Svizzera, dove studiò, infischiandosi del padre che lo diseredava. Passò in Germania e, successivamente, in Inghilterra, in Francia, di nuovo in Inghilterra, di nuovo in Germania, di nuovo in Svizzera. Ritornò in Inghilterra per la terza volta per spostarsi in Scozia, in Danimarca e in Svezia mettendo, ad ogni tappa, la cultura rinascimentale, compresa quella gastronomica popolare e contadina, al servizio di sovrani e potenti. Nel 1598 lasciò la Scandinavia per l’Italia con una lunga lista della spesa compilata dal re svedese: cappelli e ricami di Firenze, vetri di Murano, caviale, salami da Bologna e Modena, formaggi, maccheroni da Genova e altre bontà del Bel Paese. La cucina italiana - vedi anche Caterina de’ Medici in Francia - era apprezzata nel profondo nord già mezzo millennio fa, checché ne dica Alberto Grandi, il docente dell’Università di Parma salito in questi giorni alla ribalta per aver sputtanato le tipicità del Bel Paese.La fuga di Castelvetro da Venezia durò un paio d’anni, col fiato degli sbirri papalini costantemente sul collo. Nel 1613 ri-ri-ri-riapprodò in Inghilterra dove morì nel 1616, ma non prima di aver lasciato il suo testamento gastronomico-spirituale: Brieve racconto di tutte le radici, di tutte l’erbe e di tutti i frutti che crudi o cotti in Italia si mangiano (Londra 1614). Il trattato è un giacimento di notizie sull’Italia tardo rinascimentale, scritto un po’ per nostalgia del buon mangiare italico e un po’ per insegnare agli inglesi, popolo carnivoro, con dieta traboccante di proteine e zuccheri, che esistevano anche le verdure.Nel Brieve racconto Castelvetro descrive minuziosamente gli erbaggi del verno e delle altre stagioni spiegando, qualche secolo prima di Pellegrino Artusi e di Petronilla, come si cuociono le erbe e i frutti, come si mangiano o si usano per fare decotti. Tra le molte erbe buone della primavera (De’ lupoli, Degli sparagi, De’ broccoli, De’ carciofi…)- interessanti le annotazioni sui raponzoli, i raperonzoli, ortaggio dei poveri. Spiega il gastronomo scrittore: «… sono certe radicine candite, lunghette e sghiaccide molto; e non pur le radici sole, ma le foglie sono ancor buone; e queste ancor si deono radere, e crude in salata si mangiano e con molto gusto delle persone che tal insalata san conoscere. Alcuni ancora nella patria mia fann’ottima minestra, cocendole in molto buono brodo di carne con pepe e cacio grattuggiato sovra». Interessante questo richiamo alla minestra. Ancor oggi, nel Canavese, col raponzolo giallo si fa la zuppa di ajucche, piatto tradizionale di quegli alpeggi di montagna.I raponzoli con molte altre foglie di campo, verdurine e perfino fiori edùli arricchivano le «mischianze», ottime insalate che, per farle buone, scrive sempre Castelvetro, «conviene, postovi l’olio, rivolgerle e poi, porvi l’acteto e da capo rivolgerla tutta; e che sia vero che molto sale e olio vi si richiede e poco aceto, ecco il testo della legge insalatesca che dice: Insalata ben salata,/ poco aceto e ben oliata. E chi contro questo giusto comandamento pecca è degno di non mangiare mai buona insalata». Veniamo all’oggi. Questa è ancora stagione di raperonzoli. Lo sanno bene i cercatori di questa piantina, straordinaria sotto il profilo gastronomico sia sotto quello salutare. Il raperonzolo ha acquistato fama grazie a Rapunzel, principessa dai lunghi capelli biondi (Oh Raperonzolo le trecce cala/ in fretta in fretta che mi faran da scala) protagonista di un film animato della Disney tratto da una fiaba dei fratelli Grimm. Come verdura è tuttora poco conosciuta e meno ancora consumata. Rapunzel è tedesco. Raponzolo, ramponsolo, ranpussolo, ranpogiùl, raponz’ sono alcuni nomi dialettali con cui il raperonzolo è conosciuto in Italia. Il suffisso spregiativo «-onzolo», è dovuto alle ridotte dimensioni rispetto ai suoi parenti, rape e rapanelli. Il suffisso è ingiusto: è, sì, piccolo, ma il raperonzolo è gustoso in tutte le sue parti, fiori, foglie e radice. E fa bene.L’Accademia umbra delle erbe spontanee lo definisce «il re delle erbe campagnole» e suggerisce, come Castelvetro, di goderselo in insalata con altre radici condito con un battuto di aglio e prezzemolo e con olio extravergine d’oliva. Il raperonzolo, particolarmente croccante, si fa apprezzare per il gusto che ricorda la nocciola. Le foglie vengono utilizzate con altre erbette per tortelli, pasticci vegetali, risotti e frittate. In Romagna, a San Giovanni in Galilea sulle colline forlivesi, gli dedicano una sagra subito dopo Pasqua e amano inserirlo nella farcitura della piadina. Quest’anno la sagra è il 16 aprile. La piantina si presenta con foglie lunghe e strette, di un bel verde brillante. La radice assomiglia a una minuscola carota di colore bianco. Oltre alla radice è commestibile anche la rosetta di foglioline basali. Cresce nei prati incolti della pianura, sugli argini dei fossi, in collina e in montagna fino a 1500 metri. Poco conosciuto dal grande pubblico trova sempre maggiori consensi presso nicchie di consumatori tanto che sono sempre più numerose le aziende agricole che lo coltivano e lo commercializzano e i cuochi stellati che lo usano.Una di queste, Bompieri di Lonato in provincia di Brescia, è stata la prima in Italia, più di vent’anni fa, a puntare sul raperonzolo come monocoltura aziendale. A Villaga, sui colli Berici vicentini, grazie ad un sindaco illuminato che lo ha insignito della de.co. (denominazione comunale), alcuni contadini e i ristoratori hanno fatto del ranpussolo la loro bandiera: i primi coltivandolo in serra e i secondi organizzando tutti gli anni, tra gennaio e febbraio, una rassegna gastronomica di cui il raperonzolo è protagonista di piatti ghiotti. A valorizzare questa rapa in miniatura c’è un piccolo esercito di appassionati che acquistano i semi da interrare nei loro orti e orticelli, tra luglio e settembre, coltivandola in proprio. Il raperonzolo selvatico è più buono di quello coltivato, ma richiede tanta pazienza: bisogna individuare la piantina, cosa facile solo ai raccoglitori esperti, scavare intorno alla radice per non spezzarla e spogliarla della pellicina esterna.Il nome scientifico del raperonzolo è Campanula rapunculus. Appartiene alla famiglia famiglia delle Campanulaceae. Il nome latino è dovuto ai fiori azzurro-violetti che hanno la forma a campanella e alla radichetta bianca leggermente panciuta e allungata. Ricco di vitamina C, sali minerali e proteine, vengono riconosciute al raperonzolo proprietà antinfiammatorie e disinfettanti. È consigliato nelle diete dei diabetici in quanto privo di amido e, quindi, di glucosio. Per la proprietà cicatrizzante della pianta, fino a quando la farmacopea empirica non fu sostituita da quella scientifica, le foglie e la radice del raperonzolo, pestate e ridotte in poltiglia, venivano utilizzate per curare le ferite. Sin dall’antichità foglie e fiori sono stati usati dalla medicina popolare per preparare colluttori contro le infiammazioni della bocca e della gola, grazie al benefico effetto che le sostanze resinose in essi contenuti esercitano sui tessuti orali. Per le proprietà antisettiche e antinfiammatorie, si usava in decotto per gargarismi contro l’angina.
Robert Redford (Getty Images)
Incastrato nel ruolo del «bellone», Robert Redford si è progressivamente distaccato da Hollywood e dai suoi conformismi. Grazie al suo festival indipendente abbiamo Tarantino.
Leone XIV (Ansa)
Nella sua prima intervista, il Papa si conferma non etichettabile: parla di disuguaglianze e cita l’esempio di Musk, ma per rimarcare come la perdita del senso della vita porti all’idolatria del denaro. E chiarisce: il sinodo non deve diventare il parlamento del clero.