2021-06-24
«Contadini e dottori con l’Italia nel cuore. Vi racconto i giovani che non sono in fuga»
Il documentario «La bella gioventù» sfata il mito della diaspora. «Molti ragazzi sono caparbi e cercano la felicità dove sono nati». «Un racconto alternativo». Così Raffaella Verga, scrittrice e sceneggiatrice, una laurea in psicologia, ha voluto descrivere La bella gioventù, suo ultimo progetto documentaristico. La pellicola, le cui riprese si sono tenute ad Albenga, città natale della donna, è la narrazione della gioventù in Italia. E non c'è lamentela, nelle testimonianze raccolte. Non c'è lagna. Solo voglia di fare, capace di rompere la retorica imperante, quella che vorrebbe i ragazzi scrocconi, permalosi e pigri. «Bamboccioni», avrebbe detto qualcuno. «Io sono del 1971, un'adulta. Eppure, ho sentito l'esigenza di avere un contatto diretto con i giovani», ha spiegato la Verga, che per il suo documentario ha intervistato circa 65 ragazzi, di età compresa tra i 18 e i 28 anni. «La bella gioventù è nata da diverse suggestioni, prima che in Italia esplodesse la pandemia. Ho sempre trovato raccapricciante la retorica dei giovani festaioli e choosy, decisi a perdere il loro tempo. Ho sempre trovato eccessivo generalizzare così. Quando è uscita l'esortazione apostolica di Papa Francesco, il Christus Vivit, ho cominciato a chiedermi quanto noi adulti possiamo aver sbagliato nell'approcciarci alle nuove generazioni». Cosa c'entra il Papa con il suo documentario?«Per quanto possa sembrare banale, il Papa nella sua esortazione ha spronato noi adulti ad avere un cuore sempre giovane. Cosa, questa, la cui importanza frequentemente viene dimenticata». Si spieghi.«Nella Bella gioventù, mi sono trovata a parlare con i ragazzi di felicità. Non voglio ricalcare il titolo di un film più famoso, ma i giovani credono fermamente alla ricerca della felicità, alla possibilità di raggiungerla. Spesso, invece, gli adulti ne ridono, come fosse un'utopia di bambini». Lei ha voluto raccontare dei giovani che restano in Italia, decisi a cambiare in meglio il proprio territorio. Cosa cercano questi ragazzi, oltre alla felicità?«Realizzazione. Hanno tutti un progetto nel quale credono, e tengono a realizzarlo dove sono nati. Ho toccato con mano il loro attaccamento alla terra. Si tende a pensare che, oggi, il sogno di ogni ragazzino sia prendere una laurea e andare all'estero. Non è così. C'è chi ama le proprie origini». Però, si dice che all'estero le occasioni di successo siano di più. Perché faticare qui? «I ragazzi che ho intervistato fanno lavori molto diversi. Alcuni, ancora, studiano. C'è un elettricista di Torino, che nel tempo libero ripulisce i mari dalla plastica. Una ragazza laureata in Beni Culturali, volontaria del Fai. C'è un ragazzo che ha interrotto gli studi per tornare all'agricoltura e farsi carico delle terre dei nonni, una giovane che ha preso in mano un frantoio. Ma c'è, nelle storie di questi giovani uomini e donne, un'idea comune». Quale?«Quella di spendersi così da arricchire la propria vita». Parla di una ricchezza materiale? «Mai. I ragazzi che ho intervistato non ricercano soldi o fama o prestigio. Sono caparbi. Vogliono farcela, e vogliono farcela qui, certi che aiutando gli altri e l'ambiente si possa vivere una vita più completa, più piena. Quasi tutti, fanno volontariato». Non detestano, allora, la retorica dei giovani bamboccioni? «Piuttosto direi che ne sono feriti. Raccontare i giovani come bamboccioni fa più rumore, ma la verità è un'altra. I giovani, per la maggioranza, sono volonterosi. Solo, non sono interessati a farsi vedere. Lavorano a capo chino, e questo racconto parziale lascia in loro grande dispiacere». Però non è tutto rose e fiori. Pensa che i giovani, in Italia, siano supportati?«No, e non lo pensano neanche loro. Mi hanno detto chiaramente che in Italia manca la meritocrazia, che c'è troppo clientelismo». Una denuncia politica, quindi. «Non proprio. I ragazzi di oggi non sono interessati alla politica e questa è una grande colpa di noi adulti, oltre che il principio della fine per la classe politica. Non saper accendere un interesse politico nei giovani, cui non manca una coscienza sociale, significa accettare che i futuri politici siano impreparati, improvvisati o mossi da interesse». Dove trovano, allora, il supporto i suoi ragazzi?«Per lo più in famiglia. Poi, nel volontariato. Ho capito che le associazioni, la chiesa, l'aiutare gli altri, spesso possono servir loro per ritrovare un senso di comunità, lo stesso che si respirava un tempo. Da bambina, ad Albenga, mio padre aveva un negozio. Io circolavo in bicicletta, e c'era il paese a guardarmi. Oggi la gente è presa da se stessa». Perché?«Si dice manchi il tempo. Forse, però, è solo egoismo. I social potrebbero aver giocato un ruolo». Un altro stereotipo sui giovani li vorrebbe tutti «smanettoni». Realtà o finzione? «Direi finzione. I ragazzi che ho intervistato non vedono di buon occhio i social. Li hanno, li hanno avuti, li usano per mantenere i rapporti con una parte della propria vita. Però, rivendicano la bellezza e l'importanza dei rapporti umani. Di una genuinità che non ha nulla di stereotipato. I giovani vogliono distruggerli, questi stereotipi. Vogliono dimostrare che si può fare, che le cose possono cambiare, anche qui, non solo all'estero».
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