2021-10-16
Rachel Fleit: «La sclerosi ti cambia, ma va abbracciata»
Rachel Fleit e Selma Blair (Getty Images)
La regista ha immortalato la quotidianità dell'attrice Selma Blair durante la battaglia contro la malattia: «La disabilità è diventata parte della sua identità. Ha accettato la diagnosi, senza autocompassione e non considerandosi mai una vittima».«Selma, a chi le sta intorno, cerca di restituire coraggio e positività. “Andrà tutto bene, per voi" è quel che dice più spesso. Ma, all'inizio del documentario, la voce narrante se lo chiede. “Sarà vero anche per me?". Ogni essere umano credo abbia pensieri simili». È il castigo della ragione: dubitare di un futuro che si percepisce effimero, in alcuni casi più che in altri. Perché Selma Blair, che tre anni fa ha reso pubblica la diagnosi di sclerosi multipla, sembrerebbe avere qualche ragione in più per sentire sopra di sé il peso di una spada di Damocle incombente. Invece, l'attrice, interprete di Hellboy e La rivincita delle bionde, la malattia ha deciso di accoglierla come parte della vita. «In fondo, non è necessario essere affetti da sclerosi multipla per percepire la caducità dell'esistenza», ha cercato di spiegare Rachel Fleit, che all'attrice e al suo nuovo quotidiano ha dedicato un documentario, Introducing Selma Blair, disponibile su Discovery+ dal prossimo giovedì. «Abbiamo girato per un anno, interrompendoci a causa della pandemia», ci ha raccontato la regista, che il proprio lavoro ha descritto come «relativo all'essere umano e alla sua anima: a quello che siamo capaci di sopportare e a quello che conta davvero». Nessuna retorica sulla malattia, quindi.«No. Non c'è bisogno di essere malati o disabili per potersi identificare con il viaggio (così lo chiama, ndr) di Selma Blair. Ciascuno a modo proprio, ci troviamo tutti ad arrancare nel corso della vita».Qualche riferimento agli svariati lockdown?«Decisamente. Credo, però, che sulla percezione dello spettatore possano avere avuto un effetto benefico». Cioè? «Per me capirlo è stata quasi una catarsi. Mentre cercavo di gestire le difficoltà produttive che la pandemia ha portato con sé, mi sono fermata e l'ho realizzato. Selma è stata in quarantena un anno, a causa di questa misteriosa malattia autoimmune. Per dodici mesi, non è stata in grado di lasciare la propria casa, non ha saputo cosa sarebbe successo dopo. È come se avesse avuto un suo lockdown personale prima che tutti noi avessimo il nostro. Oggi, credo che ogni individuo possa capire un po' di più cosa significhi vivere con la sclerosi multipla». Cosa l'ha spinta a girare il documentario? Voleva fare un film sulla sclerosi multipla o su Selma Blair?«Su Selma Blair, volevo raccontarne la trasformazione, perché è una trasformazione ciò cui va incontro nel film. La diagnosi è arrivata prima che cominciassimo a girare, ma nel documentario la abbraccia, la accetta. E questo è quello che volevo raccontare». Cosa che non accade spesso. Mediamente, il tema della malattia è trattato in relazione ad altri: il fine-vita, il bisogno di educare l'occhio altrui e via dicendo. «Standole accanto, mi sono resa conto di avere di fronte una donna capace di accettare con serenità ogni aspetto della sua vita, malattia inclusa. Selma, oggi, cammina in modo diverso, parla in modo diverso. Essere disabile è diventata parte della sua identità, e questa identità Selma la abbraccia. L'ha abbracciata quand'era calva a causa delle cure, la abbraccia nei giorni in cui deve appoggiarsi ad un bastone per camminare. Non voglio dire che abbia normalizzato nulla, odio la parola “normale", perché implicitamente è come se suggerisse che quel che è non sia “corretto". Selma ha solo fatto vedere un altro aspetto di sé, un altro modo di essere». Com'è riuscita, però, a non far passare Selma Blair per una vittima?«Assecondandola. Selma non si è mai lasciata andare ad un secondo di autocompassione, non ha mai chiesto pietà. Semplicemente, non si è mai considerata una vittima. Direi che è stata capace di accettare tutto quello che le è successo, giorno per giorno». Ivi compresa l'aggressività di certi media, che quando ha cominciato a tremare sulle proprie gambe hanno scomodato l'abuso di droga e alcol. «Credo che questo sia ciò che ha spinto Selma a rendere pubblica tanto presto la propria diagnosi. Si fa molto in fretta a giudicare gli altri, soprattutto in un mondo come il nostro, dove i social hanno preso il sopravvento». Sharon Stone, dopo aver avuto un infarto, ha lamentato di essere stata ostracizzata dal mondo del cinema. Com'è cambiato il rapporto di Selma Blair con Hollywood, dopo la diagnosi ricevuta?«Credo non sia cambiato. Standole accanto per un anno, ho potuto vedere come Hollywood le si sia stretto attorno, in un abbraccio caldo e confortevole. Selma ha accettato se stessa e Hollywood ha accettato Selma. Mi viene quasi da dire che, dopo tanti anni spesi a recitare in ruoli di supporto, abbia finalmente ottenuto la luce che merita un protagonista». Introducing Selma Blair, a tratti, è molto ironico. Non rischia di essere ossimorico: un documentario sulla malattia così leggero e divertente?«Ma no, Selma è proprio così. Nel progredire delle riprese, mi sono accorta che c'erano tante risate, tante battute. Così, io e il mio editor, Sloane Klevin, ci siamo promessi di dare un ritmo al documentario attraverso questi piccoli momenti di leggerezza. Il dolore, da solo, sarebbe stato troppo da guardare. C'era bisogno di ridere. Per lo spettatore e per Selma, che nel film piange e si diverte, in un alternarsi di alti e bassi che abbiamo deciso di restituire».