
La sorte di Lorenzo Orsetti, l'anarchico morto in Siria, può suscitare umana pietà ma farne un santino buonista è ridicolo. Anche perché fare il foreign fighter è reato. C'è chi lo propone per la medaglia d'oro alla Resistenza, come Giuliano Ferrara. Chi vuole subito intitolargli vie e piazze cittadine, come il sindaco di Firenze Dario Nardella. Chi lo considera un partigiano antifascista, come l'Anpi. Chi lo ricorda come un simbolo dell'emancipazione della donna, della cooperazione sociale e dell'ecologia sociale, come il governatore della Toscana, Enrico Rossi. E chi come un martire della lotta contro la violenza, come la presidente dei deputati di Forza Italia Mariastella Gelmini. Ci manca solo qualcuno che lo proponga per il Nobel della Pace, ovviamente in coabitazione con Greta, e poi avremmo realizzato la trasformazione: il foreign fighter che diventa santino all'acqua di rose. Una specie di Heidi del Kurdistan, con i kalashnikov al posto delle caprette. Un candidato al premio della bontà Cuore d'Oro 2019 o al concorso Porgi l'altra guancia del catechismo parrocchiale. Un'immagine, insomma, che probabilmente per prima cosa avrebbe disgustato pure lui. Lorenzo Orsetti detto «Orso», il trentatreenne di Firenze morto combattendo in Siria, infatti, era un guerriero. Anarchico e rivoluzionario, amante delle armi, sognava di diventare cecchino. Nel video che aveva mandato alla trasmissione tv Le Iene si riprendeva mentre sparava con un kalashnikov, parlando di morti e battaglie. Diceva che si sentiva come dentro Guernica, il quadro di Picasso. Diceva che «sembrava il Vietnam». In Toscana faceva il lavapiatti, in guerra ha trovato il modo di dare un senso all'esistenza. Con la radicalità che è tipica dei giovani, che in genere non amano i sapori tiepidi. Per lui, che non c'è più, e per i suoi slanci ideali, ora ovviamente non si può che provare affetto. Ma non così per quelli che, per nascondere la loro coda di paglia, fanno a gara per trasformarlo in figurina dell'Album Buonini. Certo: Lorenzo Orsetti stava dalla parte giusta. Combatteva contro l'Isis. Lo faceva perché era rimasto affascinato dall'epopea dei curdi, dall'esperimento socialista, dal «confederalismo democratico» di Abdullah Ocalan. Così si era trovato così a combattere contro il terrorismo islamico. Ma allo stesso modo, credo, avrebbe potuto trovarsi a combattere da un'altra parte o contro altri, come in effetti ha fatto. Le sue prime azioni armi in pugno, infatti, sono state contro la Turchia, che con tutti i difetti che ha (e ne ha) resta un Paese membro della Nato. Anche se l'Isis lo ha bollato come «crociato», il giovane anarchico fiorentino non era un difensore della civiltà occidentale contro l'avanzata islamica. Era un guerrigliero, aspirante tupamaros, un rivoluzionario che ha trovato modo di dare sfogo ai suoi miti giovanili intruppandosi nella Brigata internazionale filocurda insieme con ex legionari francesi ed ex marines americani. Tutta gente, come lui, alla ricerca di un'«aria diversa», come ha detto Lorenzo nella sua ultima intervista. Perché «certe esperienze in guerra ti legano per sempre». Tutto comprensibile dal punto di vista esistenziale, per carità. Ma non da un punto di vista legale. A tutti gli effetti, infatti, andare a combattere in questo modo è proibito dai nostri codici. Fare il foreign fighter in Italia non è una roba da medaglia al valore: è un reato. Lo sapeva lo stesso Lorenzo che, infatti, alle Iene diceva: «Non penso di tornare in Italia a breve, ma quando lo farò mi assumerò le mie responsabilità». Sentirsi dentro Guernica è esaltante, lo si capisce. Sentirsi in Vietnam, pure. Ma, come ha detto giustamente il sottosegretario agli Esteri Manlio Di Stefano, «a volte si fa una narrazione romantica dell'andare al fronte per combattere per i propri ideali, ma al fronte si perde la vita e basta». In realtà le guerre, soprattutto le guerre fondamentali come quella contro il terrorismo islamico, le devono fare, e possibilmente vincere, gli Stati. Non i singoli con le loro velleità. E allora fa inorridire l'esaltazione di Lorenzo che adesso fanno molti di coloro, come i leader della sinistra, che per anni hanno continuato a ripetere che la guerra al terrorismo islamico non bisognava farla. Quelli che dicevano che l'islam è amore, che l'islam non va combattuto ma accolto, che i terroristi non possono essere islamici, che con gli islamici bisogna essere docili, mansueti e dialoganti. Ora esaltano chi invece contro gli islamici ha combattuto, davvero, armi in pugno fino a morirne. Epperò, per renderlo digeribile ai loro stomaci delicati, lo trasformano in uno zuccherino dolce, simbolo della «cooperazione sociale» e dell'«ecologia sociale», financo «dell'emancipazione delle donne», un non violento con il kalashnikov in pugno, un simbolo del pacifismo che fa la guerra, un santino antifascista, praticamente il nuovo Giacomo Matteotti di Baghouz. E, come se tutto ciò non bastasse, arriva poi Giuliano Ferrara a dirci che si sente in colpa per la sua morte. Ma certo, come abbiamo fatto a non pensarci prima? Dobbiamo sentirci in colpa. Oltre che per la fame nel mondo, i naufragi degli immigrati, il buco nell'ozono, la plastica nel mare e le rotte degli schiavisti africani, dobbiamo sentirci in colpa pure per la morte dell'«Orso». Come se fossimo davvero stati noi a spingere un lavapiatti di Firenze ad andare a fare le guerra in Siria, come se fossimo stati noi a costringerlo a violare la legge, a imbracciare il mitra, a sentirsi come a Guernica o in Vietnam, a sperimentare «certe esperienze che ti legano per sempre» con gli ex legionari francesi o gli ex marines americani. E come se adesso dovessimo coprire questo senso di colpa a suon di medaglie d'oro e toponomastica cittadina, arrivando a definirlo un difensore dell'ecologia sociale perché, è chiaro, «guerrigliero combattente» sulla lapide non sta bene. Senza capire che forse l'unica vera colpa che questa società ha avuto nei confronti di Lorenzo è quella di non avergli dato valori a sufficienza per vivere senza cercare la morte. L'unica vera colpa della società occidentale è di aver distrutto le sue basi, le sue radici, le sue tradizioni e la sua fede, al punto che un giovane per trovare un senso all'esistenza è stato costretto ad andare a combattere in Kurdistan. Ma questo non ditelo alla banda delle medaglie d'oro, perché, per loro, è ovvio difendere la propria civiltà va bene soltanto se si muore in Siria. Mica se si resta vivi qui.
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