2019-04-19
«Quanti errori sui casi Moro e Pecorelli, omicidi senza verità»
In un libro di Antonio Federico Cornacchia, ex generale dei carabinieri, i retroscena del sequestro dello statista: «Non abbiamo creduto a ciò che scriveva il giornalista». Mentre l'ufficio stampa di Romano Prodi ribadisce, come chiunque può facilmente verificare, che non esiste e non è mai esistito alcun legame, di nessuna natura, tra il presidente Prodi e il Kgb.Con il grado di tenente colonnello, Antonio Federico Cornacchia, classe 1931, nativo di Monteleone di Puglia (Foggia), è stato comandante della prima sezione del Nucleo investigativo carabinieri di Roma, competente per i reati contro la persona, dal settembre 1972 al settembre 1979, negli anni più sanguinosi del terrorismo e della strategia della tensione. All'alba del 2 novembre 1975 si trovava a Ostia, in via dell'Idroscalo, davanti al corpo esanime e martoriato di un uomo in canottiera verde, jeans e stivaletti marron. Era Pier Paolo Pasolini, assassinato nel corso di quella notte. Il 16 marzo 1978, avvertito via autoradio, si fiondò in via Fani, a Roma, nel raccapricciante scenario lasciato dopo il rapimento di Aldo Moro e l'uccisione della sua scorta. Dopo i 55 giorni del sequestro, il 9 maggio, fu lui, con un piede di porco, strumento di cui si era munito 20 giorni prima, dopo la mancata irruzione da parte della Polizia nel covo delle Brigate rosse di via Gradoli 96, ad aprire il baule della Renault 4 amaranto, targata Roma N57686, all'interno del quale giacevano le spoglie del presidente della Dc, in via Michelangelo Caetani. Il 20 marzo 1979 aveva di fronte, in via Orazio, nel quartiere Prati, la vittima di un killer, riversa sui sedili anteriori di una Citröen Pallas. Si trattava del giornalista Mino Pecorelli. Il 24 settembre 1979, essendo nel mirino delle Br, che poco più di due mesi prima, il 13 luglio, avevano colpito a morte il collega e amico Antonio Varisco, anche lui alto graduato dell'Arma, concluse il suo incarico al Nucleo investigativo. Dopo un periodo trascorso in anonimato in varie località segrete, il 1° settembre 1980, fu assegnato alla prima divisione del Sismi, il servizio segreto militare, con compiti di controspionaggio, zona Medio Oriente. Promosso in seguito generale, vive in Umbria, a Foligno, e sta raccogliendo le sue memorie in una serie di libri, l'ultimo dei quali è Airone 1 (Editoriale Sometti, Mantova, 464 pagine). Airone 1 era il nome in codice attribuito al comandante del Nucleo investigativo della capitale. La mattina del 16 marzo 1978, poco dopo che le Brigate rosse tesero l'agguato mortale che portò all'uccisione dei 5 agenti di scorta di Moro, lei si recò all'incrocio di via Mario Fani. Da uomo di notevole esperienza investigativa, che è riuscito a sgominare il clan dei Marsigliesi, ad arrestare Renato Vallanzasca e a scoprire vari covi delle Br, quali elementi desunse a caldo nello scenario della strage?«Era quello un periodo che quando uscivamo la mattina, non sapevamo se saremmo tornati vivi la sera. Oltre allo sgomento, perché ad esempio conoscevo bene Ricci e Leonardi (due agenti della scorta di Moro uccisi, ndr), mi avvicinai a una donna di 24 anni, svenuta, che assistette alla sparatoria, e poi la mandai al comando per visionare le foto segnaletiche dei brigatisti e ciò ci portò ad individuarne 2 dei 9 del gruppo di fuoco, Franco Bonisoli e Prospero Gallinari. Alle 11 e 15 telefonai al dottor Domenico Sica (il procuratore della Repubblica, ndr) e gli comunicai questo fatto».Notò particolari equivoci?«Ne racconto uno. Vidi una persona, di cui non faccio il nome, che aveva raccolto alcuni bossoli e li stava gettando in un tombino. Nella foga, feci dunque aprire il tombino, per recuperare i reperti. C'è da dire che noi avevamo un infiltrato nelle Br, Paolo Santini, un tipografo, che per 2 anni ci fornì indicazioni sul loro arsenale, con armi provenienti dal Libano e da rapine in armerie in Italia, e che purtroppo fu poi arrestato perché la Polizia non volle credere fosse un informatore. In un'incursione segreta nell'arsenale, attraverso un armiere di salda pratica, cercammo di ostacolare le Br, facendo in modo che le armi s'inceppassero. E così accadde, nell'agguato di via Fani. In ciò fu preziosa la lezione di Carlo Alberto Dalla Chiesa».Il quale all'epoca non partecipava alle indagini…«Continuo a chiedere, da cittadino e da poliziotto, perché il potere politico, dopo i risultati che Dalla Chiesa aveva ottenuto nella lotta al terrorismo, fosse stato messo in panchina, attraverso lo scioglimento del Nucleo speciale polizia giudiziaria. Per poi essere richiamato quando furono individuati i responsabili dell'eccidio di Via Fani. Se gli fosse stata data la possibilità di lavorare al caso Moro, l'avrebbe salvato. Inoltre, nostra grave colpa è stata quella di non aver creduto a quanto stava rivelando Mino Pecorelli».Pecorelli, già il 19 novembre 1967, scrisse: «Aldo Moro doveva essere rapito e ucciso nel 1964 dal tenente colonnello dei carabinieri Roberto Podestà nel colpo di Stato». «Avendo fatto mente locale, io penso che Moro abbia firmato la sua condanna a morte già nel 1963, quando fu assassinato John Fitzgerald Kennedy. Continuò con le sue idee di apertura a sinistra, ma il segretario di Stato Henry Kissinger, con i due presidenti Usa Richard Nixon e Gerald Ford, iniziò a fargli guerra».Lei, subito dopo il sequestro di Moro, fu chiamato a partecipare al comitato operativo istituito dal Governo.«Sì, i comitati erano tre. Il primo, di cui facevo parte, era formato dai vertici delle forze dell'ordine, il secondo da intelligence e capi dell'esercito, il terzo da esperti. Io rimasi poco. Quello che più fa pensare è che, prima di costituire i comitati di crisi, non si siano fatti verbali. Qualcosa disse Vincenzo Scotti nel 1992, poi rimosso da Oscar Luigi Scalfaro dalla carica di ministro. La percezione che Moro non sarebbe tornato si è avuta subito. Quando scrisse le 3 lettere, alla moglie, a Benigno Zaccagnini e a Francesco Cossiga, andai da Enrico Berlinguer, che mi disse: “Comandante, per noi Moro è morto". Poi mi recai a piazza del Gesù, alla sede della Dc, e incontrai Flaminio Piccoli, che si guardò intorno per accertarsi che non ci fossero orecchi indiscreti e mi confidò: “Se Moro dovesse ritornare, per noi sarebbero dolori". Ebbi la quasi certezza che Moro fosse stato abbandonato dai politici».Il 2 aprile 1979 si sarebbe tenuta a Zappolino, in provincia di Bologna, la presunta seduta spiritica di cui riferì Romano Prodi, che avrebbe indicato il nome Gradoli. Nel suo libro ha scritto come Romano Prodi «non avesse avuto il coraggio, facendo appello alla sua coscienza, di far presente quanto riferitogli verosimilmente dal presidente dell'International Opus Christi, Mario Puccinelli, e non dalle anime dei trapassati, il quale, dalla Germania aveva dato indicazione che in via Gradoli, a Roma (non nel paese dell'alto Lazio), c'era chi aveva rapito Aldo Moro».«Questa della seduta spiritica è stata una colossale bufala di Prodi, che era amico del Kgb. Perché Prodi tergiversò e si rivolse a Zaccagnini e non avvertì la magistratura? In questo modo si diede la possibilità a Mario Moretti di andar via dal covo di via Gradoli. L'artefice del piano fu Giorgio Conforto (figura al soldo di vari servizi segreti, ndr). La magistratura è stata esautorata e in seguito a essa fu imposto di attenersi, nei processi, al falso memoriale Moro, il memoriale Morucci».Cosa pensò quando circolò il falso comunicato numero 7 delle Br, il 18 aprile 1978, realizzato dal falsario della banda della Magliana, Tony Chicchiarelli, il quale annunciava che il cadavere di Moro («suicida») poteva essere rinvenuto nel lago della Duchessa, in provincia di Rieti, a 1.800 metri d'altezza e ghiacciato, e fu sollecitato dalla centrale operativa a raggiungere il luogo? «Capii subito che la notizia era assurda. Ero invece stato avvertito dal comandante dei Vigili del fuoco della perdita d'acqua in via Gradoli 96, dove mi precipitai, trovando materiali delle Br. Ricordo anche di aver rinvenuto divise dei carabinieri e palette. Telefonai a Luciano Infelisi (sostituto procuratore di Roma, ndr). A me interessava procedere con le indagini».Il 6 maggio 1978, lei si trovava nella residenza pontificia estiva di Castel Gandolfo. Il Papa era riuscito a reperire circa 10 miliardi di lire per offrire un riscatto per la liberazione di Moro, per quanto, il 22 aprile 1978, nel tanto discusso appello ai brigatisti, ne avesse implorato la liberazione «senza condizioni». Lei ha avvalorato l'ipotesi che ci fosse stato qualcuno, persona o «ristretto comitato occulto», «sicuramente più in alto ancora di Paolo VI», a impedire il rilascio dell'ostaggio. «Mi trovavo a Castel Gandolfo con don Cesare Curioni, ispettore dei cappellani nelle carceri italiane, e il frate francescano Enrico Zucca e mi mostrarono un bauletto zeppo di denaro. Erano le 19.40. Poi monsignor Pasquale Macchi, segretario di papa Montini, dopo essersi assentato per una telefonata, ci annunciò che “per Moro non si poteva fare più nulla"». Immagina chi ci potrebbe essere stato dall'altra parte del filo?«Mi viene da pensare alla “loggia di Cristo Re in Paradiso"».Quella di cui scriveva Pecorelli?«Certo. E il suo capo è stato il cardinal Sebastiano Baggio. Durante il sequestro Moro, come peraltro nel caso Calvi, il Vaticano rispondeva picche».Sospettavate di essere soltanto delle comparse e che il vostro lavoro investigativo servisse a ben poco?«Ad un certo punto iniziammo a rendercene conto. E soprattutto me ne sono reso conto col senno di poi. La magistratura fu completamente esautorata già con il decreto voluto da Cossiga e Andreotti, che stabiliva come tutte le notizie dovessero essere gestite dal Viminale. E lì entrava in gioco la P2».Cosa ne pensa di Mario Moretti, uno dei personaggi più ambigui delle Br?«Frequentava Hyperion (un'associazione francese ritenuta punto di raccordo tra servizi segreti internazionali volti al mantenimento dell'ordine di Yalta, ndr). Dico solo una cosa. Vorrei avere ora qui davanti l'uomo del ministero degli Interni che lo avvertì con una telefonata che gli consentì di sottrarsi al suo arresto al casello ferroviario di Pinerolo, azione in cui furono catturati Curcio e Franceschini (l'8 settembre 1974, ndr)». Il 9 maggio 1978, con il piede di porco, aprì il baule della Renault 4 dove si trovava il corpo di Moro. Cosa pensò?«Conoscevo Moro, lo incontravo spesso. Varie volte cercammo di capire perché il suo ufficio in via Savoia era talvolta trovato a soqquadro. Seppi poi, dato che ero presente all'autopsia, che morì dissanguato, dopo un'agonia di 30 minuti, per progressive emorragie interne. Rimasi sconcertato, esterrefatto, sconvolto. La lingua fuoriusciva dalla bocca. Poi subentrò la rabbia. Compresi che avevamo sempre navigato nel buio».<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/quanti-errori-sui-casi-moro-e-pecorelli-omicidi-senza-verita-2635008061.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="prodi-non-ha-mai-avuto-rapporti-con-il-kgb" data-post-id="2635008061" data-published-at="1758064617" data-use-pagination="False"> «Prodi non ha mai avuto rapporti con il Kgb» Gentile Direttore, con riferimento all'intervista di Roberto Faben ad Antonio F. Cornacchia, pubblicata oggi, 19 aprile 2019, a pag.19 de La Verità, l'ufficio stampa del Presidente Romano Prodi ribadisce, come chiunque può facilmente verificare, che non esiste e non è mai esistito alcun legame, di nessuna natura, tra il presidente Prodi e il Kgb. Si precisa inoltre che il presidente Prodi, all'epoca dei fatti professore universitario, non ha mai avuto nessun contatto nè con Mario Puccinelli nè con Giorgio Conforto, persone a lui del tutto estranee, contrariamente a quanto sostiene Cornacchia nel suo libro e riportato oggi nell'intervista. Il presidente Prodi si riserva di adire alle vile legali nei confronti dell'autore del libro e della casa editrice. Con preghiera di pubblicazione sia sull'edizione on line de La Verità sia su quella in edicola domani, 20 aprile 2019, così come previsto dalla Legge. Distinti saluti L'ufficio stampa del presidente Romano Prodi