2021-02-20
Quando l’Italia autarchica beveva tarassaco
Dente di leone è il nome più comune. È il «maiale» delle verdure selvatiche: un’erba di campo che fa tanto bene e si presta a mille impieghi in cucina. Si usa tutto: foglie, boccioli, fiori e radici. Queste ultime venivano tostate per ricavarne un surrogato di caffèQuaresima, è tempo di taràssaco nei campi e sulla tavola. Chiamato così, col suo vero nome e l’accento al posto giusto (sdrucciolo, sulla seconda «a»), questa verdurina di campo che fa tanto bene e si presta a mille usi in cucina, può anche non dire nulla. Ma se lo traduciamo nei vari dialetti della Penisola ogni regione la riconoscerà. I toscani chiamano il tarassaco piscialletto, i friulani pissecjàn o tale, i cugini veneti pissacàn, gli emiliani pessalet, gli umbri pisciacane, i lombardi pissalech: tutti nomi che gli derivano dalle sue straordinarie proprietà diuretiche, una reputazione diffusa anche al di là delle Alpi visto che i francesi lo definiscono pisse-en-lit. In Abruzzo è il cascign, in Sicilia la cardella, nel salentino lo zingune....L’erba selvatica è presente in tutta Italia, nei campi incolti della pianura, in collina, in montagna. Basta armarsi di una posata da cucina e di un sacchetto di plastica e di aver voglia di fare un po’ di movimento per trovarne una carrettata. Oltrettutto nei campi non c’è problema di distanziamento.Il tarassaco si riconosce facilmente. Per le lunghe foglie lanceolate e con margine dentato e la bellezza aggressiva del fiore giallo che mostra petali acuminati come zanne leonine, il Taràxacum officinale (è il suo nome scientifico) è chiamato anche dente di leone. Ed è il nome con cui è più conosciuto nel mondo: gli spagnoli lo chiamano diente de leon, i tedeschi, löwenzahn, gli inglesi, dandelion, i portoghesi, dente de leão. I danesi, per il liquido bianco contenuto nel gambo, lo chiamano mælkebøtte, e cioè recipiente del latte. Per la caratteristica sfera di semini (arilli) che con un soffio si disperdono come minuscoli paracadutisti, il tarassaco viene chiamato anche soffione. Un’antica leggenda suggerisce di affidare i propri desideri a questi semini e di soffiare forte: più il vento li porterà lontano, prima i sogni di realizzeranno. Essendo una composita lattifera, dal gambo spezzato escono lacrime bianche. Per questo «pianto», nella simbologia cristiana medievale, il tarassaco rappresenta il dolore per la morte di Cristo.Per chi crede nella penitenza ecclesiastica è un’ottima verdura per i giorni di magro: le tenere foglioline si possono consumare crude in insalata e in misticanza con altre erbe e verdure o si possono lessare e condire con olio extravergine d’oliva, aceto, sale. Sono ottime saltate in padella con aglio, sale e pepe. Col tarassaco si preparano torte salate, minestre, zuppe e, con altri ingredienti vegetali, ragù per pastasciutte dietetiche. Chi non crede nelle mortificazioni quaresimali in padella, oltre ad aglio, sale e pepe, fa saltare anche il lardo per un piatto più saporito (e calorico). Per i nostri nonni - gastronomia contadina - il tarassaco era il contorno ideale del cotechino.Il Taràxacum è il maiale delle verdure selvatiche. Della piantina si usa tutto: foglie, boccioli, fiori e radici. Ai primi tepori primaverili, quando la piantina si affaccia al sole, i cercatori non si fanno scappare gli straordinari «capperi di tarassaco», i boccioli. Messi sotto sale o sotto aceto diventano ottimi «capperi» da impiegare su pizze, carni, nei ripieni e in vari sughi mediterranei. In Friuli li chiamano caviale carnico. Ivan Uanetto, uno dei massimi esperti di pissacjan o, così lo chiamano dalle sue parti, tale, lo trova anche sottoterra. «Me lo ha insegnato la nonna: quando vedi la terra mossa come una tana di talpe scava e lo trovi. Ha le foglie bianche ed è superlativo in insalata». Ma la specialità di Uanetto, titolare della trattoria Da Nando di Mortigliano, è il caviale carnico: «Usiamo i boccioli freschi per un risotto tipico, con salsiccia e caviale carnico. Oppure come condimento per gli gnocchi o nell’impasto dei cjarsons, i nostri tipici ravioli. Diventano una leccornìa raccolti e scottati in metà vino, un quarto di aceto di vino, un quarto di aceto di mele e sale quanto basta. Quando comincia la bollitura si pescano dal liquido, si asciugano con un canovaccio e si mettono in vasetto sott’olio, con una foglia di alloro e qualche grano di pepe nero. Uniti ai salumi diventano un antipasto da provare almeno una volta nella vita».Con i fiori di tarassaco si fa la marmellata e il cosiddetto «falso miele» o «miele non miele vegano»: una sostanza semiliquida dolce che ricorda il prodotto delle api e che può essere usata per confezionare dolci. E le radici? Cosa si usano? Per fare il caffè. Ce lo hanno insegnato le varie Petronilla e Nonna Clara (Lidia Morelli) dell’Italia autarchica colpita prima dalle «inique sanzioni» e poi dalla tragedia della guerra. Non potendo acquistare i chicchi di caffè di Porto Rico o di Santo Domingo, gli avi avevano fatto di necessità virtù: seccavano, tostavano e polverizzavano, oltre a varie altre erbe e radici, i rizomi del tarassaco per ricavarne un surrogato di caffè di gusto amarognolo che ricordava l’originale illudendo di bere quello. Il caffè di tarassaco c’è ancora: non ha caffeina e non sarà buono come l’arabica, è vero, ma ha effetti antinfiammatori, apporta vitamine e, soprattutto, inulina che aiuta il fegato a secernere più bile favorendo la motilità intestinale e mantenendone più vivace la flora batterica. Dai tristi tempi di indigenza agli odierni tempi più attenti alla salute, è cambiato solo il prezzo: il caffè con le radici tostate del dente di leone si fa ancora, ma costa molto di più.Bisogna attendere il medioevo perché vengano riconosciute le sue virtù diuretiche e depurative. Furono gli erboristi dell’evo di mezzo, a battezzarlo tarassaco rifacendosi a due parole greche per spiegare la fama della piantina di causare impellenti sfoghi idraulici: tarakè, che significa scompiglio, e akos, rimedio. In parole povere il tarassaco è una «medicina» che combatte il disordine corporale. Un’altra versione fa derivare il nome dalle parole arabe tarak e sahha: far pipì. Ma solo nel 1546 il botanico Hieronymus Bock dà la prima testimonianza scritta della proprietà diuretica del tarassaco. Suppergiù nello stesso tempo un farmacista tedesco descrive le proprietà depurative della piantina.Appartenente alla famiglia delle Asteraceae al nome Taràxacum viene l’aggettivo officinale, terapeutico. È talmente ricco di proprietà benefiche, soprattutto la taraxicina (ma anche potassio, vitamine B, C, E, fibra) che farmacisti ed erboristi lo trasformano in tisane, pastiglie, creme, pozioni, infusioni, decotti e lo usano per tutta una serie di cure: la tarassicoterapìa. Combatte i calcoli biliari, i reumatismi, l’insufficienza epatica: aiuta prima l’appetito e poi la digestione. È drenante, anticellulitico, antiemorrideo e... letterario.Il soffione ha ispirato delicate poesie. L’americana Emily Dickinson (1830-1886) paragona la sua vita a quella dell’uomo: «Il piccolo cappuccio etereo/ posato sulla sua testa/ modisteria flessibile/ di un dio sagace./ Fino a quando scivola via/ un nulla alla volta/ E il dramma del dente di leone/ esala in uno stelo». Cicely Mary Barker, romantica poetessa inglese, nel Libro delle fate dei fiori, dedica al dandelion questa bellissima poesia: «Guardate le mie foglie dentellate,/ soffiate le lancette del soffione/ guardate, fra le siepi, le mie ondate,/ guardate il prato, il sentiero,/ guardatemi in giardino, allegro e fiero!/ Raccoglietemi pure: io cresco ancora, / senza chieder permesso né scusarmi,/ che fate con le vostre zappe, allora?/ Non riuscirete mai ad estirparmi!/ Nessuno mi può fare impressione,/ perché io sono il Dente di Leone!».
Edoardo Raspelli (Getty Images)
Nel riquadro: Mauro Micillo, responsabile Divisione IMI Corporate & Investment Banking di Intesa Sanpaolo (Getty Images)
L'ex procuratore di Pavia Mario Venditti (Ansa)