
Il parametro del rapporto deficit-Pil al 3% fu deciso a tavolino in un'ora. Scelta politica e non economica, giocata sulla paura.Senza voler riscrivere la storia della moneta unica, anche in una stagione politica in cui si parla di uscita dall'euro e di riforma radicale delle norme Ue, e in cui qualcuno non certo «populista» o con l'anello al naso come il Regno Unito ha negoziato la cosiddetta Brexit, è doveroso ricordare come si è arrivati al capolavoro autolesionista di rilanciare in grande stile il nazionalismo in tutto il continente.Nel giugno del 1997 viene firmato il Patto di stabilità e crescita (Psc), nel quale la forma di coordinamento più stringente è rappresentata dal divieto di «disavanzi eccessivi». In pratica, il deficit pubblico di ogni singolo Paese membro non deve superare il 3 per cento del Pil e il debito pubblico deve mantenersi entro il 60 per cento. Casualmente, nel 1997 il rapporto debito pubblico-Pil della Germania era al 58,7 per cento e quello della Francia al 61. Quanto al deficit tedesco, nello stesso anno si trovava al 3 per cento, mentre quello di Parigi era al 3,1. Per la serie, «ci piace vincere facile». Nello stesso anno, quello di partenza del Psc, l'Italia aveva invece un rapporto debito-Pil al 122 per cento e un rapporto deficit-Pil al 2,8 per cento. Anche a non voler pensare male di certe coincidenze, resta quantomeno il fatto che i criteri in base ai quali si sono scelti questi parametri non sono mai stati davvero spiegati in modo convincente e «scientificamente falsificabile», come direbbe Karl Popper. Per esempio, secondo Thomas Piketty, «se non si calcolano gli attivi pubblici, e più in generale l'insieme del capitale nazionale, diventa molto difficile giustificare razionalmente questo o quel livello di debito pubblico».Quanto al deficit e al tetto del 3 per cento, si tratta di una tale assurdità che tanto vale partire direttamente dalla fine della storia, ovvero da quella volta che il suo inventore Guy Abeille, un economista francese che lavorava al ministero delle Finanze, si è confessato con il quotidiano Aujourd'hui en France-Le Parisien, raccontando una storia che ha dell'incredibile, ma che nessuno ha potuto smentire: Abbiamo stabilito la cifra del 3 per cento in meno di un'ora. È nata su un tavolo, senza alcuna riflessione teorica, nel 1981. François Mitterrand aveva bisogno di una regola facile da opporre ai ministri che si presentavano nel suo ufficio a chiedere denaro. [...] Avevamo bisogno di qualcosa di semplice. Tre per cento? È un buon numero, un numero storico che fa pensare alla Trinità. Prendemmo in considerazione i 100 miliardi del deficit pubblico di allora. Corrispondevano al 2,6 per cento del Pil. Ci siamo detti: un 1 per cento di deficit sarebbe troppo difficile e irraggiungibile. Il 2 per cento metterebbe il governo sotto troppa pressione. Siamo così arrivati al 3 per cento. […]Da quella sera del 1981 in cui il 3 per cento è uscito fuori un po' per caso, è diventato parte del paesaggio delle nostre vite. […] Questi vincoli così ben meditati vengono perfino rafforzati e nell'estate del 2012, ovvero al quinto anno consecutivo della grande crisi partita dagli Stati Uniti, il parlamento italiano approva il cosiddetto Fiscal compact, un nuovo trattato firmato da venticinque Stati che prevede il vincolo del pareggio di bilancio con il saldo strutturale (ovvero corretto a seconda della congiuntura economica) e l'impegno alla convergenza sul 60 per cento per il rapporto debito-Pil, a un ritmo medio di un ventesimo l'anno.Con il governo affidato da Giorgio Napolitano a Mario Monti senza passare dalle urne, e con una classe politica impaurita come non mai, già il 30 novembre 2011 l'ultimo vagoncino piombato in arrivo da Bruxelles giunge rapidamente a destinazione. Oltre a Pd e Lega, perfino i deputati di Forza Italia, pur convinti che la caduta del governo Berlusconi sia avvenuta per «un complotto internazionale» (vedi Renato Brunetta, lo stesso Silvio Berlusconi e molti altri), approvano a larghissima maggioranza la modifica all'articolo 81 della Costituzione (alla Camera 489 voti a favore, 3 contrari e 19 astenuti). E il fatto che sia stata superata la soglia dei due terzi dei parlamentari renderà impossibile anche il referendum costituzionale, previsto per confermare o bocciare la modifica della Carta. Che ora recita: «Lo Stato assicura l'equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico».[…] Nell'estate del 2011 l'allora ministro dell'Economia Giulio Tremonti promuove il Fiscal compact con scarso entusiasmo e pensando, probabilmente, che non sarebbe difficile da aggirare o forzare. Il capo del Pd, Pier Luigi Bersani, teme comunque la trappola e l'11 agosto avverte: «Non si parli di cose che non esistono in nessun posto al mondo, come il pareggio di bilancio in Costituzione. Non vogliamo castrarci nei secoli qualsiasi politica economica». Pochi mesi dopo, vinte a metà le elezioni generali, ecco giungere anche il suo via libera. […]Ma conviene tornare ai famosi parametri europei per capire come siano nate queste due percentuali magiche, queste due «montagne che erano lì», ovvero il 3 per cento e il 60 per cento. […] Carlo Azeglio Ciampi, da ministro del Tesoro dei governi di centrosinistra, partecipa ai negoziati di Maastricht e tenta invano di ottenere numeri meno irraggiungibili per l'Italia. Ma da ex banchiere centrale, che da trent'anni conosce e apprezza il collega della Bundesbank Hans Tietmeyer, alla fine si convince che la futura moneta unica dovrebbe avere «gli stessi requisiti di stabilità e la stessa forza di attrazione sui mercati finanziari del marco tedesco», perché diversamente «avremmo una tendenza alla fuga dei capitali», come spiega in un'intervista rilasciata a Die Welt. E conclude la chiacchierata con il quotidiano tedesco garantendo: «Per questo ci stiamo sforzando di soddisfare i parametri di Maastricht e non vogliamo farlo con trucchi di tecnica contabile, ma con riforme profonde».[…] Dopo un consolidamento fiscale a tappe forzate, il 30 dicembre 1996 il governo di Romano Prodi vara anche il Contributo straordinario per l'Europa, o Eurotassa, con un decreto di fine anno che implica una manovra tributaria da 4.300 miliardi di lire, necessaria per ridurre il disavanzo dello Stato dello 0,6 per cento e consentire ai conti pubblici il rispetto dei parametri di Maastricht e l'ingresso dell'Italia nell'area euro. Ma secondo un calcolo dell'ufficio studi della Fiat, citato dall'allora presidente onorario Gianni Agnelli nell'aprile del 1997, gli italiani avevano già pagato 420.000 miliardi di maggiori tasse a partire dal 1992. Eviteremo di dividere questa cifra mostruosa per i soliti 60 milioni di bipedi respiranti solo per non fomentare l'europiagnisteo. Tuttavia, a riprova che le motivazioni della convergenza a tappe forzate verso l'euro non erano meramente monetarie, lo stesso Agnelli riteneva che si trattasse «non di una questione di asettici parametri economici, ma di una scelta politica» ben precisa.E infatti il sospetto è che l'Italia sia entrata nella moneta unica in virtù di una «scelta politica ben precisa» (troppo grande per restare fuori, troppo pericolosa un'eventuale concorrenza commerciale con la lira tenuta bassa), nonostante fondamentali economici un po' dubbi. […] Anche Prodi aveva ben chiaro che i parametri erano irraggiungibili, specie quello sul debito, il quale per essere rispettato avrebbe richiesto nell'arco di soli due anni manovre per un milione di miliardi di lire, in modo da scendere dal 124 per cento al 60 per cento sul Pil. Ma il futuro presidente della Commissione Ue inaugura subito una lunga stagione di terrorismo psicologico, che dura tuttora quando si parla di uscita dall'euro, affermando che «rinunciare a Maastricht sarebbe un disastro».Di fronte agli evidenti effetti depressivi sull'economia di queste manovre di «rientro», il 27 febbraio 1997 il Professore va in Senato e si dà al negazionismo economico (e sociale): «L'Europa e la lotta alla disoccupazione non sono affatto in conflitto […]».Dovranno passare diciassette lunghi anni, in cui la disoccupazione arriva al 13 per cento, perché l'economista bolognese, ormai libero da cariche pubbliche e impegnato in un'intensa e soddisfacente attività di conferenziere e consulente tra la Cina e la Russia, si lasci scappare un aggettivo che farà scalpore: «stupido». È il 4 novembre 2014, in Italia da febbraio è al potere Matteo Renzi, che rispetto ai precedenti leader del Pd e del centrosinistra (a cominciare dal prodiano Enrico Letta) si mostra un minimo insofferente verso la «gabbia di Bruxelles», ed ecco che Prodi la dice tutta: «Ai tempi del trattato di Maastricht mi misero in croce, ora tutti mi danno ragione. Ma non è stupido che ci siano i parametri come punto di riferimento. È stupido che si lascino immutati vent'anni. Il 3 per cento di deficit-Pil ha senso in certi momenti, ma in altri sarebbe giusto lo zero, in altri il 4 o il 5 per cento. Un accordo presuppone una politica che lo gestisca e la politica non si fa con le tabelline».[…] Questa tardiva resipiscenza di Prodi alza il velo sul difetto più grave del trattato di Maastricht, ovvero la pretesa di decidere con formule cervellotiche, e però in sostanza immutabili, il futuro dell'Unione europea. Qualunque sia la maggioranza politica negli anni a venire. Di modo che, costruita una cornice tanto rigida e nascostamente ideologica, le singole elezioni nazionali vengono ancor più svuotate di significato.
(Guardia di Finanza)
I finanzieri del Comando Provinciale di Palermo, grazie a una capillare attività investigativa nel settore della lotta alla contraffazione hanno sequestrato oltre 10.000 peluches (di cui 3.000 presso un negozio di giocattoli all’interno di un noto centro commerciale palermitano).
I peluches, originariamente disegnati da un artista di Hong Kong e venduti in tutto il mondo dal colosso nella produzione e vendita di giocattoli Pop Mart, sono diventati in poco tempo un vero trend, che ha generato una corsa frenetica all’acquisto dopo essere stati indossati sui social da star internazionali della musica e del cinema.
In particolare, i Baschi Verdi del Gruppo Pronto Impiego, attraverso un’analisi sulla distribuzione e vendita di giocattoli a Palermo nonché in virtù del costante monitoraggio dei profili social creati dagli operatori del settore, hanno individuato sette esercizi commerciali che disponevano anche degli iconici Labubu, focalizzando l’attenzione soprattutto sul prezzo di vendita, considerando che gli originali, a seconda della tipologia e della dimensione vengono venduti con un prezzo di partenza di circa 35 euro fino ad arrivare a diverse migliaia di euro per i pezzi meno diffusi o a tiratura limitata.
A seguito dei preliminari sopralluoghi effettuati all’interno dei negozi di giocattoli individuati, i finanzieri ne hanno selezionati sette, i quali, per prezzi praticati, fattura e packaging dei prodotti destavano particolari sospetti circa la loro originalità e provenienza.
I controlli eseguiti presso i sette esercizi commerciali hanno fatto emergere come nella quasi totalità dei casi i Labubu fossero imitazioni perfette degli originali, realizzati con materiali di qualità inferiore ma riprodotti con una cura tale da rendere difficile per un comune acquirente distinguere gli esemplari autentici da quelli falsi. I prodotti, acquistati senza fattura da canali non ufficiali o da piattaforme e-commerce, perlopiù facenti parte della grande distribuzione, venivano venduti a prezzi di poco inferiori a quelli praticati per gli originali e riportavano loghi, colori e confezioni del tutto simili a questi ultimi, spesso corredati da etichette e codici identificativi non conformi o totalmente falsificati.
Questi elementi, oltre al fatto che in alcuni casi i negozi che li ponevano in vendita fossero specializzati in giocattoli originali di ogni tipo e delle più note marche, potevano indurre il potenziale acquirente a pensare che si trattasse di prodotti originali venduti a prezzi concorrenziali.
In particolare, in un caso, l’intervento dei Baschi Verdi è stato effettuato in un negozio di giocattoli appartenente a una nota catena di distribuzione all’interno di un centro commerciale cittadino. Proprio in questo negozio è stato rinvenuto il maggior numero di pupazzetti falsi, ben 3.000 tra esercizio e magazzino, dove sono stati trovati molti cartoni pieni sia di Labubu imbustati che di scatole per il confezionamento, segno evidente che gli addetti al negozio provvedevano anche a creare i pacchetti sorpresa, diventati molto popolari proprio grazie alla loro distribuzione tramite blind box, ossia scatole a sorpresa, che hanno creato una vera e propria dipendenza dall’acquisto per i collezionisti di tutto il mondo. Tra gli esemplari sequestrati anche alcune copie più piccole di un modello, in teoria introvabile, venduto nel mese di giugno a un’asta di Pechino per 130.000 euro.
Soprattutto in questo caso la collocazione all’interno di un punto vendita regolare e inserito in un contesto commerciale di fiducia, unita alla cura nella realizzazione delle confezioni, avrebbe potuto facilmente indurre in errore i consumatori convinti di acquistare un prodotto ufficiale.
I sette titolari degli esercizi commerciali ispezionati e destinatari dei sequestri degli oltre 10.000 Labubu falsi che, se immessi sul mercato avrebbero potuto fruttare oltre 500.000 euro, sono stati denunciati all’Autorità Giudiziaria per vendita di prodotti recanti marchi contraffatti.
L’attività s’inquadra nel quotidiano contrasto delle Fiamme Gialle al dilagante fenomeno della contraffazione a tutela dei consumatori e delle aziende che si collocano sul mercato in maniera corretta e che, solo nell’ultimo anno, ha portato i Baschi Verdi del Gruppo P.I. di Palermo a denunciare 37 titolari di esercizi commerciali e a sequestrare oltre 500.000 articoli contraffatti, tra pelletteria, capi d’abbigliamento e profumi recanti marchi delle più note griffe italiane e internazionali.
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Stefano Arcifa
Parla il neopresidente dell’Aero Club d’Italia: «Il nostro Paese primeggia in deltaplano, aeromodellismo, paracadutismo e parapendio. Rivorrei i Giochi della gioventù dell’aria».
Per intervistare Stefano Arcifa, il nuovo presidente dell’Aero Club d’Italia (Aeci), bisogna «intercettarlo» come si fa con un velivolo che passa alto e veloce. Dalla sua ratifica da parte del governo, avvenuta alla fine dell’estate, è sempre in trasferta per restare vicino ai club, enti federati e aggregati, che riuniscono gli italiani che volano per passione.
Arcifa, che cos’è l’Aero Club d’Italia?
«È il più antico ente aeronautico italiano, il riferimento per l’aviazione sportiva e turistica italiana, al nostro interno abbracciamo tutte le anime di chi ha passione per ciò che vola, dall’aeromodellismo al paracadutismo, dagli ultraleggeri al parapendio e al deltaplano. Da noi si insegna l’arte del volo con un’attenzione particolare alla sicurezza e al rispetto delle regole».
Riccardo Molinari (Ansa)
Il capogruppo leghista alla Camera: «Stiamo preparando un pacchetto sicurezza bis: rafforzeremo la legittima difesa ed estenderemo la legge anti sgomberi anche alla seconda casa. I militari nelle strade vanno aumentati».
«Vi racconto le norme in arrivo sul comparto sicurezza, vogliamo la legittima difesa “rinforzata” e nuove regole contro le baby gang. L’esercito nelle strade? I soldati di presidio vanno aumentati, non ridotti. Landini? Non ha più argomenti: ridicolo scioperare sulla manovra».
Riccardo Molinari, capogruppo della Lega alla Camera, la Cgil proclama l’ennesimo sciopero generale per il 12 dicembre.
«Non sanno più di cosa parlare. Esaurito il filone di Gaza dopo la firma della tregua, si sono gettati sulla manovra. Ma non ha senso».
Francesco Filini (Ansa)
Parla il deputato che guida il centro studi di Fdi ed è considerato l’ideologo del partito: «Macché, sono solo un militante e il potere mi fa paura. Da Ranucci accuse gravi e infondate. La sinistra aveva militarizzato la Rai».
Francesco Filini, deputato di Fratelli d’Italia, la danno in strepitosa ascesa.
«Faccio politica da oltre trent’anni. Non sono né in ascesa né in discesa. Contribuisco alla causa».
Tra le altre cose, è responsabile del programma di Fratelli d’Italia.
«Giorgia Meloni ha iniziato questa legislatura con un motto: “Non disturbare chi vuole fare”. Il nostro obiettivo era quello di liberare le energie produttive».






