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2022-10-01
Putin smembra l'Ucraina, poi offre la tregua
Vladimir Putin (Getty Images)
È stato un discorso duro quello pronunciato ieri dal presidente russo, Vladimir Putin, in occasione dell’annessione di quattro regioni ucraine finite sotto il controllo delle truppe di Mosca (Donetsk, Lugansk, Zhaporizhzhia e Kherson): un atto avvenuto dopo referendum giudicati illegali da Osce, Kiev e Occidente e formalizzato nel corso di una cerimonia al Cremlino, a cui hanno preso parte anche i leader filorussi delle stesse aree occupate (che costituiscono circa il 15% del territorio ucraino).
«Voglio che le autorità di Kiev e i loro veri padroni in Occidente mi ascoltino, in modo che lo ricordino. Le persone che vivono a Lugansk, Donetsk, Kherson e Zaporizhzhia stanno diventando nostri cittadini. Per sempre. Chiediamo al regime di Kiev di porre fine immediatamente alle ostilità, porre fine alla guerra che hanno scatenato nel 2014 e tornare al tavolo dei negoziati. Siamo pronti per questo. Ma non discuteremo della scelta delle persone. La Russia non le tradirà». Mosca, ha proseguito, «non vuole, né ha bisogno di un ritorno dell’Urss. l’amore per la Russia è un sentimento indistruttibile. Per questo anche i giovani nati dopo la tragedia della caduta dell’Urss hanno votato per l’annessione».
Il capo del Cremlino è poi andato all’attacco dell’«egemonia occidentale», la cui fine risulterebbe per lui «irreversibile»: «L’Occidente vuole renderci una colonia, vuole defraudarci, non vuole una cooperazione. Anche la nostra cultura li spaventa, il nostro fiorire è un pericolo per loro. Sta portando avanti una guerra ibrida contro la Russia». «Vogliamo che in Russia ci siano genitore 1 e genitore 2 invece di mamma e papà? Ma siamo impazziti?», ha continuato, definendo «satanica» la società occidentale, per poi aggiungere: «Facendole abbandonare le forniture di idrocarburi dalla Russia, gli Usa stanno portando l’Europa alla deindustrializzazione».
Il leader del Cremlino ha inoltre accusato gli anglosassoni di aver sabotato i gasdotti Nord Stream. «Agli anglosassoni non bastavano le sanzioni: si passa al sabotaggio. È difficile da credere, ma è un dato di fatto che hanno orchestrato le esplosioni sui gasdotti internazionali Nord Stream», ha detto, per poi dare anche il via libera alla vendita della partecipazione di Enel in Enel Russia a Lukoil e al fondo Gazprombank-Fresia.
Ora, è chiaro che, con questo discorso, Putin punta a conseguire alcuni obiettivi. Sotto il profilo militare, il capo del Cremlino spera di dissuadere gli ucraini da una controffensiva nel Donbass, facendo leva sull’attuale dottrina nucleare russa, che (in determinate circostanze) prevede l’uso dell’arma nucleare anche in caso di attacco convenzionale. Mosca spera quindi che Washington dissuada Kiev dal cercare di riprendere i territori annessi. In un simile quadro, lo zar ha di nuovo (ancorché indirettamente) ventilato la minaccia nucleare, sostenendo che gli Usa hanno «stabilito un precedente» a Hiroshima e Nagasaki.
Non è tuttavia detto che questa scommessa di deterrenza funzioni. Primo: è tutto da dimostrare che Kiev rinunci ipso facto al Donbass. Secondo: Turchia e Cina, che finora avevano spalleggiato la Russia, si sono mostrate freddissime nei confronti dei referendum degli scorsi giorni. Da questo punto di vista, Putin, che deve anche gestire un establishment russo attraversato da malumori, rischia quindi di alienarsi le simpatie di Paesi che sino ad oggi gli strizzavano l’occhio. Tutto ciò potenzialmente azzoppa la capacità di deterrenza di Mosca, perché riduce la probabilità che il leader russo possa realmente ricorrere al nucleare: uno scenario del genere porterebbe infatti proprio questi Paesi a sganciarsi dal Cremlino. Resta quindi verosimile solo il caso della mossa disperata (eventualità che comunque non può essere esclusa).
Ulteriore aspetto da considerare nel discorso di ieri è quello ideologico. Putin ha presentato il conflitto in corso come uno scontro valoriale tra Russia e Occidente. La mossa non è nuova e, oltre a esigenze di compattamento interno, mira ad alimentare un sentimento di avversione agli Stati Uniti d’America sul piano internazionale e, soprattutto, a rinsaldare l’asse tra Mosca e Pechino: un asse che, dal 4 febbraio, ha assunto una marcata impronta antiamericana e terzomondista. Anche qui lo zar rischia però un rovescio della medaglia.
In primis, la retorica terzomondista di Russia e Cina si sta sempre più palesando come assai scarsamente fondata: Mosca è oggi tra i principali fornitori di armi all’Africa e, soprattutto attraverso i mercenari del Wagner Group, sta intensificando la propria presenza politico-militare sull’Est della Libia e sul Sahel. In secondo luogo, Pechino è, sì, interessata a mettere in crisi l’ordine internazionale occidentale, ma punta a farlo partendo da una base pragmatica. Ora, come emerso dal vertice di Samarcanda, non è un mistero che Xi Jinping sia preoccupato da come il Cremlino stia conducendo la guerra. La freddezza del Dragone verso le ultime mosse di Putin potrebbe quindi essere dettata dal fatto che il leader cinese percepisca l’omologo russo come in crescente difficoltà: fattore che - se confermato- porterebbe prevedibilmente Pechino a un irrigidimento nei rapporti con il Cremlino. La situazione complessiva resta incerta, mentre la tensione cresce sulla scia delle annessioni. La sensazione è che Putin si stia giocando il tutto per tutto.
Zelensky ora ha fretta e cerca un rifugio nella Nato. Gli alleati però frenano
L’annessione delle regioni ucraine di Donetsk, Lugansk, Kherson e Zaporizhzhia, dopo i referendum voluti dalla Russia, incassa la secca bocciatura da parte della comunità internazionale. Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky si chiude a riccio e rifiuta ogni proposta di dialogo o di tregua avanzata dallo zar dopo la cerimonia di ieri. Zelensky ha chiarito che finché il presidente russo sarà Vladimir Putin non ci sarà alcun incontro. Al contempo, ha «spinto» sulla richiesta - che per un po’ era stata accantonata - di entrare a far parte della Nato. Freddina la risposta proveniente da fonti dell’Alleanza: «Gli alleati si consultano, discutono, ci sono criteri da rispettare e qualsiasi decisione di adesione deve essere collettiva. Poi servono le ratifiche nazionali, quindi nessuna corsia preferenziale per nessuno».
Il presidente ucraino, comunque, è certo di poter andare avanti e di prevalere su Mosca. «L’intero territorio del nostro Stato sarà liberato da questo nemico, il nemico non solo dell’Ucraina, ma anche della vita stessa, dell’umanità, della legge e della verità», ha dichiarato, stroncando ogni illusione circa possibili mediazioni di altri attori internazionali. «Con il tentativo di annettere quattro regioni ucraine, Putin cerca di impadronirsi di territori che non controlla nemmeno fisicamente sul terreno», ha a sua volta chiarito il ministro degli Esteri ucraino, Dmytro Kuleba.
In appoggio a Kiev è intervenuto l’alleato americano, condannando quello che Joe Biden ha definito «il fraudolento tentativo della Russia di annettersi il territorio sovrano ucraino». Biden ha lanciato nuove sanzioni, proprio in risposta ai proclami putiniani. «Sanzioni», ha proseguito il presidente americano, «che imporranno un costo su individui ed entità, fuori e dentro la Russia, che forniscono sostegno economico e politico ai tentativi illegali di cambiare lo status del territorio ucraino». Anche il governo britannico si è allineato sulle sanzioni. Il Foreign office ha annunciato che Mosca perderà l’accesso ai principali servizi occidentali da cui dipende e verrà introdotto il divieto di esportazione per quasi 700 beni che sono cruciali per le capacità industriali e tecnologiche russe. È stata poi sanzionata Elvira Nabiullina, la governatrice della Banca centrale della Federazione russa.
Immediata anche la reazione della Nato sull’annessione celebrata dal Cremlino, ma non sul possibile ingresso di Kiev nell’Alleanza atlantica. Il segretario, Jens Stoltenberg (secondo cui «è necessaria l’unanimità» per l’ingresso nel Patto di un nuovo soggetto), ha parlato con il presidente Zelensky e ha chiarito che «gli alleati della Nato sono incrollabili nel sostegno alla sovranità e al diritto di autodifesa dell’Ucraina». Stoltenberg si è trovato in perfetta armonia, sul punto, con il Consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, Jake Sullivan.
A sua volta l’Onu, tirata in ballo da Biden e da tutti gli attori internazionali, ha fatto sentire la sua voce. «La Carta delle Nazioni Unite è chiara. Qualsiasi annessione del territorio di uno Stato da parte di un altro Stato risultante dalla minaccia o dall’uso della forza costituisce una violazione dei principi della Carta delle Nazioni Unite e del diritto internazionale», ha spiegato il segretario generale, Antonio Guterres. La maggioranza dei Paesi che compongono il Consiglio di sicurezza, del resto, ha già definito il voto per l’annessione «una farsa». Guterres ha poi voluto ricordare la speciale posizione che la Russia occupa come membro fondatore dell’Onu e del Consiglio di sicurezza: «La Federazione russa, in quanto uno dei cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza, condivide una particolare responsabilità nel rispetto della Carta.. I cosiddetti “referenda” nelle regioni occupate sono stati condotti durante un conflitto armato attivo, in aree sotto l’occupazione russa e al di fuori del quadro giuridico e costituzionale dell’Ucraina. Per questo motivo non possono essere definiti un’espressione genuina della volontà popolare».
Interessante la posizione della Cina, che comunque resta legata a filo doppio a Putin per interessi economici e strategici ma non si lascia trascinare nella «trappola» di un «sì» all’annessione. «Abbiamo sempre sostenuto che l’integrità sovrana e territoriale di tutti i Paesi dovrebbe essere rispettata», così come «gli scopi e i principi della Carta dell’Onu», ha detto il portavoce del ministro degli Esteri, Wang Wenbin. Wang, che ha ricordato che Pechino non si tirerà indietro rispetto al ruolo a livello internazionale. «Saremo sempre dalla parte della pace e continueremo a svolgere un ruolo costruttivo nell’attenuare la situazione», ha assicurato il portavoce.
Anche l’Ue ha condannato in blocco l’annessione. L’Alto rappresentante dell’Ue per la politica estera, Josep Borrell, ha parlato di «violazione della sovranità e dell’integrità territoriale dell’Ucraina in un contesto di violazioni sistematiche dei diritti umani». Per l’Italia, la probabile futura premier Giorgia Meloni ha ribadito la vicinanza a Zelensky, già manifestata al momento della sua vittoria alle elezioni. «La dichiarazione di annessione dopo i referendum farsa svoltisi sotto violenta occupazione militare non ha alcun valore giuridico o politico», ha dichiarato la leader di Fdi. Che ha incassato il ringraziamento di Kiev «per la sua posizione chiara». «La Germania non riconoscerà mai l’esito dei referendum», ha detto infine il cancelliere tedesco Olaf Scholz.
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Riduci
Lo zar celebra l’annessione di Donetsk, Lugansk, Zhaporizhzhia e Kherson. Avverte: «Questi cittadini sono russi per sempre». E attacca l’Occidente: «Vorrebbe imporre genitore 1 e genitore 2 pure da noi».Volodymyr Zelensky ora ha fretta e cerca un rifugio nella Nato. Gli alleati però frenano. Il presidente degli invasi rifiuta il dialogo. Ma registra la freddezza del Patto atlantico: «Nessuna corsia preferenziale per entrare». Usa, Ue e Onu condannano l’annessione.Lo speciale comprende due articoli.È stato un discorso duro quello pronunciato ieri dal presidente russo, Vladimir Putin, in occasione dell’annessione di quattro regioni ucraine finite sotto il controllo delle truppe di Mosca (Donetsk, Lugansk, Zhaporizhzhia e Kherson): un atto avvenuto dopo referendum giudicati illegali da Osce, Kiev e Occidente e formalizzato nel corso di una cerimonia al Cremlino, a cui hanno preso parte anche i leader filorussi delle stesse aree occupate (che costituiscono circa il 15% del territorio ucraino). «Voglio che le autorità di Kiev e i loro veri padroni in Occidente mi ascoltino, in modo che lo ricordino. Le persone che vivono a Lugansk, Donetsk, Kherson e Zaporizhzhia stanno diventando nostri cittadini. Per sempre. Chiediamo al regime di Kiev di porre fine immediatamente alle ostilità, porre fine alla guerra che hanno scatenato nel 2014 e tornare al tavolo dei negoziati. Siamo pronti per questo. Ma non discuteremo della scelta delle persone. La Russia non le tradirà». Mosca, ha proseguito, «non vuole, né ha bisogno di un ritorno dell’Urss. l’amore per la Russia è un sentimento indistruttibile. Per questo anche i giovani nati dopo la tragedia della caduta dell’Urss hanno votato per l’annessione». Il capo del Cremlino è poi andato all’attacco dell’«egemonia occidentale», la cui fine risulterebbe per lui «irreversibile»: «L’Occidente vuole renderci una colonia, vuole defraudarci, non vuole una cooperazione. Anche la nostra cultura li spaventa, il nostro fiorire è un pericolo per loro. Sta portando avanti una guerra ibrida contro la Russia». «Vogliamo che in Russia ci siano genitore 1 e genitore 2 invece di mamma e papà? Ma siamo impazziti?», ha continuato, definendo «satanica» la società occidentale, per poi aggiungere: «Facendole abbandonare le forniture di idrocarburi dalla Russia, gli Usa stanno portando l’Europa alla deindustrializzazione». Il leader del Cremlino ha inoltre accusato gli anglosassoni di aver sabotato i gasdotti Nord Stream. «Agli anglosassoni non bastavano le sanzioni: si passa al sabotaggio. È difficile da credere, ma è un dato di fatto che hanno orchestrato le esplosioni sui gasdotti internazionali Nord Stream», ha detto, per poi dare anche il via libera alla vendita della partecipazione di Enel in Enel Russia a Lukoil e al fondo Gazprombank-Fresia.Ora, è chiaro che, con questo discorso, Putin punta a conseguire alcuni obiettivi. Sotto il profilo militare, il capo del Cremlino spera di dissuadere gli ucraini da una controffensiva nel Donbass, facendo leva sull’attuale dottrina nucleare russa, che (in determinate circostanze) prevede l’uso dell’arma nucleare anche in caso di attacco convenzionale. Mosca spera quindi che Washington dissuada Kiev dal cercare di riprendere i territori annessi. In un simile quadro, lo zar ha di nuovo (ancorché indirettamente) ventilato la minaccia nucleare, sostenendo che gli Usa hanno «stabilito un precedente» a Hiroshima e Nagasaki. Non è tuttavia detto che questa scommessa di deterrenza funzioni. Primo: è tutto da dimostrare che Kiev rinunci ipso facto al Donbass. Secondo: Turchia e Cina, che finora avevano spalleggiato la Russia, si sono mostrate freddissime nei confronti dei referendum degli scorsi giorni. Da questo punto di vista, Putin, che deve anche gestire un establishment russo attraversato da malumori, rischia quindi di alienarsi le simpatie di Paesi che sino ad oggi gli strizzavano l’occhio. Tutto ciò potenzialmente azzoppa la capacità di deterrenza di Mosca, perché riduce la probabilità che il leader russo possa realmente ricorrere al nucleare: uno scenario del genere porterebbe infatti proprio questi Paesi a sganciarsi dal Cremlino. Resta quindi verosimile solo il caso della mossa disperata (eventualità che comunque non può essere esclusa). Ulteriore aspetto da considerare nel discorso di ieri è quello ideologico. Putin ha presentato il conflitto in corso come uno scontro valoriale tra Russia e Occidente. La mossa non è nuova e, oltre a esigenze di compattamento interno, mira ad alimentare un sentimento di avversione agli Stati Uniti d’America sul piano internazionale e, soprattutto, a rinsaldare l’asse tra Mosca e Pechino: un asse che, dal 4 febbraio, ha assunto una marcata impronta antiamericana e terzomondista. Anche qui lo zar rischia però un rovescio della medaglia. In primis, la retorica terzomondista di Russia e Cina si sta sempre più palesando come assai scarsamente fondata: Mosca è oggi tra i principali fornitori di armi all’Africa e, soprattutto attraverso i mercenari del Wagner Group, sta intensificando la propria presenza politico-militare sull’Est della Libia e sul Sahel. In secondo luogo, Pechino è, sì, interessata a mettere in crisi l’ordine internazionale occidentale, ma punta a farlo partendo da una base pragmatica. Ora, come emerso dal vertice di Samarcanda, non è un mistero che Xi Jinping sia preoccupato da come il Cremlino stia conducendo la guerra. La freddezza del Dragone verso le ultime mosse di Putin potrebbe quindi essere dettata dal fatto che il leader cinese percepisca l’omologo russo come in crescente difficoltà: fattore che - se confermato- porterebbe prevedibilmente Pechino a un irrigidimento nei rapporti con il Cremlino. La situazione complessiva resta incerta, mentre la tensione cresce sulla scia delle annessioni. 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Zelensky ha chiarito che finché il presidente russo sarà Vladimir Putin non ci sarà alcun incontro. Al contempo, ha «spinto» sulla richiesta - che per un po’ era stata accantonata - di entrare a far parte della Nato. Freddina la risposta proveniente da fonti dell’Alleanza: «Gli alleati si consultano, discutono, ci sono criteri da rispettare e qualsiasi decisione di adesione deve essere collettiva. Poi servono le ratifiche nazionali, quindi nessuna corsia preferenziale per nessuno». Il presidente ucraino, comunque, è certo di poter andare avanti e di prevalere su Mosca. «L’intero territorio del nostro Stato sarà liberato da questo nemico, il nemico non solo dell’Ucraina, ma anche della vita stessa, dell’umanità, della legge e della verità», ha dichiarato, stroncando ogni illusione circa possibili mediazioni di altri attori internazionali. «Con il tentativo di annettere quattro regioni ucraine, Putin cerca di impadronirsi di territori che non controlla nemmeno fisicamente sul terreno», ha a sua volta chiarito il ministro degli Esteri ucraino, Dmytro Kuleba. In appoggio a Kiev è intervenuto l’alleato americano, condannando quello che Joe Biden ha definito «il fraudolento tentativo della Russia di annettersi il territorio sovrano ucraino». Biden ha lanciato nuove sanzioni, proprio in risposta ai proclami putiniani. «Sanzioni», ha proseguito il presidente americano, «che imporranno un costo su individui ed entità, fuori e dentro la Russia, che forniscono sostegno economico e politico ai tentativi illegali di cambiare lo status del territorio ucraino». Anche il governo britannico si è allineato sulle sanzioni. Il Foreign office ha annunciato che Mosca perderà l’accesso ai principali servizi occidentali da cui dipende e verrà introdotto il divieto di esportazione per quasi 700 beni che sono cruciali per le capacità industriali e tecnologiche russe. È stata poi sanzionata Elvira Nabiullina, la governatrice della Banca centrale della Federazione russa. Immediata anche la reazione della Nato sull’annessione celebrata dal Cremlino, ma non sul possibile ingresso di Kiev nell’Alleanza atlantica. Il segretario, Jens Stoltenberg (secondo cui «è necessaria l’unanimità» per l’ingresso nel Patto di un nuovo soggetto), ha parlato con il presidente Zelensky e ha chiarito che «gli alleati della Nato sono incrollabili nel sostegno alla sovranità e al diritto di autodifesa dell’Ucraina». Stoltenberg si è trovato in perfetta armonia, sul punto, con il Consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, Jake Sullivan. A sua volta l’Onu, tirata in ballo da Biden e da tutti gli attori internazionali, ha fatto sentire la sua voce. «La Carta delle Nazioni Unite è chiara. Qualsiasi annessione del territorio di uno Stato da parte di un altro Stato risultante dalla minaccia o dall’uso della forza costituisce una violazione dei principi della Carta delle Nazioni Unite e del diritto internazionale», ha spiegato il segretario generale, Antonio Guterres. La maggioranza dei Paesi che compongono il Consiglio di sicurezza, del resto, ha già definito il voto per l’annessione «una farsa». Guterres ha poi voluto ricordare la speciale posizione che la Russia occupa come membro fondatore dell’Onu e del Consiglio di sicurezza: «La Federazione russa, in quanto uno dei cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza, condivide una particolare responsabilità nel rispetto della Carta.. I cosiddetti “referenda” nelle regioni occupate sono stati condotti durante un conflitto armato attivo, in aree sotto l’occupazione russa e al di fuori del quadro giuridico e costituzionale dell’Ucraina. Per questo motivo non possono essere definiti un’espressione genuina della volontà popolare». Interessante la posizione della Cina, che comunque resta legata a filo doppio a Putin per interessi economici e strategici ma non si lascia trascinare nella «trappola» di un «sì» all’annessione. «Abbiamo sempre sostenuto che l’integrità sovrana e territoriale di tutti i Paesi dovrebbe essere rispettata», così come «gli scopi e i principi della Carta dell’Onu», ha detto il portavoce del ministro degli Esteri, Wang Wenbin. Wang, che ha ricordato che Pechino non si tirerà indietro rispetto al ruolo a livello internazionale. «Saremo sempre dalla parte della pace e continueremo a svolgere un ruolo costruttivo nell’attenuare la situazione», ha assicurato il portavoce. Anche l’Ue ha condannato in blocco l’annessione. L’Alto rappresentante dell’Ue per la politica estera, Josep Borrell, ha parlato di «violazione della sovranità e dell’integrità territoriale dell’Ucraina in un contesto di violazioni sistematiche dei diritti umani». Per l’Italia, la probabile futura premier Giorgia Meloni ha ribadito la vicinanza a Zelensky, già manifestata al momento della sua vittoria alle elezioni. «La dichiarazione di annessione dopo i referendum farsa svoltisi sotto violenta occupazione militare non ha alcun valore giuridico o politico», ha dichiarato la leader di Fdi. Che ha incassato il ringraziamento di Kiev «per la sua posizione chiara». «La Germania non riconoscerà mai l’esito dei referendum», ha detto infine il cancelliere tedesco Olaf Scholz.
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Prima di essere lapidati da musicofili inflessibili o da fanatici ammiratori di Beethoven (lo siamo anche noi) lasciamo allo stesso Ludwig Vchean l’ultima parola sull’argomento: «Solo i puri di cuore», affermò il genio tedesco, «possono cucinare una buona zuppa». Capito? Il sommo compositore a tavola amava i piatti semplici e disprezzava quelli troppo complicati. Adorava la zuppa, soprattutto quella di pane e uova: era il suo piatto preferito insieme ai maccheroni con il formaggio. Era sordo, ma le papille gustative gli funzionavano alla grande.
Una vera e propria zuppa di verdure musicale la serve al pubblico un gruppo austriaco formato da musicisti, designer, scenografi, autori. Si chiama The Vegetable Orchestra, che usa le verdure come strumenti musicali: una carota intagliata in una certa maniera diventa un flauto, la zucca uno strumento di percussione, le melanzane diventano dopo un sapiente lavoro di intaglio delle nacchere, le zucchine strumenti a fiato e così via. Con questi strumenti suonano pezzi di jazz o di dub, un genere musicale che deriva dal reggae giamaicano, e altra musica. Finito il concerto, dopo gli applausi del pubblico stupito da tanta musica «verde», i musicisti si trasformano in cuochi, gettano gli strumenti in pentoloni e preparano una bella zuppa per il pubblico dopo aver lavato gli strumenti, soprattutto quelli a fiato.
La zuppa vanta una storia vecchia come l’homo sapiens. Fu uno dei primi piatti elaborati dai nostri cavernicoli progenitori centinaia di migliaia di anni fa. Gli studiosi del periodo paleolitico ci documentano che la scoperta dell’acqua calda e il suo impiego per cuocere verdure e altri cibi avvenne nell’età della pietra antica, in incavi di roccia pieni d’acqua nella quale gli uomini primitivi tuffavano pietre roventi per farla bollire. Fu così che nacquero i primi minestroni. La parola «zuppa» arriverà molti millenni dopo, ma sempre in tempi molto antichi rispetto a noi, mutuata dal termine germanico suppa che definiva la fetta di pane inzuppata. Il pane era nell’antichità il cucchiaio dei poveri, le dita della mano la forchetta. La «posateria» delle classi più umili era tutta lì. Una sorta di brodaglia nera molto spartana chiamata melas zomos, nera zuppa, fatta con sangue di porco, budella e vino era la zuppa dei duri soldati di Sparta. A loro, che non cercavano mollezze, piaceva così, brutta da vedere ma semplice e nutriente, adatta a sostenere il fisico durante le campagne militari. Spostandoci in altre parti dell’antica penisola ellenica troviamo una cucina meno rigorosa, ma sempre con un menu nel quale zuppe e piatti brodosi a base di verdure, cereali, erbe spontanee e legumi vari, abbondavano.
Cotture e metodi a parte, quelle preparazioni sono le bis-bis-bisnonne delle zuppe che mangiamo noi oggi fatte, come allora, con cereali tipo orzo e farro, o con legumi, ceci, lenticchie, fave. Borlotti e cannellini erano al di là dell’Atlantico che aspettavano di essere scoperti. Il Phaseolus vulgaris arriverà dopo i viaggi di Colombo e degli altri viaggiatori su caravelle dirette verso il Nuovo mondo. Dalla Grecia a Roma le zuppe sostanzialmente non cambiano: erano piatti che facevano parte della dieta quotidiana dei Romani. Fonti di proteine e nutrienti, erano il comfort food delle classi plebee e dei contadini. Tra le altre zuppe, i legionari amavano quella fatta con pane, aglio, olio e aceto. Furono loro a introdurla in Spagna dove si evolverà fino a diventare il moderno gazpacho, zuppa fredda che si arricchì dal Cinquecento in poi con il pomodoro e i peperoni venuti dall’America.
Una zuppa leggendaria è la soupe à la pavoise, la zuppa pavese, che ha trovato posto nei libri di storia gastronomica dove si racconta di Francesco I di Valois, re di Francia sconfitto e fatto prigioniero dagli spagnoli di Carlo V nella battaglia di Pavia del 24 febbraio 1525. L’accasciato François du grand nez, come lo chiamavano i suoi sudditi per via del nasone che gli troneggiava sopra la bocca, fu portato dai nemici vincitori in un cascinale di campagna dove trovò ristoro e consolazione nella povera zuppa preparatogli dalla contadina del casolare che mise in una rozza scodella due croste di pane raffermo sopra le quali scocciò un uovo versando poi sul tutto il brodo bollente di erbe spontanee che gorgogliava quotidianamente nella marmitta sul camino. Francesco I, con il morale a terra per la sconfitta («Tutto è perduto fuorché l’onore»), apprezzò talmente quella zuppa villana che quando ritornò sul trono convocò i cuochi di corte insegnando loro la ricetta della zuppa pavese che fu perfezionata dagli chef i quali aggiunsero altri ingredienti ricchi elevandola da contadina che era ad aristocratica.
C’è da dire che la zuppa in Francia troverà il successo che merita grazie a una figura più leggendaria che reale, tale Monsieur Boulanger marchand de bouillon, mercante di brodo. Siamo a Parigi 25 anni prima della presa della Bastiglia e dello scoppio della rivoluzione. Il mitico Boulanger vende zuppe restaurateurs, restauratrici, che sistemano lo stomaco dei clienti cagionevoli rimettendoli in salute in un ambiente tutto sommato comodo con i tavoli accoglienti. Nasce da queste zuppe il restaurant, il ristorante che prende il nome dal ristoro, il conforto, che regalano le zuppe. Dando ragione in questo all’antico e saggio proverbio italiano regalatoci dalla civiltà contadina fin dal Medioevo: «Sette cose fa la zuppa: cava la fame e la sete tutta, empie il ventre, netta il dente, fa dormire, fa smaltire e la guancia fa arrossire».
Il più alto riconoscimento a questo piatto umile ma tanto utile alla sopravvivenza della povera umanità, lo firmano, tra gli altri, alcuni grandi artisti moderni: Paul Cézanne con la sua Natura morta con zuppiera (1884), Pablo Picasso che affronta il tema della povertà ne La zuppa, opera del periodo blu che mostra una vecchia paurosamente magra che porge una scodella di zuppa a una bambina, ma soprattutto Andy Warhol. Il re della Pop art che confessò di aver mangiato a pranzo per vent’anni i barattoloni di zuppa Campbell’s rivoluzionò i concetti di natura morta e di bellezza immortalando le stesse lattine zuppesche in una serie di opere seriali la più importante delle quali è la Campbell’s Soup Cans che presenta tutta la produzione di zuppe della Cambell’s: al pomodoro, agli asparagi, alla carne, al pollo, ai fagioli neri, e così via per 200 volte. Paradossalmente a dare importanza alla zuppa nell’arte sono stati anche le attiviste per il clima che il 28 gennaio dello scorso anno lanciarono la zuppa contro la Gioconda di Leonardo, ben protetta dal vetro antiguai, invocando un’agricoltura mondiale sana.
È profondamente ingiusto nei confronti della zuppa il detto «Se non è zuppa è pan bagnato». Come sopra detto la zuppa è salvifica, ristoratrice, ristoro e medicina attraverso i secoli dell’umanità misera. E poi la famiglia zuppesca è molto varia. Oltre alla zuppa-madre ci sono la minestra, il minestrone, la crema, la vellutata, il passato. Non sono sinonimi, ogni piatto ha la sua caratteristica che riguarda gli ingredienti e le tecniche di preparazione per le quali rimandiamo ai libri di cucina.
Concludiamo con la mistica zen. Un allievo chiede al maestro: «Cosa devo fare per raggiungere l’Illuminazione?». Gli risponde il maestro: «Hai mangiato la zuppa?» «Sì». «Allora lava la scodella».
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Gabriele D'Annunzio (Ansa)
Il patrimonio mondiale dell’umanità rappresentato dalla cucina italiana sarà pure «immateriale», come da definizione Unesco, ma è fatto di carne, ossa, talento e creatività. È il risultato delle centinaia di migliaia di persone che, nel corso dei secoli e dei millenni, hanno affinato tecniche, scoperto ingredienti, assemblato gusti, allevato animali con amore e coltivato la terra con altrettanta dedizione. Insomma, dietro la cucina italiana ci sono... gli italiani.
Ed è a tutti questi peones e protagonisti della nostra storia che il riconoscimento va intestato. Ma anche a chi assapora le pietanze in un ristorante, in un bistrot o in un agriturismo. Alla fine, se ci si pensa, la cucina italiana siamo tutti noi: sono i grandi chef come le mamme o le nonne che si danno da fare tra le padelle della cucina. Sono i clienti dei ristoranti, gli amanti dei formaggi come dei salumi. Sono i giornalisti che fanno divulgazione, sono i fotografi che immortalano i piatti, sono gli scrittori che dedicano pagine e pagine delle loro opere ai manicaretti preferiti dal protagonista di questo o quel romanzo. Insomma, la cucina è cultura, identità, passato e anche futuro.
Giancarlo Saran, gastropenna di questo giornale, ha dato alle stampe Peccatori di gola 2 (Bolis edizioni, 18 euro, seguito del fortunato libro uscito nel 2024 vincitore del Premio selezione Bancarella cucina), volume contenente 13 ritratti di personaggi di spicco del mondo dell’italica buona tavola («Un viaggio curioso e goloso tra tavola e dintorni, con illustri personaggi del Novecento compresi alcuni insospettabili», sentenzia l’autore sulla quarta di copertina). Ci sono il «fotografo» Bob Noto e l’attore Ugo Tognazzi, l’imprenditore Giancarlo Ligabue e gli scrittori Gabriele D’Annunzio, Leonardo Sciascia e Andrea Camilleri. E poi ancora Lella Fabrizi (la sora Lella), Luciano Pavarotti, Pietro Marzotto, Gianni Frasi, Alfredo Beltrame, Giuseppe Maffioli, Pellegrino Artusi.
Un giro d’Italia culinario, quello di Saran, che testimonia come il riconoscimento Unesco potrebbe dare ulteriore valore al nostro made in Italy, con risvolti di vario tipo: rispetto dell’ambiente e delle nostre tradizioni, volano per l’economia e per il turismo, salvaguardia delle radici dal pericolo di una appiattente omologazione sociale e culturale. Sfogliando Peccatori 2, si può possono scovare, praticamente a ogni pagina, delle chicche. Tipo, la passione di D’Annunzio per le uova e la frittata. Scrive Saran: «D’Annunzio aveva un’esperienza indelebile legata alle frittate, che ebbe occasione di esercitare in diretta nelle giornate di vacanza a Francavilla con i suoi giovani compagni di ventura in cui, a rotazione, erano chiamati “l’uno a sfamare tutti gli altri”. Lasciamogli la cronaca in diretta. Chi meglio di lui. “In un pomeriggio di luglio ci attardavamo nella delizia del bagno quando mi fu rammentato, con le voci della fame, toccare a me le cura della cucina”. La affronta come si deve. “Non mancai di avvolgermi in una veste di lino rapita a Ebe”, la dea della giovinezza, “e di correre verso la vasta dimora costruita di tufo e adornata di maioliche paesane”. Non c’è storia: “Ruppi trentatré uova e, dopo averle sbattute, le agguagliai (mischiai) nella padella dal manico di ferro lungo come quello di una chitarra”. La notte è illuminata dal chiaro di luna che si riflette sulle onde, silenziose in attesa, e fu così che “adunai la sapienza e il misurato vigore... e diedi il colpo attentissimo a ricevere la frittata riversa”. Ma nulla da fare, questa, volando nel cielo non ricadde a terra, ovvero sulla padella. E qui avviene il miracolo laico. “Nel volgere gli occhi al cielo scorsi nel bagliore del novilunio la tunica e l’ala di un angelo”. Il finale conseguente. “L’angelo, nel passaggio, aveva colta la frittata in aria, l’aveva rapita, la sosteneva con le dita” con la missione imperativa di recarla ai Beati, “offerta di perfezione terrestre...”, di cui lui era stato (seppur involontario) protagonista. “Io mi vanto maestro insuperabile nell’arte della frittata per riconoscimento celestiale”.
La buona e sana cucina, dunque, ha come traino produttori e ristoratori «ma ancor più valore aggiunto deriva da degni ambasciatori e, con questo, i Peccatori di gola credo meritino piena assoluzione», conclude l’autore.
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Dal primo luglio 2026, in tutta l’Unione europea entrerà in vigore un contributo fisso di tre euro per ciascun prodotto acquistato su internet e spedito da Paesi extra-Ue, quando il valore della spedizione è inferiore a 150 euro. L’orientamento politico era stato definito già il mese scorso; la riunione di ieri del Consiglio Ecofin (12 dicembre) ne ha reso operativa l’applicazione, stabilendone i criteri.
Il prelievo di 3 euro si applicherà alle merci in ingresso nell’Unione europea per le quali i venditori extra-Ue risultano registrati allo sportello unico per le importazioni (Ioss) ai fini Iva. Secondo fonti di Bruxelles, questo perimetro copre «il 93% di tutti i flussi di e-commerce verso l’Ue».
In realtà, la misura non viene presentata direttamente come un’iniziativa mirata contro la Cina, anche se è dalla Repubblica Popolare che proviene la quota maggiore di pacchi. Una delle preoccupazioni tra i ministri è che parte della merce venga immessa nel mercato unico a prezzi artificialmente bassi, anche attraverso pratiche di sottovalutazione, per aggirare le tariffe che si applicano invece alle spedizioni oltre i 150 euro. La Commissione europea stima che nel 2024 il 91% delle spedizioni e-commerce sotto i 150 euro sia arrivato dalla Cina; inoltre, valutazioni Ue indicano che fino al 65% dei piccoli pacchi in ingresso potrebbe essere dichiarato a un valore inferiore al reale per evitare i dazi doganali.
«La decisione sui dazi doganali per i piccoli pacchi in arrivo nell’Ue è importante per garantire una concorrenza leale ai nostri confini nell’era odierna dell’e-commerce», ha detto il commissario per il Commercio, Maroš Šefčovič. Secondo il politico slovacco, «con la rapida espansione dell’e-commerce, il mondo sta cambiando rapidamente e abbiamo bisogno degli strumenti giusti per stare al passo».
La decisione finale da parte di Bruxelles arriva dopo un iter normativo lungo cinque anni. La Commissione europea aveva messo sul tavolo, nel maggio 2023, la cancellazione dell’esenzione dai dazi doganali per i pacchi con valore inferiore a 150 euro, inserendola nel pacchetto di riforma doganale. Nella versione originaria, l’entrata in vigore era prevista non prima della metà del 2028. Successivamente, il Consiglio ha formalizzato l’abolizione dell’esenzione il 13 novembre 2025, chiedendo però di anticipare l’applicazione già al 2026.
C’è poi un secondo balzello messo a punto dall’esecutivo Meloni. Si tratta di un emendamento che prevede l’introduzione di un contributo fisso di due euro per ogni pacco spedito con valore dichiarato fino a 150 euro.
La misura, però, non sarebbe limitata ai soli invii provenienti da Paesi extra-Ue. Rispetto alle ipotesi circolate in precedenza, l’impostazione è stata ampliata: se approvata, la tassa finirebbe per applicarsi a tutte le spedizioni di piccoli pacchi, indipendentemente dall’origine, quindi anche a quelle spedite dall’Italia. In origine, l’idea sembrava mirata soprattutto a intercettare le micro-spedizioni generate da piattaforme come Shein o Temu. Il punto, però, è che colpire esclusivamente i pacchi extra-europei avrebbe reso la misura assimilabile a un dazio, materia che rientra nella competenza dell’Unione europea e non dei singoli Stati membri. Per evitare questo profilo di incompatibilità, l’emendamento alla manovra 2026 ha quindi «generalizzato» il prelievo, estendendolo all’intero perimetro delle spedizioni. L’effetto pratico è evidente: la tassa non impatterebbe solo sulle piattaforme asiatiche, ma anche sugli acquisti effettuati su Amazon, eBay e, in generale, su qualsiasi negozio online che spedisca pacchi entro quella soglia di valore dichiarato.
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Insomma: il vento è cambiato. E non spinge più la solita, ingombrante, vela francese che negli ultimi anni si era abituata a intendere l’Italia come un’estensione naturale della Rive Gauche.
E invece no. Il pendolo torna indietro. E con esso tornano anche ricordi e fantasie: Piersilvio Berlusconi sogna la Francia. Non quella dei consessi istituzionali, ma quella di quando suo padre, l’unico che sia riuscito a esportare il varietà italiano oltre le Alpi, provò l’avventura di La Cinq.
Una televisione talmente avanti che il presidente socialista François Mitterrand, per non farla andare troppo lontano, decise di spegnerla. Letteralmente.
Erano gli anni in cui gli italiani facevano shopping nella grandeur: Gianni Agnelli prese una quota di Danone e Raul Gardini mise le mani sul più grande zuccherificio francese, giusto per far capire che il gusto per il raffinato non ci era mai mancato. Oggi al massimo compriamo qualche croissant a prezzo pieno.
Dunque, Berlusconi – quello junior, stavolta – può dirlo senza arrossire: «La Francia sarebbe un sogno». Si guarda intorno, valuta, misura il terreno: Tf1 e M6.
La prima, dice, «ha una storia imprenditoriale solida»: niente da dire, anche le fortezze hanno i loro punti deboli. Con la seconda, «una finta opportunità». Tradotto: l’affare che non c’è, ma che ti fa perdere lo stesso due settimane di telefonate.
Il vero punto, però, è che mentre noi guardiamo a Parigi, Parigi si deve rassegnare. Lo dimostra il clamoroso stop di Crédit Agricole su Bpm, piantato lì come un cartello stradale: «Fine delle ambizioni». Con Bank of America che conferma la raccomandazione «Buy» su Mps e alza il target price a 11 euro. E non c’è solo questo. Natixis ha dovuto rinunciare alla cassaforte di Generali dov’è conservata buona parte del risparmio degli italiani. Vivendi si è ritirata. Tim è tornata italiana.
Il pendolo, dicevamo, ha cambiato asse. E spinge ben più a Ovest. Certo Parigi rimane il più importante investitore estero in Italia. Ma il vento della geopolitica e cambiato. Il nuovo asse si snoda tra Washington e Roma Gli americani non stanno bussando alla porta: sono già entrati.
E non con due spicci.
Ieri le due sigle più «Miami style» che potessero atterrare nel dossier Ilva – Bedrock Industries e Flacks Group – hanno presentato le loro offerte. Americani entrambi. Dall’odore ancora fresco di oceano, baseball e investimenti senza fronzoli.
E non è un caso isolato.
In Italia operano oltre 2.700 imprese a partecipazione statunitense, che generano 400.000 posti di lavoro. Non esattamente compratori di souvenir. Sono radicati nei capannoni, nella logistica, nelle tecnologie, nei servizi, nella manifattura. Un pezzo intero di economia reale. Poi c’è il capitolo dei giganti della finanza globale: BlackRock, Vanguard, i soliti nomi che quando entrano in una stanza fanno più rumore del tuono. Hanno fiutato l’aria e annusato l’Italia come fosse un tartufo bianco d’Alba: raro, caro e conveniente.
Gli incontri istituzionali degli ultimi anni parlano chiaro: data center, infrastrutture, digitalizzazione, energia.
Gli americani non si accontentano. Puntano al core del futuro: tecnologia, energia, scienza della vita, space economy, agritech.
Dopo l’investimento di Kkr nella rete fissa Telecom - uno dei deal più massicci degli ultimi quindici anni - la direzione è segnata: Washington ha scoperto che l’Italia rende.
A ottobre 2025 la grande conferma: missione economica a Washington, con una pioggia di annunci per oltre 4 miliardi di euro di nuovi investimenti. Non bonus, non promesse, ma progetti veri: space economy, sostenibilità, energia, life sciences, agri-tech, turism. Tutti settori dove l’Italia è più forte di quanto creda, e più sottovalutata di quanto dovrebbe.
A questo punto il pendolo ha parlato: gli americani investono, i francesi frenano.
E chissà che, alla fine, non si chiuda il cerchio: gli Usa tornano in Italia come investitori netti, e Berlusconi torna in Francia come ai tempi dell’avventura di La Cinq.
Magari senza che un nuovo Mitterrand tolga la spina.
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