2024-06-18
Pur di attaccare il governo Meloni la sinistra scopre le cure domiciliari
«La Stampa» scorda che i tagli alla sanità sono opera degli esecutivi progressisti per accusare la destra di sabotare l’assistenza territoriale. Peccato che tutta quest’attenzione sia mancata durante la pendemia.«Baratro assistenza territoriale», titolava ieri la Stampa. Sarebbe stato un articolo perfetto durante la pandemia, quando milioni di italiani furono lasciati nelle loro case ad arrangiarsi con un virus terrificante secondo la narrazione ufficiale, e di fatto disastroso perché non si offrivano cure domiciliari.Per tre anni, invece, i giornaloni evitarono di ricordare ai governi Conte 2, Draghi e all’allora ministro della Salute, Roberto Speranza, che la risposta all’emergenza sanitaria a livello extraospedaliero era totalmente inadeguata. Non vennero destinati finanziamenti, fu inadeguata la distribuzione delle risorse umane disponibili, non si diedero indicazioni ai caregivers familiari, né linee guida a medici e infermieri per la presa in carico sul territorio, almeno erogando prestazioni a distanza.I protocolli di cura erano a dir poco ridicoli, per lungo tempo limitati a «tachipirina e vigile attesa» così gli assistiti, soggetti spesso fragili e con molteplici patologie, si sentirono abbandonati. Molti non furono aiutati ad affrontare la malattia da Covid e sono deceduti fuori da reparti inaccessibili, per il rischio contagio, e sovraffollati.Non c’è stata assistenza territoriale nel rispondere ai bisogni degli italiani, quando le cure domiciliari avrebbero permesso di gestire diversamente la pandemia, però solo adesso si scopre che per ogni anziano assistito in casa la media annua è 9 ore di lavoro dell’infermiere e altre 6 ore di altre professioni sanitarie.Servirebbero minimo 20 ore «ma mensili, ritenute a livello internazionale necessarie per consentire a un non autosufficiente di restare a casa senza peggiorare», quindi il «minimo sindacale» è di «2.404» ore, scrive la Stampa. Riporta i dati di Agenas, l’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali, che in un recente rapporto ha evidenziato l’aumento dell’indice di vecchiaia (182,6% nel 2021), e come siano circa 2,5 milioni le persone con bisogni assistenziali complessi.Obiettivo dell’articolo è affermare che 1.988.000 italiani over 65, beneficiari dell’assistenza domiciliare nel 2023, in realtà non hanno goduto che di briciole. Quindi, sarebbero false le promesse della Missione 6 del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), per la riorganizzazione e il potenziamento dell’assistenza territoriale, quando si prevede «di prendere in carico almeno il 10% degli anziani sopra i 65 anni, in particolare quelli con patologie croniche o non autosufficienti».Inoltre, avverte il giornale del gruppo Gedi, «nel 2030 i non autosufficienti saranno 5 milioni, ma l’aiuto a casa per molti rimane un miraggio». Colpa del governo Meloni? Certo, questo sostiene la sinistra e le testate mainstream amplificano, inondando il lettore di servizi sullo sfacelo della sanità e su un diritto alla salute non più tutelato. L’articolo di ieri tirava in ballo Alessandro Chiarini, presidente del Coordinamento nazionale famiglie con disabilità (Confad), «uno che i problemi li tocca con mano quotidianamente», che avrebbe spiegato come il quadro dell’assistenza territoriale «sia tutt’altro che edificante». Chiarini lo segnalava già nell’aprile 2020. «Le misure prese nel decreto “Cura Italia” si sono dimostrare ampiamente inadeguate», denunciava su Avvenire. «L’epidemia da Covid non ha fatto altro che amplificare le difficoltà di chi si prende cura delle persone non autosufficienti, e quindi anche di anziani».Presidente del Consiglio era allora Giuseppe Conte, che annunciando la manovra a marzo di quell’anno dichiarava: «Questa è una manovra economica poderosa, non possiamo combattere un’alluvione con gli stracci e i secchi. Ma abbiamo costruito una vera e propria diga protettiva per famiglie, imprese e lavoratori e vogliamo che l’Europa ci segua». Si spese moltissimo per acquistare vaccini, mascherine e banchi a rotelle inutilizzabili, per creare (non ovunque) nuove terapie intensive, ma l’assistenza territoriale rimase lettera morta.È uno dei grossi problemi che si sono accumulati in un decennio di 37 miliardi di euro di tagli. Stagione di spending review aperta da Mario Monti con il suo Salva Italia, stabilendo che il fondo sanitario nazionale doveva subire un taglio di un 1 miliardo di euro nel 2012 e di 2 miliardi a decorrere dal 2013. Con la finanziaria del 2014 (governo Letta) sparirono altri 8,4 miliardi di euro. Tra il 2015 e il 2017, Matteo Renzi promise 16,6 miliardi di euro al Sistema sanitario nazionale ma non vennero mai erogati.Poco da stupirsi, ricordando che il primo taglio sociale del governo Gentiloni, nel febbraio 2017, riduceva a meno di un terzo il fondo con cui si finanzia l’assistenza domiciliare, passato da 313 milioni di euro a 99,7 milioni. E altri 50 milioni si toglievano all’autosufficienza. Non solo, nel varare i nuovi Livelli essenziali di assistenza (Lea) nel settore socio-sanitario, venne ignorata l’assistenza domiciliare integrata. Stiamo parlando di governi nei quali i ministri della Salute erano tutti di centro sinistra, con evidente scarsa sensibilità anche per anziani e non autosufficienti.
Il presidente di Generalfinance e docente di Corporate Finance alla Bocconi Maurizio Dallocchio e il vicedirettore de la Verità Giuliano Zulin
Dopo l’intervista di Maurizio Belpietro al ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin, Zulin ha chiamato sul palco Dallocchio per discutere di quante risorse servono per la transizione energetica e di come la finanza possa effettivamente sostenerla.
Il tema centrale, secondo Dallocchio, è la relazione tra rendimento e impegno ambientale. «Se un green bond ha un rendimento leggermente inferiore a un titolo normale, con un differenziale di circa 5 punti base, è insensato - ha osservato - chi vuole investire nell’ambiente deve essere disposto a un sacrificio più elevato, ma serve chiarezza su dove vengono investiti i soldi». Attualmente i green bond rappresentano circa il 25% delle emissioni, un livello ritenuto ragionevole, ma è necessario collegare in modo trasparente raccolta e utilizzo dei fondi, con progetti misurabili e verificabili.
Dallocchio ha sottolineato anche il ruolo dei regolamenti europei. «L’Europa regolamenta duramente, ma finisce per ridurre la possibilità di azione. La rigidità rischia di scoraggiare le imprese dal quotarsi in borsa, con conseguenze negative sugli investimenti green. Oggi il 70% dei cda delle banche è dedicato alla compliance e questo non va bene». Un altro nodo evidenziato riguarda la concentrazione dei mercati: gli emittenti privati si riducono, mentre grandi attori privati dominano la borsa, rendendo difficile per le imprese italiane ed europee accedere al capitale. Secondo Dallocchio, le aziende dovranno abituarsi a un mercato dove le banche offrono meno credito diretto e più strumenti di trading, seguendo il modello americano.
Infine, il confronto tra politica monetaria europea e americana ha messo in luce contraddizioni: «La Fed dice di non occuparsi di clima, la Bce lo inserisce nei suoi valori, ma non abbiamo visto un reale miglioramento della finanza green in Europa. La sensibilità verso gli investimenti sostenibili resta più personale che istituzionale». Il panel ha così evidenziato come la finanza sostenibile possa sostenere la transizione energetica solo se accompagnata da chiarezza, regole coerenti e attenzione al ritorno degli investimenti, evitando mode o vincoli eccessivi che rischiano di paralizzare il mercato.
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Intervistato da Maurizio Belpietro, direttore de La Verità, il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica Gilberto Pichetto Fratin non usa giri di parole: «Io non sono contro l’elettrico, sono convinto che il motore elettrico abbia un futuro enorme. Ma una cosa è credere in una tecnologia, un’altra è trasformarla in un’imposizione politica. Questo ha fatto l’Unione Europea con la scadenza del 2035». Secondo Pichetto Fratin, il vincolo fissato a Bruxelles non nasce da ragioni scientifiche: «È come se io oggi decidessi quale sarà la tecnologia del 2040. È un metodo sovietico, come le tavole di Leontief: la politica stabilisce dall’alto cosa succederà, ignorando il mercato e i progressi scientifici. Nessuno mi toglie dalla testa che Timmermans abbia imposto alle case automobilistiche europee – che all’epoca erano d’accordo – il vincolo del 2035. Ma oggi quelle stesse industrie si accorgono che non è più sostenibile».
Il motore elettrico: futuro sì, imposizioni no. Il ministro tiene a ribadire di non avere pregiudizi sulla tecnologia: «Il motore elettrico è il più semplice da costruire, ha sette-otto volte meno pezzi, si rompe raramente. Pensi al motore del frigorifero: quello di mia madre ha funzionato cinquant’anni senza mai guastarsi. È una tecnologia solida. Ma da questo a imporre a tutti gli europei di pagare la riconversione industriale delle case automobilistiche, ce ne corre». Colonnine e paradosso dell’uovo e della gallina. Belpietro chiede conto del tema infrastrutturale: perché le gare per le colonnine sono andate deserte? Pichetto Fratin replica: «Perché non c’è il mercato. Non ci sono abbastanza auto elettriche in circolazione, quindi nessuno vuole investire. È il classico paradosso: prima l’uovo o la gallina?». Il ministro racconta di aver tentato in tutti i modi: «Ho fatto bandi, ho ripetuto le gare, ho perfino chiesto a Rfi di partecipare. Alla fine ho dovuto riconvertire i 597 milioni di fondi europei destinati alle colonnine, dopo una lunga contrattazione con Bruxelles. Ma anche qui si vede l’assurdità: l’Unione Europea ci impone obiettivi, senza considerare che il mercato non risponde».
Prezzi eccessivi e mercato bloccato. Un altro nodo è il costo delle auto elettriche: «In Germania servono due o tre annualità di stipendio di un operaio per comprarne una. In Italia ce ne vogliono cinque. Non è un caso che fino a poco tempo fa fossero auto da direttori di giornale o grandi manager. Questo non è un mercato libero, è un’imposizione politica». L’errore: imporre il motore, non le emissioni. Per Pichetto Fratin, l’errore dell’Ue è stato vincolare la tecnologia, non il risultato: «Se l’obiettivo era emissione zero nel 2035, bastava dirlo. Ci sono già veicoli diesel a emissioni zero, ci sono biocarburanti, c’è il biometano. Ma Bruxelles ha deciso che l’unica via è l’elettrico. È qui l’errore: hanno trasformato una direttiva ambientale in un regalo alle case automobilistiche, scaricando il costo sugli europei».
Bruxelles e la vicepresidente Ribera. Belpietro ricorda le dichiarazioni della vicepresidente Teresa Ribera. Il ministro risponde: «La Ribera è una che ascolta, devo riconoscerlo. Ma resta molto ideologica. E la Commissione Europea è un rassemblement, non un vero governo: dentro c’è di tutto. In Spagna, per esempio, la Ribera è stata protagonista delle scelte che hanno portato al blackout, puntando solo sulle rinnovabili senza un mix energetico». La critica alla Germania. Il ministro non risparmia critiche alla Germania: «Prima chiudono le centrali nucleari, poi riaprono quelle a carbone, la fonte più inquinante. È pura ipocrisia. Noi in Italia abbiamo smesso col carbone, ma a Berlino per compiacere i Verdi hanno abbandonato il nucleare e sono tornati indietro di decenni».
Obiettivi 2040: «Irrealistici per l’Italia». Si arriva quindi alla trattativa sul nuovo target europeo: riduzione del 90% delle emissioni entro il 2040. Pichetto Fratin è netto: «È un obiettivo irraggiungibile per l’Italia. I Paesi del Nord hanno territori sterminati e pochi abitanti. Noi abbiamo centomila borghi, due catene montuose, il mare, la Pianura Padana che soffre già l’inquinamento. Imporre le stesse regole a tutti è sbagliato. L’Italia rischia di non farcela e di pagare un prezzo altissimo». Il ruolo del gas e le prospettive future. Il ministro difende il gas come energia di transizione: «È il combustibile fossile meno dannoso, e ci accompagnerà per decenni. Prima di poterlo sostituire servirà il nucleare di quarta generazione, o magari la fusione. Nel frattempo il gas resta la garanzia di stabilità energetica». Conclusione: pragmatismo contro ideologia. Nelle battute finali dell’intervista con Belpietro, Pichetto Fratin riassume la sua posizione: «Ridurre le emissioni è un obiettivo giusto. Ma un conto è farlo con scienza e tecnologia, un altro è imporre scadenze irrealistiche che distruggono l’economia reale. Qui non si tratta di ambiente: si tratta di ideologia. E i costi ricadono sempre sugli europei.»
Il ministro aggiunge: «Oggi produciamo in Italia circa 260 TWh. Il resto lo importiamo, soprattutto dalla Francia, poi da Montenegro e altri paesi. Se vogliamo davvero dare una risposta a questo fabbisogno crescente, non c’è alternativa: bisogna guardare al nucleare. Non quello di ieri, ma un nuovo nucleare. Io sono convinto che la strada siano i piccoli reattori modulari, anche se aspettiamo i fatti concreti. È lì che dobbiamo guardare». Pichetto Fratin chiarisce: «Il nucleare non è un’alternativa alle altre fonti: non sostituisce l’eolico, non sostituisce il fotovoltaico, né il geotermico. Ma è un tassello indispensabile in un mix equilibrato. Senza, non potremo mai reggere i consumi futuri». Gas liquido e rapporti con gli Stati Uniti. Il discorso scivola poi sul gas: «Abbiamo firmato un accordo standard con gli Stati Uniti per l’importazione di Gnl, ma oggi non abbiamo ancora i rigassificatori sufficienti per rispettarlo. Oggi la nostra capacità di importazione è di circa 28 miliardi di metri cubi l’anno, mentre l’impegno arriverebbe a 60. Negli Usa i liquefattori sono in costruzione: servirà almeno un anno o due. E, comunque, non è lo Stato a comprare: sono gli operatori, come Eni, che decidono in base al prezzo. Non è un obbligo politico, è mercato». Bollette e prezzi dell’energia. Sul tema bollette, il ministro precisa: «L’obiettivo è farle scendere, ma non esistono bacchette magiche. Non è che con un mio decreto domani la bolletta cala: questo accadeva solo in altri regimi. Noi stiamo lavorando per correggere il meccanismo che determina il prezzo dell’energia, perché ci sono anomalie evidenti. A breve uscirà un decreto con alcuni interventi puntuali. Ma la verità è che per avere bollette davvero più basse bisogna avere energia a un costo molto più basso. E i francesi, grazie al nucleare, ce l’hanno a prezzi molto inferiori ai nostri».
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